Sapete voi dell’alchimia il potere, il gran valore dell’elisir d’amore della Regina Isotta?
(Scena settima)

Il testo del libretto dell’Elisir d’amore presenta una ricchezza e una corposità tale da meritare un’attenzione particolare. Si tratta di un testo lungo, verboso, loquace. Un libretto che conferma quanto abbiamo accennato per la Traviata sull’importanza culturale di questi testi che venivano prodotti da personaggi colti, creativi e stimati, come fu Felice Romani. Un testo anche metalinguistico in quanto il senso della narrazione rinvia più volte al celebre e misterioso romanzo medioevale di Tristano e Isotta.

Non a caso la storia inizia con Adina che legge all’ombra di un faggio proprio questo antico racconto. E non a caso l’analisi del testo ci confermerà che il protagonista della vicenda è veramente l’Elisir! Un protagonista oggettuale, graalico. Tutta la vicenda si presenta come un processo trasformativo che vede tre polarità: Adina, Nemorino e Dulcamara, con un ruolo rituale, anche se secondario, pure per Belcore. Questi personaggi agiscono come ruoli simbolici, allusivi, privi di una reale psicologia interiore. Operano, agiscono, mutano atteggiamenti come reagenti chimici, come energie mutanti che si impattano reciprocamente. Chi mi disprezza, mi è forza amar. (Scena sesta)

E’ il testo stesso nella sua struttura e nelle sue dialettiche interne che ci fa capire questo tratto essenziale il quale chiama in causa culturalmente la tradizione alchemica quale unica sua possibile matrice ermeneutica. Reagiamo subito alla possibile obiezione: parlare di alchimia ancora nel 1832 quando la cesura sanguinosa ed improvvisa delle rivoluzione francese e della non meno violenta rivoluzione industriale spezza per sempre la continuità e l’incanto dell’alchimia? L’inquadramento storico generale non rappresenta un fattore negativo. Se è vero che l’ancora fiorente tradizione alchemica settecentesca si interrompe improvvisamente a fine secolo e più non riemerge è tuttavia altrettanto facilmente riscontrabile come ne sussistano numerosi echi, riflessi, richiami a livello di mito e di suggestione in svariati e differenti autori: dalla fiaba La pietra filosofale di Andersen, al Conte di Montecristo di Alexander Dumas,, da certi interessi magnetisti di Goethe all’allusione di Mircea Eliade riferita a Victor Hugo e Honoré De Balzac nel suo articolo Alchimia, scienze naturali e temporalità (1956), fino al concetto di etere che troviamo ancora nella Storia sacra di San Giovanni Bosco e a certe “metafore metalliche” del Poema dell’Uomo-Dio della mistica Valtorta.

E’ proprio l’irrompere violento della modernitas a garantire la sopravvivenza dell’alchimia quale romantica nostalgia di una sapienza antica non più permessa ed onorata. Studiosi attendibili come Raphael Patai (Alchimisti ebrei, Ecig) citano poi l’esistenza di documenti attestanti la sopravvivenza in forma riservata delle pratiche alchemiche anche ad inizio Ottocento in ambienti ebraici, in Tunisia ad esempio. Forse ultimo esempio libresco di persistenza alchemica lo troviamo in un ottimo testo francese: La filosofia celeste del medico Louis Grassot.

Veniamo al nostro curioso e strano libretto. Già i nomi alludono: Nemorino rinvia a Nemesi e a Memnosyne, al concetto mitico della sapienza e del ricordo, ma anche a nemus, il bosco sacro, mentre Adina è parola ebraica che significa “molle”, “voluttuoso” e possiede la stressa radice della parola Eden, mentre simbofoneticamente richiama uno dei più celebri epiteti di Dio: Adonai. Dal bosco selvaggio, ma sacro, all’ Eden: ecco il percorso iniziatico e reciproco dei protagonisti. Il gioco simbolico è tutto basato poi sulla cottura trasformativa dei quattro elementi/principi attivi del cosmo: acqua, aria, terra e fuoco. Il medico-mago Dulcamara allude nel suo nome all’alchemica coniunctio oppositorum e e la sua funzione di regista occulto, anche se inconsapevole, è simile alla funzione ostetrica dell’alchimista che deve giocare con gli elementi rispettandone e assecondandone le dinamiche.

