Io lì sotto ero uno sputo e ho detto: olé sono perduto.
( Lucio Dalla, “Cara”)
Oggi no.
Oggi non ci vado. Non mi immergo. Nessuna contaminazione. Oggi me.
Oggi metto la maglia dipinta a mano, 42 anni fa, da una persona che credo non aver mai conosciuto. La maglia dipinta dalla figlia di quell’amore che la spinse a fuggire. Una fuga breve, con due bambine confuse, in una casa che ricordo a stento, con una lucertola. Che provava? Quanto aveva paura? Quanti dubbi? E noi, avevamo paura noi? In questa casa, questa stanza mai vista prima, in questa cucina bianca, con poco più di un tavolo, un frigorifero, un orologio a muro e questa lucertola. Noi che non abbiamo capito ma, tanto dobbiamo solo seguire. Lei è sola. Dove sono altri adulti con cui possa parlare, a cui possa dire come si sente. Con cui piangere e descrivere la disperazione che ti fa sparire. E lui che sa? Per quanti giorni siamo state vie? Che si sono detti quando siamo tornate. Lui ci ha cercate? Sapeva? Una volta mi raccontò che negli anni del matrimonio, faceva un sogno ricorrente.
Faceva l’amore con uomini senza testa. Perché? Perché lui era sempre stato un intellettuale e lo decapitava? Perché così l’aveva sedotta, con la testa? Non avevano rapporti da dieci anni. Poteva continuare a sedurre il mondo ma, aveva smesso di sedurre lei! Io invece vedevo tutti con la testa grande ed ero spaventata. Perché vedevo le persone con le teste deformate? Giganti. Quanto è stato difficile essere noi? In tempi di pace, di ripresa economica. Senza pandemie, senza ipocondria. Dove ci stavi portando mamma? Pensavi di tornare quando sei uscita?
Oggi mi siedo qui, succo di mela verde e bao bolognese. Con il pc sul divano oliva, tra sedie belle e sedie diverse. Mi piace non sentire il rumore della strada, sedermi vicino alla vetrata vedendo la gente passare. Sembrano muovere al ritmo di musica interna. Tutto sembra filtrato da una intensa sensazione di benessere. Fuori ci sono 38 gradi ma, anche le facce sofferenti dei passanti sembrano sintonizzate su One good reason di Scott McMicken and the Ever-Expanding.
Lei levava i capelli dallo scolo della vasca da bagno.
Lei faceva torte vegane e poco zuccherate, per diabetici. Torte buone da mangiare il mattino a colazione, torte dense, come poco lievitate. Lei sperimentava in cucina. Improvvisava, anche quando guardava YouTube. Non si fermava alle critiche, anche se ci restava male. Le veniva sempre in mente qualcosa da farci mangiare. Qualcosa di diverso. Come chips di cavolo nero.
Lei ascoltava le persone come se sapessero più di lei e credeva a quello che dicevano come guru.
Lei era un po' disordinata e sicuramente non digitale. Circondata da fogli e fascicoli.
A lei piaceva andare a fare adempimenti in tribunale anche se con il processo telematico ne restavano pochi. Si perdeva in tutti quei click ma, era soddisfatta quando le riusciva un deposito senza troppa fatica. Entrava in tilt per scadenze ed errori. Si dannava perché il suo pc era troppo lento e aveva ragione. Si inorgogliva dicendo che era avvocato anche se le cause importanti le delegava o le faceva in collaborazione.
Lei dimenticava le cose e dimenticava di essersene dimenticata.
Lei faceva le pieghe ai pantaloni e con i ferri si lavorava dei gilet con la lana avanzata da altri gilet di lana avanzata. Cuciva, accorciava, allungava, stringeva, allargava vestiti. La sua stanza sembrava un bazar. Quando non volevo qualcosa, scaricavo da lei che, non si lamentava. Accumulava oggetti che avevano stancato altri e di cui per poco tempo o pigrizia evitava di disfarsene. Lei cuciva talmente bene che alcuni suoi cappotti sembravano usciti da boutique e da bambina la vedevo sfogliare pagine colorate e sottili di Burda, tra spilli, aghi, gessetti. Mi metteva ad allargare e tagliare i punti lenti. Aveva fatto dei vestiti anche per noi, con fiori e maniche a sbuffo quando in giro c’erano i cenni consolidati di trend anni Ottanta.
