Durante la dominazione austriaca del Lombardo-Veneto si ebbero parecchie battaglie scontri e moti, e si assistette a un fenomeno insolito e di difficile comprensione. Di notte soprattutto, vagavano per i campi di battaglia italiani delle donne, munite di lanterna, che portavano assistenza ai feriti che si lamentavano inutilmente. Portavano acqua, cibo se i soldati potevano mangiare, cure alle ferite da arma da fuoco o da baionetta. Per questo furono spesso fucilate, soprattutto dall’esercito austriaco. Quelle donne vennero ricordate spesso, soprattutto dopo la terribile battaglia del 24 giugno 1859 sui campi di San Martino e Solferino.

Si trattò di una delle più violente battaglie che la storia militare ricordi, una vera e propria carneficina. Documentata da un uomo giunto in Italia per incontrare il re di Francia Napoleone III, sapendo che sarebbe stato in Lombardia per la guerra contro l’Austria-Ungheria che lo vedeva schierato a fianco dello Stato sabaudo. L’intenzione era di parlare con l’Imperatore dei suoi affari nelle colonie francesi. Si imbatté così, suo malgrado, nei soccorsi ai feriti della terribile battaglia che portò alla liberazione dalla dominazione straniera della Lombardia, a seguito della quale venne annessa al Piemonte. L’uomo si chiamava Jean Henri Dunant, autore de Un souvenir de Solferino, in prima edizione italiana nel 1863, nel quale possiamo trovare interessanti descrizioni dei fatti accaduti. “[…] finite le munizioni e spezzati i fucili, ci si accoppa a colpi di pietra, si lotta corpo a corpo. I croati sgozzano tutti quelli che incontrano; finiscono i feriti dell’esercito alleato, colpendoli a morte […] Dappertutto gli uomini cadono a migliaia, mutilati, sventrati, sforacchiati da pallottole […]”. Ogni esercito aveva il suo ospedale da campo, più i feriti venivano portati in quelli, piccoli o mediamente grandi, esistenti a Castiglione delle Stiviere, Pozzolengo, Medole soprattutto.

Dopo le prime cure, i feriti venivano inviati, in convoglio, a Brescia. Gli austriaci cercavano di soccorrere i propri feriti e di portarli a Peschiera e a Verona. Scrive Jean Henri Dunant: “I convogli da Castiglione a Brescia sono più regolari, si compongono sia di vetture ambulanza, sia di carri rustici, trainati da buoi che procedono lentamente […] sotto un sole ardente ed in una polvere tale che il pedone […] affonda sin sopra alla caviglia […]”. I feriti sono ammucchiati l’uno sull’altro, riparati soltanto e a malapena da rami d’albero. “In tutti i paesi posti sulla strada che conduce a Brescia, le donne sono sedute davanti alle porte preparando filacce, in silenzio; quando un convoglio arriva, salgono sulle vetture, sostituiscono le compresse, lavano le ferite, rinnovano le filacce [le bende che venivano ricavate dalla biancheria usata, tagliandola a strisce di varia larghezza], che inzuppano di acqua fresca, e versano cucchiaiate di brodo, di vino o di limonata nella bocca di coloro che non hanno più la forza di alzare né testa né braccia. I carriaggi che portano incessantemente al campo francese […] rifornimenti di ogni genere […] invece di fare il viaggio di ritorno a vuoto, caricano e trasportano malati a Brescia”.

E, a proposito di Brescia: “Questa città così graziosa e pittoresca è trasformata non in una grande ambulanza provvisoria come Castiglione, bensì, in un immenso ospedale: le due cattedrali, le chiese, i palazzi, i conventi, i collegi, le caserme, in una parola tutti i suoi edifici, sono ingombri delle vittime di Solferino. Sono stati improvvisati quindicimila letti da un giorno all'altro; i generosi abitanti hanno fatto quello che non sarebbe stato possibile fare in nessun luogo di fronte a simili avvenimenti. Al centro della città è l'antica basilica chiamata Duomo Vecchio o la Rotonda che con le sue due cappelle contiene un migliaio di feriti. Il popolo li visita continuamente e le donne di ogni classe portano loro a profusione arance gelati, biscotti, dolci. La umile vedova o la più povera vecchia non si ritiene dispensata di portare il suo tributo di simpatia, la sua modesta offerta. Le stesse scene si ripetono nella nuova cattedrale, magnifico tempio di marmi bianchi dalla vasta cupola, in cui sono raccolti centinaia di feriti, e si ripetono altresì negli altri quaranta edifici, chiese e ospedali che contengono fra tutti quasi ventimila feriti e mutilati”.

