– Oddio sembrano le anguille di zio Efisio!
– No vabbè dai, bisogna chiamare i carabinieri, non possiamo tenerli qui...
– Ma chi vuoi che venga in questo posto la notte di capodanno!?
– Hai sentito il mare? Le onde stanotte sono enormi, non le ho mai sentite così…
– Forse per questo non li abbiamo sentiti arrivare...
Tornavo a Cala Bianca e sentivo affiorare nella memoria i dialoghi di quella terribile notte. Quanto tempo era passato da allora? Un mese? Un anno? Pareva un secolo. Era l’ultimo dell’anno, ricordo che avevamo deciso di incontrarci per passare il capodanno insieme, come ai vecchi tempi. Di chi era stata l’idea? Mia no di certo, anche se alla fine ci avevo messo la casa. A volerla dire tutta non ero convinto neppure di quello avendo a lungo aborrito raduni e cene di ex compagni di classe o simili, poi però Dora e mi aveva fatto cambiare idea, anche quella volta buttandola sull’astrologico e io, pur mantenendo la mia buona dose di scetticismo, avevo ceduto per una sorta di timore ancestrale nei confronti delle forze invisibili della natura. Già, le forze della natura... quella notte di tempesta però lei non l’aveva mica prevista. Alla radio avevano parlato di una maestralata stagionale, mare mediamente mosso, mica quella tempesta che poi si è vista.
A guardare la casa in questa giornata di sole primaverile è difficile credere che si tratti dello stesso luogo. La grande terrazza esposta a sud, il cancello di legno con il sentiero che scende a mare, i ricordi delle innumerevoli estati trascorse qui. Ma anche i volti di chi un tempo affollava questa casa e che ora non c’è più, come i miei genitori, i loro amici e poi il nonno, perché va detto, la costruzione originaria era sua, di nonno Meu, era stato mio padre poi a voler fare delle modifiche, abusive naturalmente e il nonno aveva scosso a lungo la testa nel vedere la sua casetta sempre più stravolta e quando era venuto il momento di andare in casa di riposo aveva tentato una timida opposizione, forse perché temeva che in sua assenza quel piccolo paradiso sarebbe cambiato per sempre. Infatti così è stato.
Perchè non ci piazzi altre tre casette e ci fai un resort? Così mi aveva detto Cosimo, l’architetto del gruppo, la sera che ci siamo trovati qui con gli altri. L’ultima volta che era stato in questa casa ancora studiava il Cosi, me lo ricordo con quella sua chioma lunga e scura e la barbetta da capretta con la quale incantava le ragazze di Firenze, perché lui era tra quelli che erano andati a studiare in continente e da lì ci aveva sempre raccontato cose mirabolanti oltre a cogliere ogni buona occasione per confidare sogni e ambizioni professionali che poi non si sono realizzate quasi per niente.
Non che lui non fosse bravo perché lo era ma perché nella vita tante cose concorrono a ostacolare i progetti migliori e Cosimo lungo il percorso qualche batosta se l’era ben presa e comunque era un tipo così, un po' introverso un po' nevrotichino, alla fine come architetto non aveva combinato un granché, solo qualche piccola ristrutturazione in case di paese, anche perché subito dopo gli anni gloriosi a Firenze aveva incontrato Zilia e si erano sposati e seguendo il desiderio di lei erano andati a vivere a Sitti un paesino remoto in Barbagia e lei pochi anni dopo era morta tragicamente in un incidente d’auto e Cosimo era rimasto lassù, impietrito dal dolore e nessuno di noi era più riuscito a schiodarlo da là. Anche per questo eravamo tutti molto colpiti e felici di averlo con noi quella sera.
Ma quale resort e resort! Avevo risposto io tra lo stizzito e l’incredulo, sorpreso che un mio coetaneo potesse ancora accarezzare simili idee che qui sull’isola fortunatamente girano sempre meno, ma forse si trattava solo di un pensiero remoto, la memoria di uno di quei suoi sogni di studente rimasta intrappolata, come succede a volte alle conchiglie che portate dal vento restano a lungo incastrate negli infissi delle finestre.
