La Romagna ha dato al giornalismo un grande maestro come Leo Longanesi, riconosciuto e apprezzato come caposcuola di uno stile al contempo impegnato e divulgativo, dove la sferzata polemica si stemperava in riflessioni agrodolci sull’Italia del ‘900. Sempre dalla Romagna viene un altro personaggio, più di nicchia e meno conosciuto, che ha comunque lasciato anche una preziosa testimonianza di impegno e stile giornalistici: Alfredo Oriani (1852-1909). Romanziere, storico, drammaturgo, poeta, polemista: tante le sfaccettature di questa singolare personalità della nostra letteratura e della nostra cultura.

Il Solitario del Cardello, o anche E’ mat d’ e’ Cardell, così chiamato per il suo forzato esilio nella fatiscente dimora paterna di Casola Valsenio sull’Appennino ravennate e per il suo carattere, tra irsuto e umbratile, si sentì sempre offeso dall’incapacità della critica di vedere, nelle varie manifestazioni della sua opera, un tutto unitario tenuto insieme dalla sua capacità di essere soprattutto un “pensatore”. E questo dissidio caratterizzò anche un suo aspetto non pienamente riconosciuto: quello del giornalista. A questa attività si dedicò negli ultimi dieci anni della sua vita e, almeno inizialmente, spinto soprattutto dalla necessità di realizzare quel minimo di introiti indispensabili per sopravvivere ai dissesti derivati dalle annate agricole negative del suo podere del Cardello e dagli insuccessi, anche economici, delle sue opere narrative e storiche.

Fino a quel momento, Oriani aveva sempre aborrito il ruolo e la funzione del giornalista, perché vedeva in lui, generalmente, un manutengolo del potere, costretto a prostituire il suo ingegno e a patire umilianti compromessi con la direzione e la proprietà del giornale: “Quasi sempre il giornalista è ancora più temuto che spregiato: egli ha in pugno la fortuna dell’individuo nella credulità del pubblico: dal cantante al deputato, dall’industriale al maestro di scuola, dall’affarista al retore, dal grande autore allo scrittorello, che vuole essere stampato almeno una volta nella propria città, tutti hanno bisogno di lui e del giornale…” . Però, una volta entrato nel giro della stampa periodica e quotidiana, l’autore de La disfatta assaporò il gusto di riuscire a sottoporre la realtà politica, sociale e culturale allo staffile della sua critica impietosa e sardonica, togliendosi anche la soddisfazione di lanciare qualche sasso nella piccionaia di quelli che l’avevano sempre sottostimato o ignorato.

Comprese così la portata innovativa del quotidiano, che era divenuto: "Il più vario e il più rapido veicolo delle idee, un focolare ed un faro mobile per illuminare e riscaldare l’ombra della troppo lunga notte polare, crebbe, si dilatò mutò, salì, talvolta raggiunse il valore del libro, rarissimamente lo superò; diede battaglia alle idee e agli uomini, puntellò e rovesciò governi e dinastie, torrente che feconda e cloaca che ammorba… " e a più di un secolo di distanza, non può darsi definizione più penetrante e attuale. Riuscì così a distillare, come ha scritto Spadolini, uno stile di elzevirista “esemplare, tagliente, graffiante, anticipatore di quello che sarà poi l’elzeviro dominante nei nostri quotidiani per alcuni decenni”. Uno stile, dunque, che permetteva di non rinunciare al suo ruolo di “pensatore” e “moralista” e sotteso da un dinamismo spigliato, ma anche da sfumature colloquiali e riflessive che conciliavano le due facce del suo carattere, da una parte distruttivo e intollerante e dall’altra malinconicamente sognatore.