E ancora: “Con che dolcezza e pazienza gli abitanti di Brescia si dedicano adesso […] all’assistenza di chi si è consacrato alla causa del loro paese per liberarli dalla dominazione straniera! […] Com’è commovente vedere quelle famiglie improvvisate seguire religiosamente, lungo il viale dei cipressi da porta San Giovanni fino al Camposanto, per accompagnare, sino all’ultima dimora, il feretro dell’ufficiale francese, loro ospite di alcuni giorni […] di cui forse ignorano il nome!”. Il medico capo francese, con le lacrime agli occhi, vedendo come la città si organizzava, affermò di trovarsi di fronte ad un miracolo.

L’impressione di Dunant dinanzi a questi esempi di solidarietà, espressi nei confronti di tutti i soldati feriti e non soltanto dalle popolazioni dei territori della battaglia, lo spingerà a formulare con grande convinzione la necessità di un’assistenza al di sopra delle parti, siglata poi con le Convenzioni di Ginevra. La commozione del cittadino svizzero sarà totale nei confronti del popolo italiano, osservando che, nel caso in cui tra i feriti franco-piemontesi ci fossero degli austriaci, veniva loro riservata la medesima cura e attenzione, comportamenti che non erano affatto normali nei confronti di un ferito nemico, soprattutto quando questi era il rappresentante del dominio odiato, e perché chi prestava cure ad un soldato nemico era spesso condannato a morte per alto tradimento.

Così, nel 1863, assieme al giurista Gustave Moynier, al generale Guillame-Henri Dufour, ai medici Louis Appia e Theodore Maunoir, a Ginevra, Dunant fondò il comitato di Ginevra per il soccorso dei militari feriti chiamato Comitato dei Cinque, che poi divenne Comitato Internazionale della Croce Rossa. La prima conferenza internazionale vide la partecipazione di 14 Paesi che, il 29 ottobre 1863, firmeranno la Prima Carta Fondamentale con le dieci risoluzioni che definiscono le funzioni del comitato di soccorso. È l’atto di nascita della Croce Rossa Internazionale con il motto “Inter arma carita per humanitatem ad pacem” e sede a Ginevra, in Avenue de la Paix 19. I principi sono imparzialità, neutralità, umanità, volontarietà, universalità. Primo banco di prova sarà la guerra tra Prussia e Danimarca del 1864. Le difficoltà operative porteranno alla prima Convenzione di Ginevra dell’agosto 1864 che cominciarono a sancire equipaggiamenti e necessità. Nel 1876, l’impero ottomano pose delle obiezioni circa l’uso del simbolo della croce per i soldati musulmani, portando successivamente all’adozione del simbolo della Mezzaluna Rossa a cui farà seguito la richiesta israeliana di utilizzare la Stella di David, fino all’uso del Cristallo Rosso.

Sicuramente la prova del fuoco vera e propria per l’organizzazione fu la Prima guerra mondiale, per l’alto numero di persone e territori coinvolti e i lunghi anni di sofferenza, sia militare che civile. Nel 1914, la Croce Rossa comitato italiano disponeva di circa 4mila infermiere che nel corso del conflitto raggiunsero circa le novemila unità al comando della Duchessa d’Aosta. Furono impiegate sia negli ospedali civili e militari, che sulla linea del fronte, così come in tutte le unità di soccorso approntate, di nuovo, in ville, conventi, chiese, edifici pubblici, al Quirinale, sui treni ospedale. L’apporto dato da quelle donne e la loro abnegazione furono tali che molte sorelle furono insignite di alte onorificenze, come la medaglia d’argento al valor militare conferita alla Duchessa d’Aosta. Per gli interventi durante la prima guerra mondiale, alla Croce Rossa venne assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1917.