E legna ce n’è? Perchè io non la vedo!
Con tutte le cose che avrebbe potuto dire appena arrivato, Cicciu aveva scelto quelle che riflettevano le sue priorità assolute, cucinare e mangiare, attività che l’hanno sempre visto in prima fila già dai tempi in cui eravamo ragazzi. Cicciu è sempre stato il grigliatore – lo sapeva fare egregiamente – quando c’era lui nessuno rischiava di rimanere col piatto vuoto – e guardando le quattro grosse borse che aveva con sé quel week end non c’erano dubbi che contenessero prevalentemente generi alimentari, anzi generi di conforto come usava definirli lui. Cicciu, con i suoi 120kg ce lo ricordavamo bello in carne già all’epoca e così è rimasto. Ai tempi ci incontravamo al “Panino Africano” a Cagliari dove lui ci sfidava con le sue incomparabili capacità mangiatorie o al Castello dove insieme a Jacu - altro buongustaio presente nel nostro gruppo - qualche anno dopo aveva aperto un posticino dove facevano una deliziosa pizza al trancio, un luogo ancora oggi di culto tra i giovani.
Generoso, amabile ma tristemente solo, il nostro Cicciu a differenza della maggior parte di noialtri, non ha mai messo su famiglia, per lungo tempo è vissuto con la madre anziana ma fidanzate che si sappia mai, solo una notte di fuoco con Dora anni fa, tra l’altro successa proprio in questa casa, una storia un po' controversa perché Dora, tra le donne del nostro gruppo era quella sessualmente più attiva, oserei direi famelica - tutti noi maschi siamo stati a turno nel suo letto - e quindi con Cicciu doveva essersi trattato di uno strano incontro tra appetiti ma il problema è che Dora, nei mesi a seguire, perfidamente, aveva raccontato a tutti com’era stato bello scopare con un ciccione invece Cicciu di lei si era innamorato veramente e lo era stato a lungo pur rendendosi conto di non essere ricambiato e quello era diventato un motivo in più per svuotare il frigorifero ad ogni ora del giorno e della notte.
Considerato che non si incontravano da anni, vederli qui insieme, pacifici e coccoloni, mi aveva fatto piacere, si vedeva che si volevano bene e che si erano gettati alle spalle rancori e incomprensioni. Decidere di riunire anche solo per un fine settimana amici che un tempo si frequentavano tutti i giorni ed erano stati poi separati per anni, era stata una vera scommessa. Di alcuni di loro quasi non ricordavo il volto – non tutti usano i social – per cui con qualcuno è stato un po' strano rivedersi, accettare che il tempo li avesse tanto cambiati, come ad esempio la Eli che quando avevamo vent’anni era un fiore di ragazza e oggi invece che ne ha 57 sembra una nonna di paese, oppure Lisa che per lungo tempo è stata la secchiona occhialuta della classe mentre ora, da donna adulta, risplende in tutta la sua bellezza matura, insomma in un senso o nell’altro ci sono state varie sorprese.
Chi invece è rimasta identica – grazie a Dio anche questo succede – è Noemi, due mariti seppelliti alle spalle, vari figli, case di qua e case di là, la stessa verve brillante e ridanciana di quando era ragazza. Ha portato con sé una ventata di leggerezza contagiosa. Quelle dello Scorpione sono così! Aveva chiosato Dora appena l’aveva vista entrare - e dopo un confronto veloce tra i rispettivi décolleté - nella vita vanno in giro a troieggiare ma poi alla fine cadono sempre in piedi, come gatte. Noemi aveva fatto finta di non sentire e noncurante delle frecciatine della sua amica/nemica, si era guardata in giro per cercare quella che invece era la sua preferita, Malena, e non avendola trovata subito aveva preso chiamarla a gran voce Malena! Malena! In gioventù erano state inseparabili, entrambe sapevano che si sarebbero riviste quella sera...