Pure è possibile associare i protagonisti alle potenze mitiche: Adina ad Afrodite, Dulcamara ad Hermes, Belcore ad Ares, mentre Nemorino è figura dell’iniziato, colui che si inebria dell’Amore e dello Spirito, sintetizzando gli opposti. Non a caso Adina fa riferimento a Tristano ed Isotta, altro antico nodo esoterico e graalico, mentre Belcore rinvia a Paride e alla contesa dell’aureo pomo delle Esperidi. Nella scena iniziale domina la vampa del mezzogiorno e tutto il paesaggio sembra una precisa ambientazione mitico-alchemica: l’immagine del lavare i panni è immagine cara all’alchimia (Mutus Liber) e così pure l’immagine della mietitura è antica metafora trasformativa di origine apocalittica, basti pensare ai Mietitori di Bruegel e al Carro di fieno di Bosch.

Adina è al centro della scena ferma come nel cuore degli elementi e nel mezzo di un perfetto equilibrio fra ombra e luce, fra secco e umido. Sembra una scena edenica, un ambiente da “età dell’oro” e che indica una fase di compiuta maturazione. Adina è pronta per “essere colta”. Un’immagine di calma e di sapienza dà il tono alla narrazione, come se Adina fosse un essenza occulta da estrarre. Adina “bolle nel suo brodo” e bisogna quindi preparare l’agente che può farla reagire, che può portarla fuori da se stessa. Fin dall’inizio viene posto il tema dell’elisir e il tema dell’operazione di rendere malleabile ciò che è rigido, di sciogliere ciò che sembra refrattario, celebri topoi ermetici per circa mille anni di tradizione libraria e culturale. L’arrivo di Belcore che si presenta come Paride corrisponde ancora una volta ad un'immagine mitologia non lontana dall’uso ermetico della mitologia greca quale codice esoterico. Non avrebbe molto senso l’autocitazione di Belcore se mantenuta solo nei limiti di un decorativismo mitizzante (un Paride con una sola dea?) mentre presenta un profondo senso se si riporta l’immagine di Paride al senso ermetico dello “zolfo filosofico” come ci insegna Don Antonio Giuseppe Pernety nelle sue Favole egizie e greche svelate (1758) e se l’episodio del suo giudizio che viene qui alluso evoca il senso alchemico della ricerca della Pietra filosofale.

Adina è paragonata all’elemento dell’aria. Chiedi all'aura lusinghiera perché vola senza posa or sul giglio, or sulla rosa, or sul prato, or sul ruscel. (Scena terza) L’immagine dell’aura che attraversa libera ogni elemento è cara all’alchimia indicando il Mercurio filosofico o Rugiada universale. Se prima Adina sembrava fissa e statica, e lo dimostra restando indifferente sia al focoso Belcore che al piagnucoloso Nemorino, ora la nostra protagonista si autocelebra quale incarnazione di un'essenza sfuggente e aerea. Solve et coagula è il compito dell’Opera. Nemorino appare l’opposto di Belcore ma pure di Adina: femmineo, acquoso, umido nel suo sentimentalismo e infatti viene paragonato ad un ruscello, instabile e fluido, ma di un fluido che già appare fiammante come l’acqua alchemica detta acqua ardente, materia prima dell’Opera. Chiedi al rio perché gemente dalla balza ov'ebbe vita corre al mar, che a sé l'invita, e nel mar se n' va a morir. Se Adina si rivela centrata in se stessa Nemorino appare tutto estroflesso verso Adina, come da lei posseduto. Una polarità complementare perfetta. Te sola io vedo, io sento giorno e notte e in ogni oggetto: d'obliarti invano io tento, il tuo viso ho sculto in petto.

Il “primo amore”, il primo fuoco per Nemorino è un invasamento totale non solo soggettivo ma anche cosmico. Questa descrizione panica, universale, monista, richiama allusivamente il tema della materia prima dell’Opera che per tradizione narrativa alchemica viene descritta trovarsi invariabilmente ovunque. L’acqueo Nemorino prende passivamente la forma dell’aerea Adina come l’aria è celata nell’acqua nella dottrina ermetica degli elementi fondamentali. Non solo: l’elemento aria ricorda anche il vento seminatore e animatore della medioevale Tabula smaragdina il testo fondante della tradizione alchemica. La tenacia persistente di Nemorino e la mediazione di Dulcamara, l’unica figura che non subisce mutamenti nel divenire narrativo, portano a nuovi sviluppi. Dulcamara appare con la scena quinta in modo trionfale e regale su di un carro aureo. Sembra Saturno nell’iconografia dei Trionfi. Non a caso l’Elisir viene presentato come panacea che rettifica i difetti di natura: la Pietra filosofale venne creduta anche panacea perfetta fino ai tempi di Cagliostro.