La necessità di assistenza ai soldati feriti, rese quindi indispensabile l’apporto alla guerra delle donne. Già chiamate negli ospedali e nel soccorso in genere, anche “solo” per preparare bende come già nelle guerre precedenti, le donne negli anni della Grande Guerra dovettero sostituire gli uomini in tutte le occupazioni civili, non soltanto perché gli uomini erano scarsi per via della chiamata alle armi, ma anche per l’ingentissima moria di persone causata dall’epidemia di febbre spagnola, una forma influenzale particolarmente virulenta negli anni che vanno dal 1917 al 1919-20. Quindi le donne divennero contadine, operaie nel campo tessile, già considerato più idoneo per le donne al tempo, ma anche nel settore bellico, chimico eccetera; addette ai tram, alla cucina degli ospedali e delle mense, responsabili di sanatori, orfanotrofi, scuole… La guerra divenne un incredibile momento di emancipazione femminile e di presa di coscienza delle proprie capacità, non più soltanto appannaggio delle suffragette, dai più considerate un po’ folli e un po’ troppo all’avanguardia. Molte ragazze e signore divennero volontarie della Croce Rossa, in Italia cominciando a frequentare i corsi di preparazione a partire dal 1906, ma anche medici e in ogni caso spesso capaci di ogni sorta di operazione che portasse alla salvezza di soldati destinati, per infezioni e ferite, alla morte certa. Il ruolo dell’infermiera fu fondamentale e immortalato dal celebre romanzo di Hemingway Addio alle armi, come abbiamo avuto modo di scrivere nei precedenti articoli.

Soprattutto in Italia il momento fu determinante, dato che il congresso delle donne italiane tenutosi per la prima volta a Roma nel 1908, aveva condotto a un niente di fatto per lo scontro tra donne laiche e donne cattoliche proprio su temi forti come il basilare diritto di voto, il ruolo della donna madre, il divorzio, il ruolo dell’istruzione cattolica, eccetera. In quegli anni, era soprattutto il diritto di voto l’argomento che aveva visto le suffragette mobilitarsi in molti Paesi d’Europa e degli Stati Uniti, e proprio a questo argomento si deve il nome stesso di suffragette, da suffrage, voto in inglese e in francese. Già si parlava, comunque, di pari diritto all’istruzione rispetto agli uomini, al lavoro, all’unione con un uomo di propria scelta e al potersi mantenere da sole, o di vivere da sole, volendolo.

Le donne che lavoravano già prima del conflitto, percepivano almeno il 40 per cento in meno rispetto agli uomini per un lavoro pari, e l’occupazione delle bambine era largamente normale, dato che queste non avevano diritto all’istruzione e che, se non avevano qualcuno che preparava loro la dote e/o il corredo, non si sarebbero potute sposare. Era diffuso il “Comandamento della buona moglie” che prevedeva, in sintesi, di non infastidire troppo il marito chiedendogli vestiti o altro, dovendolo ritenere per se stessa un quasi dio al quale essere sottomessa. L’immaginario degli uomini che venivano curati dalle donne era un po’ quello di venire coccolati dalla madre o dalla sorella o dalla moglie, comunque con la donna in un ruolo prezioso, ma che bene le si confaceva per mantenere lo status quo che poi si vedrà rivolere in fretta, infatti, nel dopoguerra. In ogni caso, furono proprio le donne a rendersi conto di non essere affatto incapaci, e con percentuali altissime rispetto al normale precedente tempo di pace. La guerra, pertanto, veicolò in modo massiccio l’emancipazione femminile.

Le donne nell’Austria-Ungheria avevano ottenuto il permesso di studiare a livello universitario soltanto nel 1900 e fu pertanto possibile, durante il primo conflitto mondiale, averle già medico, impegnate negli ospedali da campo e in prima linea tanto come i colleghi uomini. A loro non venivano risparmiati pericoli e rischi, quindi perché ritenerle meno di un maschio? Certo, spesso durante la cura dei feriti di guerra o nei sanatori, contraevano le malattie dei pazienti perché sottoposte a ritmi di assistenza massacranti e in carenza igienica e, soprattutto, di cibo e sonno. Pertanto si ammalavano e morivano anche per ragioni di servizio, ma non perché meno predisposte a sopportare la fatica, che per loro, nella maggior parte dei casi, era molto più alta rispetto ai colleghi uomini. Senza contare che, essendocene molte, era più facile utilizzare le donne come portatrici di cibo, munizioni e derrate varie, perché costavano molto meno degli animali da soma. I viaggi delle donne verso le trincee venivano pagati, ma queste dovevano superare fino a mille metri di dislivello per poi rischiare di essere uccise dai cecchini. Fu l’imperatore Francesco Giuseppe a decretare che anche le donne potevano essere decorate al valore militare, come infatti avvenne a partire dal 1915. Inoltre, molte donne erano impiegate a raccogliere contributi materiali, fondi, donazioni per sostenere l’acquisto di prodotti di medicazione, ma anche di armi, dato che la guerra aveva chiesto uno sforzo immane di tutti i Paesi coinvolti per cercare di sopravvivervi.