Improvvisamente dalla cucina qualcuno aveva risposto Mali è qui, sta preparando i cocktail e tutti noi, conoscendo bene le sue debolezze alcoliche, eravamo esplosi in un una fragorosa risata. Malena alzava volentieri il gomito ma lo faceva con così tanta naturalezza e stile che alla fine non finiva mai male, perché lei l’alcol era in grado di reggerlo più di un marinaio del mar Baltico e come un marinaio di quelle latitudini anche lei alla fine diventava un po' molesta, solo che nel suo caso metteva in piazza confidenze e segreti condivisi con le sue amiche. Si assisteva così ogni volta a una vertiginosa parabola ascendente fatta di risate e complicità con i primi drink alla quale seguiva poi quella discendente fatto di imbarazzo di urla e grandi incazzature. Curiosamente il risultato delle performance di Malena era sempre positivo, alla stregua di uno psicodramma alla fine tutti ne uscivamo liberati, seppur un attimo prima fossimo stati messi alla berlina e denudati, dopo eravamo come più leggeri e per questo le eravamo riconoscenti.
Mentre il tasso alcolico generale saliva nella stanza attigua al salotto un altro componente storico del gruppo, Diego, lavorava per approntare un home video casalingo - lui per tutta la vita aveva lavorato come programmatore di computer, conosceva il mondo digitale a menadito, per questo motivo era da tutti venerato. Quando mesi prima, pensando allo storico incontro, aveva lanciato l’idea di uno slide show con immagini d’antan di noi ragazzi, c’era stata una pioggia di like. Cosa curiosa io e Diego, a differenza degli altri, non ci siamo mai persi di vista. Quando tutti hanno cominciato a fare vita di coppia o ad avere figli noi ci siamo naturalmente coalizzati facendoci vanto della nostra condizione di single irriducibili. C’era stato anche un periodo in cui trascorrevamo i fine settimana qui a Cala Bianca, stavo bene con lui, anche se eravamo diversissimi, lui era un vero nerd tutto pallido con i capelli lunghi sempre un po' unti mentre io curavo molto la mia immagine che a quell’epoca aderiva ad un certo modello di intellettuale francese che cercavo di imitare in tutto e per tutto.
I nostri weekend al mare e forse qualche bagno “nature” di troppo avevano alimentato certi sospetti in paese – ancora oggi non so chi possa essere stato il delatore, se il postino o l’idraulico che coi gay ce l’aveva a morte avendo avuto un figlio con quel tipo di orientamento e a lui, come padre quella cosa non era mai andata giù. Chi mi aveva raccontato tutte queste storie era stata Dora che un giorno mi aveva fatto una telefonata indagatrice, ricordo una indimenticabile sensazione di piacere nell’averla tenuta a lungo sulle spine, millantando scenari bisex che, si sentiva, la eccitavano, infiammando così le sue fantasie già roventi di loro.
L’ultimo ad arrivare quella sera era stato Mario da noi soprannominato “The Ranger” per le sue fissazioni ecologiste, ragionevoli ma spesso pedanti perché infarcite di un rigore talebano che produceva in tutti noi sensi di colpa terrificanti, infatti poi per giorni non lo volevamo più vedere. Il fatto era che di tutti noi ragazzi Mario era quello fisicamente più prestante, un vero uomo-natura, perennemente abbronzato, sorriso smagliante - grazie alla sua immagine per un periodo aveva addirittura lavorato come modello - insomma le ragazze della compagnia se lo erano sempre filato e per questa ragione mai disdegnavano la sua presenza e allora finiva che The Ranger ritornava tra noi bello bello e ci toccava sopportarlo. Cattivo non era, solo un po' sostenuto e perennemente arrabbiato, sempre contro qualcuno o qualcosa. La prima frase che ha pronunciato quando è arrivato qui è stata: ragazzi dai, stasera siamo in dieci e là fuori ci sono dieci macchine, mi sembra un concessionario. Possibile che nessuno abbia pensato di fare un car-sharing?
– Non vedo la bici del Ranger - aveva prontamente risposto Cicciu dalla cucina finendo di massaggiare con olio e mirto un bel maialetto...
– Ma cosa c’entra, sono venuto in macchina perché domattina devo essere prestissimo a Milis, mi hanno chiesto di fare il monitoraggio di una zona a rischio incendi.