Le mai dismesse animosità e permalosità polemiche lo portarono a divenire un vero e proprio nomade di quotidiani e periodici, collaborò infatti, ma sempre in modo polemico e controverso, a Il Fanfulla, La Tribuna, La Stampa, L’Alba e, soprattutto al Resto del Carlino e, negli ultimi anni, al Giornale d’Italia. Dalle più rivelatrici raccolte dei suoi articoli, come Fuochi di bivacco, Sotto il fuoco o Ultima Carica emerge la capacità di intervenire su aspetti di attualità, di morale, di estetica, di politica nazionale e internazionale con una veemenza partecipativa che non esclude la padronanza critica e la raffinatezza espositiva. Prendiamo un problema ancor oggi dibattuto: l’antagonismo tra scuola pubblica laica e istituti privati religiosi; in Scuola Laica del 1899, Oriani si chiede il perché del successo degli istituti religiosi, dove anche genitori laici o non credenti o addirittura anticlericali mandano i figli “nel periodo più importante della loro formazione morale” e la sua acuta risposta è che la scuola laica, pubblica o privata, “non ci ha ancora dato una morale così precisa e comunicabile come quella della religione… le nostre scuole meglio ordinate potrebbero forse istruire, ma non educare. L’educazione o è un risultato inconscio, inestimabilmente prezioso della famiglia, o bisogna artificialmente prepararlo isolando i giovani, sottoponendoli a una disciplina morale e fisica, premendo sul loro spirito quotidiano”. In Italia, sottolinea Oriani, non ci fu mai una vera rivoluzione politica e culturale che abbia potuto offrire una profonda educazione laica, perché “indarno nella nostra storia cercheremmo le vaste affermazioni… della riforma luterana o puritana, o del rinnovamento enciclopedista, del nihilismo russo, del socialismo tedesco… il nostro risorgimento fu un compromesso tra repubblica e monarchia, l’eroico sopruso di una minoranza intellettuale sulla passività recalcitrante delle masse… ”.

Sorprendente anche come, pur nell’esilio claustrale del Cardello, avesse una visione così completa e penetrante della politica internazionale: commentando la rivolta dei Boxer del 1900, dà questo avveniristico giudizio sulla Cina: “Da un canto tutte le nazioni civili, dall’altro l’impero chinese non meno immenso di esse, e che nessuna vittoria può spezzare, nessuna strage diminuire, nessuna nostra superiorità sorprendere… ”. Anche i grandi sommovimenti che rilevavano la debolezza della Russia zarista sono acutamente attribuiti “all’impreparazione delle sue plebi, la differenza delle sue razze, le sue zone ancora di conquista, la mancanza di una vera borghesia moderna, la stessa insufficiente modernità della sua aristocrazia”. E quando scoppia, nel 1905 il caso della corazzata Potemekin, in un articolo intitolato Ergastolo marino, capisce che la rivoluzione era ancora lontana: “La rivoluzione, quella che può meritare tal nome nella passione e nel pensiero russo, non si esprime ancora che liricamente per poeti della morte, che si suicidano uccidendo al disopra della legge e della guerra… La rivoluzione salverà la Russia o non sarà rivoluzione”.

Anche l’Occidente non sfugge alla sua critica, che vuole comunque rivendicare all’Europa il ruolo di guida e faro della civiltà moderna e commentando, nel 1904, in Pagliaccio tragico, l’esposizione universale di Saint-Louis, mette alla berlina la moda di queste immense scenografie commerciali – e oggi noi con l’Expo milanese ne sappiamo qualcosa… : “Come il popolo, del quale tratto rivela l’immensa volgarità, questa esposizione provoca lo stupore e la noia… Tutto ciò che il denaro può dare vi si trova ospitato, e non basta; popoli fanciulli come l’americano possono credere all’onnipotenza del denaro; noi popoli vecchi… sorridiamo stancamente davanti a questo entusiasmo del dollaro diventato unità di misura nell’arte, nella scienza, nella religione e nella politica”.

Ma quello che abbiamo citato è solo un saggio parziale degli interessi e degli argomenti dell’Oriani giornalista, che vanno dal femminismo all’urbanistica, da Saffo a Wagner, dall’arte devozionale alla filosofia di Spencer. Un giornalista, dunque, a tutto campo, a suo agio nella cronaca regionale come nell’elzeviro di analisi politica e di costume, sfatando così il facile giudizio riduttivo di scrittore provinciale e locale. Un giornalista capace di inventare e affermare uno stile nuovo, di grande originalità comunicativa, in grado di trascinare il lettore proprio dentro alla realtà descritta, anche se lontana come la Cina o l’America. Possiamo parlare perciò di inchieste, recensioni e “reportage” d’arte, dove i fatti e le idee hanno sì una base reale e critica, ma sono anche trasfigurati ed emotivamente concretizzati dalla fantasia dello scrittore. Questo talento misconosciuto fu, però, anche motivo di ulteriore frustrazione per Oriani, che si vide spesso rifiutare gli articoli, che si diceva scrivesse di getto in poche ore, per l’asprezza ideologica e l’estrosità stilistica, rinforzando la sua depressione persecutoria (in buona parte giustificata) di “genio incompreso”.