Il soccorso durante la Prima guerra mondiale, poi, vide urgenze mai immaginate in altri momenti. Non era mai accaduto, infatti, di combattere su vette così alte come sul fronte italo-austriaco, a quote comprese tra i 2.000 e i quasi 4.000 metri, come sul gruppo dei massicci dell’Adamello-Presanella e dell’Ortles-Cevedale. Furono necessari non soltanto immani organizzazioni per portare lassù uomini, derrate, attrezzi per approntare i rifugi, muli e armamenti, ma anche barelle da agganciare alle teleferiche per trasportare i feriti. La Lombardia ebbe il più alto numero di situazioni di questo genere, con necessità di fare arrivare cassette mediche alleggerite rispetto a quelle normali da campo, farmaci e bende: c’era la fascia di mussola speciale da 5 metri; le tavolette di benzonaftolo puro da 0,25 grammi l’una; le tavolette da 0,30 grammi l’una di clorato di potassio; le ampolle di tintura di iodio iodurata; attrezzature medico-chirurgiche di assoluta emergenza, rispetto a quanto immaginiamo oggigiorno, ma capaci di far salvare vite permettendo l’estrazione di proiettili o l’amputazione di arti. Durante la prima guerra mondiale, oltre alla Croce Rossa, soltanto il Vaticano mandò vettovagliamenti umanitari, dal momento che non esistevano altre organizzazioni internazionali deputate allo scopo e ogni esercito cercava di cavarsela da sé o grazie ai propri alleati.

Il soccorso, infatti, non si limitava all’intervento sanitario, ma cercava di garantire acqua, cibo, sapone, disinfestazione dai pidocchi e cura preventiva, dove possibile, se non vaccinazioni, contro malattie come tifo e peste. La scarsità di cibo era considerata la primaria causa di malattia dopo le ferite da combattimento o dei cecchini. I problemi da affrontare sul campo erano innumerevoli: mancavano gli anestetici e, troppo spesso, non ci sarebbe nemmeno stato il tempo di adoperarli. Le trasfusioni di sangue, necessarie per le ampie ferite, avvenivano spesso, dove possibile, da un soldato all’altro e se le ferite si infettavano, pochi erano i rimedi, date le scarsissime condizioni igieniche, la contaminazione da fango e sporcizia, la mancanza di acqua potabile disponibile. Gli antibiotici non erano ancora stati inventati e il concetto di lavarsi le mani prima di toccare un ferito non sempre poteva essere messo in pratica.

Allo stesso tempo, i campi di battaglia furono un grande laboratorio dove poter testare come potersi comportare per migliorare la sanità pubblica. Marie Curie e la figlia installarono negli ospedali dei campi di battaglia delle macchine per le radiografie, in modo da poter adoperare e testare la relativamente nuova tecnica in modo massiccio, come mai prima era stato possibile. Per esempio, chi si laureava in quei mesi veniva mandato subito operativo al fronte senza tirocinio, tanta era la necessità: il tirocinio era in termini stretti sul campo. E diventava un tirocinio anche capire se e quando il soldato mentiva per essere risparmiato al fronte: ogni esercito considerava in modo differente i disturbi traumatici. O i soldati venivano ritenuti delle donnette paurose, oppure venivano reimpiegati in ambiti non di prima linea, come negli arsenali, in modo che potessero contribuire lo stesso alla causa del proprio Paese pur senza più combattere. Molti erano gli atti di automutilazione: i soldati in trincea si sparavano alle mani, alle gambe, pur di essere mandati nelle retrovie.

La guerra fu preziosa anche per mettere a punto altre tecniche che prima non erano state necessarie su così vasta scala o non erano state necessarie per niente. La catena di evacuazione, per esempio, o la pianificazione degli sgomberi di uomini, mezzi, ospedali da campo, paesi. Feriti. I portantini erano indispensabili, ma dovevano operare il più delle volte senza che ci fosse un cessate il fuoco che garantiva di soccorrere i feriti e di portare via i cadaveri. Le ferite da arma da fuoco allo stomaco avevano reso necessario che gli ospedali da campo venissero allestiti a non più di due/tre chilometri dalla linea di fuoco, perché necessitavano un intervento immediato. E per immediato si intendeva entro la prima ora dall’avvenuto ferimento: quattro soldati su cinque, infatti, in quella prima ora morivano se non venivano curati. Cominciarono, così, a venire studiate sempre migliori strategie di soccorso, perché anche con quello si poteva vincere o perdere una guerra. Spesso la guerra porta dei miglioramenti alla vita civile, ma anche qualche novità della vita civile è stata sperimentata in guerra, non soltanto con le nuove armi, ma anche con nuovi metodi o protocolli di intervento medico/sanitario che hanno consentito novità importanti anche per il futuro.