– Ma se sta piovendo che Dio la manda, gli aveva obbiettato Noemi dal fondo del salotto, immergendo subito dopo il suo bicchiere nella bowl del cocktail, credendo di non essere vista.
– Solo qui piove! A nord invece è tutto secco da mesi. Ma voi che ne sapete, siamo alle solite. In fondo che vi importa se…
– A noi importa che sei qui! – aveva risposto a sorpresa Dora indossando un cappellino stile baseball con la scritta “I love dolphins”. E subito gli si era fatta vicino per abbracciarlo. Poi aveva cominciato ad accarezzargli la testa affettuosamente e… – Ehi! Ma quanto ti sei fatto grigio!
– Beh, gli anni passano un po' per tutti mi sembra – aveva risposto Mario improvvisamente ammansito.
– E la Greta non l’hai portata? – avevo chiesto io malizioso.
– Ma di chi parli?
– Quella norvegese con la quale sei andato a vedere le foche alle Svalbard l’anno scorso. È uscito un articolo sull’Unione, con tanto di foto. Ti ho visto sai? Gliel’hai detto a Greta che in Sardegna è tornata la foca monaca?
– Beh, queste sono leggende, tutti sanno che è estinta.
– Invece no! Vedi? Il nostro Ranger segue le gonnelle nordiche e poi si perde le news fondamentali.
– Mi stai prendendo in giro! Stai scherzando, vero?
– No, no, al momento è una notizia ufficiosa, si vuole evitare che i turisti si precipitino nei luoghi degli avvistamenti, però ti posso assicuro che la fonte è seria. È un ricercatore di biologia marina di Cagliari, un amico.
– Eh ma allora bisogna festeggiare. Ragazzi forse voi non vi rendete conto…
– Sembra che il cambiamento climatico e l’aumento della temperatura del mare abbia favorito qualcuno questa volta – ha aggiunto Dora atteggiandosi a quella informata sui temi di grande attualità.
– Il cambiamento climatico è una tragedia immane, lasciatemelo dire. Ma perché vi dico queste cose, so che a voi...
– Io direi di cominciare con un brindisi alla foca monaca che è tornata, che ne dite ragazzi? – ha urlato Dora questa volta senza cappellino perché nel frattempo era passato Cicciu che se l’era messo sulla sua testa ed era scomparso in cucina.
– Sì dai, ora che ci siamo tutti è venuto il momento di brindare.
– Oh aspettatemi, – ha urlato Cicciu dalla cucina. – Il tempo di fissare lo spiedo, altrimenti stasera non mangia nessuno.
La serata era andata avanti così tra battute e sberleffi, mangiando prima una metrata di focaccia croccante con un buonissimo pecorino di Mandas – portato dal Ranger che con la scusa dei sopralluoghi ecologici conosce i migliori pastori dell’isola – ma anche con momenti seri e toccanti quando, ad esempio, gli amici con figli hanno cominciato a confrontarsi tra loro, una conversazione piena di emozioni, di ricordi mescolati a nomi di persone, di luoghi e sigle di progetti Erasmus di ogni tipo. Quando Diego improvvisamente ha invitato tutti alla proiezione delle diapo, c’è stato un boato decisamente liberatorio. Contemporaneamente Lisa e Eli hanno portato il maialetto tagliato a pezzi grossi e disteso sopra a un vassoio tappezzato di mirto. Le prime immagini comparse sullo schermo hanno avuto come insolito sonoro il rumore dei nostri denti che sgranocchiavano ossa misti a mugolii di piacere per quella carne saporita e ben salata.
