Il suono del flicorno di Paolo Fresu che intona “Come Sunday” per omaggiare Duke Ellington. L’interplay della Rubber Band di Romano Pratesi con Dave Liebman, Daniel Humair e Ares Tavolazzi. Il tocco al pianoforte di Renato Sellani e la sua intesa con la tromba di Fabio Morgera. Il lavoro di arrangiamento fatto da Alessandro Fabbri su Billy Strayhorn, nobilitato dal sax di Maurizio Giammarco. Probabilmente dovendo scegliere qualche istantanea, i ricordi che lascia il Serravalle Jazz sono prima di tutto questi. Il piccolo grande (nato piccolo e diventato grande) festival che da tredici anni si tiene nella rocca in provincia di Pistoia è tornato a squadernare una lista di nomi degna di una manifestazione di livello europeo.

Paolo Fresu era uno tra i pochi grandi del jazz italiano a non essere mai passato sotto le torri medievali del comune toscano che fanno da cornice ai concerti (gratuiti), e la lacuna è stata colmata nella serata di apertura. Prima ha fatto capolino come guest star dello Stefano Onorati Trio, poi è stato il solista della Barga Jazz Big Band che, come succede ogni anno, ha replicato lo show tenuto la sera precedente nella cittadina lucchese. Ad affollare la platea e il prato intorno al palco sono passate quasi tremila persone, riempiendo il castello fino all’inverosimile nella prima serata (quella con Fresu) e confermando una presenza sostanziosa nelle altre due. Ne è valsa la pena, perché cominciando da domenica 24 agosto, dopo aver regalato come già detto l’ispiratissima versione di “Come Sunday”, tratta da “Black Brown and Beige” di Ellington, a cui era dedicata l’edizione 2014, il trombettista sardo ha suonato gli arrangiamenti delle sue musiche presentati al Barga Jazz (che è appunto un concorso per compositori e arrangiatori) dimostrando di sapersi destreggiare anche nel difficile contesto di una big band che nelle passate edizioni ha costretto grandissimi musicisti a un surplus di impegno. La selezione dei pezzi ha attraversato buona parte della carriera di Fresu, che si è divertito a leggere le proprie partiture filtrate attraverso un’interpretazione alternativa, capace di convincere lo stesso autore e il pubblico presente.

La seconda serata era interamente dedicata alla Rubber Band, il magnifico quartetto allestito dal sassofonista Romano Pratesi, che si è messo intorno uno dei migliori jazzisti in attività (Dave Liebman), un nume tutelare del jazz europeo (Daniel Humair) come lo ha definito Carlo Boccadoro, e uno che potrebbe facilmente concorrere per il premio di miglior contrabbassista italiano (Ares Tavolazzi). Alternando parti in duo, trio e quartetto, e non dimenticando di omaggiare Duke con una “In a sentimental mood” (il titolo del festival) eseguita in duo Liebman-Pratesi, il concerto è stato forse il momento musicalmente più luminoso di quest’anno, soprattutto considerando che i quattro non suonavano insieme da tempo e che, per colpa delle traversie nel trasferimento aereo da New York di Liebman, hanno provato brevemente a tre ore dall’orario di inizio. Alternando i brani originali già presenti nell’album “Rubber Band Live” del 2012 a pezzi di Liebman, di Pratesi e a una strepitosa escursione nel repertorio di Ornette Coleman con Liebman al flauto, l’esibizione è andata avanti (senza nemmeno la pausa prevista) per quasi tre ore, con il pubblico che alla fine è riuscito perfino a estorcere un bis nonostante l’evidente stanchezza di chi era reduce da un viaggio di venti ore su tre aerei.

La serata finale, martedì 26, è stata divisa in due parti piuttosto diverse fra loro. Prima Renato Sellani (ottantottenne) e Morgera, trombettista con molti anni di esperienza nei migliori club neworkesi, hanno incantato il pubblico con una dimostrazione di sensibilità fuori dal comune e con un live quasi interamente dedicato al Duca (con l’aggiunta per qualche brano della cantante Stefania Scarinzi), poi il settetto organizzato da Alessandro Fabbri ha presentato il suo lavoro di arrangiamento di alcuni brani di Billy Strayhorn, il braccio destro di Duke Ellington. La formula dei fiati (Maurizio Giammarco sax, Roberto Rossi trombone, Fabrizio Gaudino tromba, Dario Duso tuba e Alberto Serpente corno) accompagnati da contrabbasso (ancora Tavloazzi) e batteria (Fabbri) è affascinante, e il taglio scelto non è stato quello del recupero in chiave retro ma di una reinterpretazione moderna, anche se doverosamente rispettosa.

Eventi come il Serravalle Jazz restituiscono fiducia riguardo al futuro di questo genere musicale che, come ha spiegato Dave Liebman attraversa una fase difficile da decifrare: “E’ una situazione con un po’ di bianco e un po’ di nero – ha detto alla vigilia del suo concerto - partendo dal lato positivo, ci sono ascoltatori molto e ottime scuole di musica. Tutto è disponibile sul web, e così le influenze che arrivano ai musicisti sono innumerevoli e provengono da tutto il pianeta. E' un bene, perché quello che c’era da dire in America nel jazz è stato detto in questi cento anni, e ora abbiamo bisogno di stimoli dal resto del mondo. Il lato negativo è che l’industria discografica, il sistema dei club e tutto il jazz business sono in crisi. Il risultato è che abbiamo tanti bravi musicisti, ma poche occasioni per farli suonare”. Il festival curato da Maurizio Tuci è una di quelle occasioni che è giusto valorizzare e custodire, soprattutto in un’epoca in cui i jazz club spariscono o fanno fatica, nella Grande Mela come in Italia, portandosi dietro le difficoltà quotidiane di musicisti per cui raramente i dischi rappresentano un guadagno, e mai una fonte di arricchimento.