La stessa applicazione dell’elisir (la proiezione della pietra filosofale) presuppone un metodo, un’etica, e il vincolo della segretezza, come per gli alchimisti. Ah! dottor, vi do parola ch'io berrò per una sola: né per altra, e sia pur bella, né una stilla avanzerà. Alchemicamente Dulcamara potrebbe indicare l’antimonio, semimetallo dalla natura ambigua e ibrida, come il nome di Dulcamara, che veniva utilizzato come ausilio nella lavorazione dell’oro. Nemorino vede ora potenziato il proprio fuoco e lo domina con sicurezza. Il suo problema era infatti il controllo e la fissazione che andava invertita: da fissato a fissante! Questo porta la dura, volubile e sfuggente Adina a “sciogliersi”, a farsi mercurio puro e ad iniziare a “cuocere” anch’essa. Dulcamara sembra l’emblema dell’alchimista in quanto asseconda le dinamiche della natura accontentando Nemorino e incoraggiando anche Adina con il racconto di Nina gondoliera che mutua il triangolo Adina/Nemorino/Belcore. Nemorino simbolicamente si trasforma stabilizzandosi e diventando “terra bruciante” mentre Adina diventa come una “pietra liquefatta e fiammante”, simile, sebbene non identica, allo status precedente di Nemorino.

Adina si scioglie (l’anima mea liquefacta est del Cantico dei cantici) e Nemorino si coagula concentrando e solidificando il proprio fuoco. Secondo la dottrina ermetica infatti la terra cela il fuoco. Lo scambio/inversione alchemica vi è alluso. Sebbene Adina resti l’ideale ontologico da raggiungere armonicamente, resta ancora “l’Altro” da conquistare, il Vello aureo per il Giasone-Nemorino , la purificazione ora avvicina e assimila entrambi. Il rozzo fuoco di Belcore invece viene gradualmente scemando, viene sempre più controllato e raffreddato, esaurendo la sua funzione intermedia e preparatoria, rivelandosi un “fuoco di paglia”, mentre proporzionalmente cresce il nuovo magico fuoco comune di “Adina-Nemorino”. Nemorino persino si sostituisce simbolicamente a Belcore diventando anche lui soldato e conquistandone la simpatia. L’arcadico pastore diventa il nuovo Re e come il mercurio lega con tutti. E infatti il magnetismo di Nemorino richiama espressamente il concetto alchemico di “simpatia”: Già per virtù simpatica toccato ho a tutte il cor. A ciò corrisponde anche la teoria ermetica dei diversi “fuochi”. Al fuoco fisico, esterno, normale, cioè Belcore, succede vittoriosamente il fuoco “filosofico”, descritto come interno, antinaturale, fermentativo e trasformativo. Belcore è “servito” a scaldare Adina per meglio preparare l’azione di Nemorino.

Anche l’Osteria della “Pernice” rivela allusioni alchemiche nella scelta dell’animale simbolico, presente nelle immagini dell’opera cinquecentesca Splendor Solis, mentre il dialogo finale fra Dulcamara e Adina rivela tutto lo scenario ermetico: l’uomo stesso è alambicco e l’Opera è guerra e ierogamia nel contempo. Hai lambicco ed hai fornello caldo più d'un Mongibello per filtrar l'amor che vuoi, per bruciare e incenerir. Affascinante è il passaggio in cui lo svelamento dell’artificio da parte di Dulcamara ad Adina invece di sminuire Nemorino agli occhi di Adina fa trionfare l’amore nel suo cuore manifestando l’amore di Nemorino che ha lasciato vangelicamente tutto per l’elisir.

L’inversione può essere apprezzata anche nell’Adina che libera Nemorino senza nulla chiedergli in cambio mentre prima appariva come carceriera del suo cuore. Prendi; per me sei libero: resta nel suol natio. La conclusione buffa svela un dettaglio serio ed essenziale: Dulcamara trionfa quale fenice, altra allusione alchemica, e la Fenice trionfa nel luogo della Pernice, ecco un l’altra veste dell’Opera, da pernice a Fenice, dall’amor volgare all’Amore sacro perfetto, dallo scontro degli elementi grezzi alla loro sublimazione e fusione. Quindi il senso ultimo della narrazione non è la bassezza smascherata di un inefficace inganno, ma anzi il trionfo dell’Artificio, sapiente manipolatore dei giusti ingredienti, congiunto alla costanza del fuoco, ovviamente alchemico! E infatti sia Adina che Nemorino cantano alla fine: Per lui solo io son felice! Del suo farmaco l'effetto non potrò giammai scordar. Non a caso il tema dell’"artificio" è tema tipico della letteratura alchemica e riguarda la tecnica segreta per la cattura della materia prima dell’Opera.