Oltre al vento naturalmente che si sentiva là fuori e che aveva ripreso a fischiare facendo sbattere di tanto in tanto le persiane delle finestre. Prima dell’inizio della proiezione qualcuno si era pure arrischiato a uscire in terrazza per controllare lo stato del mare o semplicemente per scrutare l’oscurità ma ne era tornato indietro subito, spettinato e ammutolito dallo spavento. La mezzanotte era ancora lontana, il volume della musica e il tono delle voci avevano in compenso già raggiunto un livello preoccupante - ci saranno dei vantaggi a stare in una casa isolata al mare o no? - nella semi oscurità del salotto si vedevano mani armeggiare con bottiglie di prosecco e vassoi di dolcetti. Dora aveva promesso a tutti che l’anno nuovo sarebbe iniziato con un suo strip ma nessuno era parso particolarmente impressionato dalla sua proposta. Il baccanale di noi amici ritrovati pareva essere giunto al suo acme quando successe l’inverosimile.
Si erano uditi inizialmente dei rumori sordi in direzione della porta d’entrata, un frastuono prima indistinto a causa della musica e poi, interrotta questa, sempre più netto tant’è che a quel punto era stato udito da tutti e in un attimo era montata un’ansia terribile e nel salotto era calato un silenzio spettrale. Ricordo che all’inizio ero stato io, come padrone di casa, a preoccuparmi di andare a vedere, ma non prima di aver chiesto a Cicciu di seguirmi brandendo uno dei suoi spiedi di metallo e a Mario che, in mancanza di meglio, aveva preso una bottiglia di gin vuota e via via tutti gli altri amici visibilmente angosciati perché quei colpi sulla porta, prima incomprensibili, a quel punto, era chiaro, erano provocati da qualcuno. Ma chi poteva esserci là fuori, in quel luogo isolato, a quell’ora della notte?
Aprii la porta con cautela e guardai fuori. Mi apparve una scena che non potrò mai dimenticare: nel piazzale antistante la casa stazionava un folto gruppo di persone, uomini e donne sconosciuti, irriconoscibili a causa dell’oscurità, una massa buia, come zombi, immobili sotto la pioggia. Ci fu un attimo, che a me parve durare un secolo, in cui i due gruppi, noi in casa e loro là fuori, rimasero uno di fronte all’altro immobili, senza dire una parola. Improvvisamente dal loro si mosse un uomo alto, nero che più nero non si può, si fece avanti e quando mi fu vicino mi fissò con i suoi grandi occhi e allora vidi che indossava un giubbotto salvagente che però era tutto sgonfio e aggrovigliato a degli stracci. Intuii subito potesse trattarsi di un naufrago e pur rifiutando l’idea che lui e gli altri non fossero semplici naufraghi bensì migranti appena sbarcati, agii d’istinto e aprii la porta invitandolo a entrare per ripararsi.
Inevitabilmente anche gli altri si mossero e si formò una lunga fila di persone e quando le prime raggiunsero l’interno della casa si udì chiara e forte la voce di Dora urlare in sardo stretto: Mamma mea! Chini sesi? Li contai tutti, erano trentadue, qualcuno sicuramente sfuggì alla mia vista perché era buio e perché c’erano anche diverse donne che tenevano i bambini in grembo riparati sotto le loro vesti fradice. L’ultimo della fila, un giovane uomo con un cappello di lana calato sulla fronte e un giaccone fuori misura incollato al corpo, mi sorrise e mi toccò il braccio: la sua mano era gelida. Quando raggiunsi gli altri in salotto la prima cosa che notai fu lo sguardo interrogativo e preoccupato dei miei amici, vidi The Ranger che armeggiava nervosamente col telefono, imprecando per la assenza di campo. Nel frattempo i nuovi arrivati avevano occupato tutta la casa, c’era gente ovunque, sui divani, sulle poltrone, persino sui tavoli. Accesi tutte le luci e decisi di prendere in mano la situazione, la scena che si presentava ai miei occhi era così surreale da non sembrare reale.
Fu in quel momento che realizzai di essere di fronte a dei veri profughi, di quelli che si vedono in televisione, mai e poi mai avrei immaginato di vederli arrivare in Sardegna, men che meno in una notte come quella. Quasi fossi un capitano al comando della sua ciurma cominciai a lanciare ordini: Dora, vai a prendere delle coperte! Cosimo, attizza il fuoco! Noemi e Zilia, prendetevi cura delle donne, fatele sedere o distendere sui letti, se è il caso! Cicciu, tu pensa a cucinare al volo qualcosa di caldo! Acqua! Acqua! Portate le bottiglie che sono rimaste in cantina.
Mentre distribuivo i miei ordini uno dei profughi, quello che pareva essere il più anziano del gruppo si avvicinò come se avesse intenzione di dirmi qualcosa, purtroppo parlava una lingua incomprensibile, in più la sua bocca era secca e incrostata, per questo motivo le parole uscivano come una massa impastata e deforme, poi si sfilò il giubbotto rosso luminescente e quello fu come un segnale perché anche gli altri subito lo imitarono, iniziando uno dopo l’altro a liberarsi dai vestiti fradici e il salotto fu di colpo pieno di uomini neri completamente nudi, uomini che per la gioia di sentirsi in salvo e di essere al caldo non si preoccupavano più di niente, si sdraiavano sui divani ridendo e scherzando, si inseguivano, andavano in giro per la casa, toccando tutto, mentre noi amici ci scambiavamo sguardi increduli mettendoci in difesa, imbarazzati e pudici di fronte a quei corpi sorprendentemente vitali e prestanti.
– Meglio chiamare i carabinieri! – aveva sbroccato Mario. – Non sappiamo chi è questa gente, sembrano dei disperati, ma non possiamo fidarci. Guarda che razza di bestioni, se decidessero di sottometterci questi qui potrebbero farlo senza problemi. C’è qualcuno che ha un telefono che funziona? Il mio non mi dà campo, ragazzi non aspettiamo a lungo, piuttosto prendo la macchina e vado io in paese a cercare aiuto.
– Mario dai, rilassati! Che fai ti metti a panicare la notte di Capodanno? – era insorto Diego. – Versati un altro bicchiere di rosso e datti da fare! Questo è il mondo di oggi!
Decidemmo allora di offrire loro tutto il vestiario disponibile, compreso quello di riserva trovato in fondo agli armadi. Dora, Malena e Noemi dissero che non c’era fretta, che quei poveri disgraziati si dovevano ben asciugare accanto al fuoco prima di vestirsi, – alla fine vinse Cicciu che portò in tavola due capretti arrosto – ne ho un altro in borsa nel caso non bastasse, aveva detto - si scatenò una calca selvaggia di uomini nudi o semi nudi verso il tavolo del cibo con successivo lancio di ossa in giro, un parapiglia che mi fece temere il peggio, fortunatamente mangiare servì a riportare la calma e dopo fu facile convincerli a vestirsi. In un attimo Modou si ritrovò vestito da Diego, Omar sfoggiò il Moncler di Cosimo, Lamine indossò il giaccone mimetico di Mario e così tutti gli altri. E con questo defilé inatteso cominciammo a conoscerci. Dalle camere si affacciarono persino le donne – fino a quel momento rimaste appartate – e si udì il pianto dei bambini.
Un’altra donna la vidi in cucina in compagnia di Cicciu, anche lei taglia extra large, anche lei interessata alla cucina, li sentii parlare animatamente di ricette, ignoravo che Cicciu parlasse francese cosi fluentemente, sorrisi nel vederlo finalmente alle prese con una donna. Mescolando gesti a mezze frasi in francese e inglese alcuni di loro ci raccontarono di provenire dalla Tunisia, da una località denominata Cap Angela, altri aggiunsero di essere parte di un gruppo fuggito da un campo in Libia e di aver raggiunto la Tunisia camminando a lungo nel deserto. Altri ancora ci descrissero la navigazione in condizioni estreme – tre giorni e tre notti – fino al naufragio proprio sotto Cala Bianca. Alcuni di noi non ce l’hanno fatta – raccontò un giovane del Gambia di nome Ebrima - il freddo era estremo, c’erano persone che preferivano lasciarsi cadere in acqua nel buio pur di farla finita. Poi abbiamo visto le luci, erano le luci di questa casa, abbiamo ringraziato Allah ed è rinata la speranza, ma la barca era piena d’acqua, di corpi, di vomito ed escrementi, e a poche centinaia di metri dalla spiaggia si è ribaltata.
Mentre ascoltavamo increduli la drammatica ricostruzione della traversata mi accorsi che la porta finestra che dava sulla terrazza esterna era socchiusa. Mi avvicinai e feci per chiuderla quando vidi fuori una figura solitaria, era una donna. Incerto sul da farsi chiesi ad alcuni uomini del suo gruppo chi fosse quella donna e se non fosse il caso di convincerla a tornare dentro casa perché la fuori poteva essere pericoloso stare. Mi rispose un uomo tarchiato dall’espressione del viso triste, mi disse che quella donna si chiamava Amara e che quella notte aveva perso il suo unico figlio, Jama, un bellissimo bambino di pochi mesi. Per tutto il tempo della traversata era riuscita a proteggerlo ma verso la fine, distrutta dalla stanchezza aveva deciso di passarlo al marito affinché lo accudisse e proprio nell’attimo in cui il pargolo era stato passato di mano in mano tra le persone presenti nell’imbarcazione un’onda aveva fatto sbandare tutti e il fardello era volato via in alto, scomparendo nell’oscurità.
Chiesi ancora all’uomo di convincere la donna a rientrare, lui mi guardò e mi fece capire di non insistere. Lasciai socchiusa la porta e ritornai sui miei passi fino a raggiungere il salotto dove cibo, calore soprattutto stanchezza avevano nel frattempo contribuito a far crollare la tensione e uno dopo l’altro i nostri ospiti erano letteralmente caduti a terra, stremati, ognuno in un punto diverso della casa, tutti i letti erano occupati dalle donne con bambini – se ne erano aggiunte altre tre spuntate da non so dove – il vestibolo all’entrata della casa, perfino la lavanderia e il ripostiglio erano stipati da gruppi di due/tre uomini accasciati uno sull’altro. In fondo al salotto vidi Mario finalmente chetato dopo essere stato a lungo impegnato in una trattativa con due ragazzotti nigeriani che volevano a tutti i costi le sue Nike. Noi amici - chi di noi che per l’emozione stentava a prendere sonno - ci guardavamo uno con l’altro stralunati, il senso del tempo sembrava essersi definitivamente dissolto, nessuno sembrava chiedersi quale sarebbe stato il destino di tutte quelle persone il giorno seguente, né il nostro. Aleggiava in casa un’aria quieta e pacifica, anche il mare, dopo aver frustato per ore le finestre con gli spruzzi delle sue onde, pareva essersi improvvisamente placato.
Fui svegliato ore dopo da un intenso profumo di pane, guardai fuori dalla finestra e vidi il sole. Era l’alba. Guardai in direzione della cucina e vidi Cicciu e la sua nuova amica impegnati a impastare e cuocere dei fragranti chapati, li vidi scherzare a bassa voce, complici. Le magliette di entrambi erano visibilmente infarinate. Sorrisi dentro di me. Vedendomi sveglio mi si fece accanto un ragazzo, avrà avuto quindici anni, facendomi intendere a gesti di voler usare il mio telefono. Colto impreparato inizialmente rifiutai, poi di fronte alle sue insistenze glielo passai e restai a guardarlo. Nel giro di pochi secondi quelle mani leste dalle dite lunghe e magre fecero sì che lo schermo si animasse, nel mio telefono apparve improvvisamente l’immagine di una donna con il capo coperto da un velo che iniziò a conversare animatamente con il giovane accanto a me – che scoprirò dopo chiamarsi Amed – che apparve subito emozionatissimo e visibilmente felice.
Le inquadrature che seguirono mostrarono un villaggio dove si vedevano delle case basse e numerosi bambini e capre liberi per le strade, scene famigliari per me, molto simili alle immagini della mia infanzia, quando con i miei si andava a trovare i nonni a Tiesulo, dove, lo ricordo bene, le strade erano in terra battuta, i bambini giravano scalzi e le capre spesso te le trovavi dentro casa, proprio come in quel villaggio sconosciuto dell’Africa. Rapito da quelle immagini che sembravano avere il magico potere di mescolare il presente e il passato, l’ Africa e la Sardegna, non feci caso a delle voci provenienti dalla spiaggia. Fu Amed che mi avvertì che c’erano delle persone giù a mare, così mi precipitai in terrazza per controllare. In effetti vidi un gruppo di persone in divisa che camminavano sulla spiaggia, un altro gruppo più lontano sembrava impegnato a esaminare i resti di una vecchia imbarcazione. Nessuno di loro notò la mia presenza, così preferii non farmi vedere e rientrai in casa. Nel breve lasso di tempo in cui ero stato via tutto era cambiato.
Trovai i profughi allineati lungo una parete del salotto, i bambini piangevano, c’erano carabinieri ovunque che camminavano avanti e indietro con l’aria molto seria. Notai che tutti indossavano guanti sterili, di quelli che si vedono di solito in ospedale. Diedi una veloce occhiata all’interno del salotto ma non trovai nessuno del mio gruppo a parte Dora che dormiva della grossa distesa sopra a un divano avvinghiata a un ragazzo nero. Davanti alla coppia, in piedi, c’era un carabiniere che tentava inutilmente di svegliarli.
– È lei in proprietario di casa? – fui bruscamente interrotto dalla voce di un carabiniere che nel frattempo mi si era fatto vicino tenendo una grossa agenda in pelle sottobraccio.
– Sì, dica...
– Favorisca i documenti.
– In questo momento non saprei dove trovarli, scusi, mi sono svegliato da poco e...
– Capisco bene che qua si è festeggiato però lei mi dovrebbe spiegare alcune cose, intanto chi sono tutti questi signori e come mai si trovano a casa sua.
– Non so chi siano.
– Beh, non ci prendiamo in giro. Mentre le ritorna la memoria mi faccia una cortesia, aiuti l’appuntato a svegliare la signora qua sul divano.
– Si chiama Dora.
– Ecco allora prima di tutto svegliamo la signora Dora. Mi scusi ma è sua moglie?
– No.
– Ok, la vogliamo svegliare lo stesso?
– Sì, certo.
– Ma lei è Antonio Sanna, figlio di babbu Francu?
– Sì, sono io.
– Ma non ti ricordi di me? Da ragazzi pescavamo sempre sulla spiaggia qui sotto, un’estate abbiamo preso pure un tonno insieme. Te lo ricordi il tonnetto?
– Beh, come potrei dimenticarlo.
– Ascolta Antonio, spiegami brevemente com’è la storia qui in casa così facciamo prima, intanto questi poveri diavoli li facciamo ricoverare, meschini come sono conciati. Non dirmi che sono arrivati stanotte con un barcone…
(poche ore dopo)
Li hanno portati via quasi subito. Non abbiamo neppure avuto il tempo di salutarli, di abbracciarli, anche solo di stringere loro le mani, almeno quello avrebbero potuto permettercelo. Così siamo rimasti in nove, perché Mario è partito, aveva un impegno, ha detto. Però si vedeva che era scosso. Prima di andare via ha voluto andare giù in spiaggia a vedere il relitto. E prima di salire in macchina ci ha abbracciati tutti, uno per uno. Nessuno di noi aveva mai abbracciato The Ranger prima di oggi, strano eh? Dora non ha smesso un attimo di piagnucolare, mentre Noemi e Malena hanno cercato inutilmente di confortarla. Lisa invece ha continuato a bere caffè caldo e a fumare nervosamente per tutto il tempo. La Eli ha avuto una lunga telefonata con suo figlio, non sappiamo cosa si siano detti ma sembra che lui abbia deciso di tornare a casa. Considerata la loro storia verrebbe da credere a un miracolo. Cicciu sembrava aver perso la parola e ci ha fissati a lungo a turno, con aria interrogativa.
Io dal canto mio ho deciso di trasformare la casa di Cala Bianca in un ostello della gioventù, di appendere al chiodo la toga da avvocato e di dedicarmi anima e corpo a questo progetto. Cosimo mi ha già detto che se voglio, lui c’è. Diego invece vuole fare un viaggio, un lungo viaggio. Ma sempre mantenendo i contatti, sia chiaro.