Aveva dei piedi dall’aspetto poco delicato, un po' tozzo ma, le piacevano e alla fine non riusciva più a raggiungerli per infilarsi le calze o allacciarsi le scarpe e la sostituiva Madison in cambio di una paghetta.
Lei corrompeva continuamente il cane con il cibo e ogni mattina condivideva la sua mela annurca. Lei voleva parlare durante la visione di un film o una serie. Faceva domande. Voleva capire e alla fine non si capiva più niente. Guardava il canale “giallo” e le piacevano le serie italiane della RAI.
Si tagliava i capelli corti, si piaceva, poi si pentiva un po'. Aveva problemi intestinali e lasciava sempre il bagno così così. Cercava di pulirlo ma, non vedeva bene. Quindi inforcava occhiali che le facevano gli occhi grandi e sembrava ancora più dolce e ingenua. Aveva le fossette ma, non rideva abbastanza per ricordarne agli altri la bellezza e pelle morbidissima, con poche rughe.
Lei parlava ore e ore a telefono. Non si sottraeva a conversazioni lunghe. A volte la chiamava una compagna di scuola da Torino e se ne rallegrava.
Lei si innervosiva con la sorella ma, era poi sempre disponibile. Lei si scandalizzava con poco, era tradizionalista e sognava di risposarsi. Lei era gelosa. Lei si muoveva a passi piccoli e veloci e masticava con la bocca non perfettamente chiusa. Lei a colazione mangiava strane sbobbe con i semi e beveva the. I latticini le facevano male. Ebbe una colica renale una volta ma, si rifiutò di andare in ospedale.
Lei era dolce. Lei non si arrabbiava mai anche se si disperava e spaventava facilmente. Lei si emozionava prima di uscire. Lei si misurava i vestiti e cercava di schiacciare un po' la pancetta ma, tutto sommato alla fine sembrava piacersi. Lei raccoglieva con orgoglio i complimenti ed era felice di sentirsi dire che sembrava molto più giovane. Peccato allora che non sia mai invecchiata davvero.
Lei decideva che certe cure non andavo fatte, tipo la pillola per il colesterolo e la sospendeva e poi le veniva un infarto ma, moriva per addome acuto e complicazioni renali. Lei credeva in propoli, aloe, arnica e da bambina voleva ricostituirmi a palettate acide di pappa reale sotto la lingua al mattino.
Lei usava lenzuola di flanella in inverno e calzini di lana tipo babbucce. Lei beveva un bicchiere di vino rosso perché diceva che faceva bene. Mangiava tofu, aggiungeva curcuma, schiacciava noci a colazione, anche se a volte sembrava più che volesse prenderle a martellate.
Lei, che quando la vita la risparmiava, cantava canzoni di Rita Pavone, mi raccoglieva da dove ero depositata e mi portava a ballare. Lei che chiedeva Julio Iglesias, Che cos’è l’amore di Capossela e Something stupid. Si muoveva per la stanza ondeggiando, facendomi sentire in imbarazzo. Lei che andava fiera della sua voce.
Lei che indossava grembiuli ed era sporca di farina e durante il covid, come molti, aprì quasi una panetteria, controllando con attenzione gli alveoli del pane. Lei che abbracciò la filosofia della farina 2 e del lievito madre. Lei che aveva la fissa per barattoli di vetro e buste e me li sottraeva per non farmeli buttare, tenendoli nascosti in camera da letto.
Lei modificava tutte le scarpe per un problema all’anca che da bambina l’aveva vista costretta, bloccata ad un letto di ospedale per anni, ignara di un fratello, due sorelle e un padre. Occasionalmente visitata da una madre, che l’avrebbe trascurata tutta la vita. Lei, che si stupì alla vista del primo volo di un piccione, a cinque anni. Lei che si fece trasportare a Lourdes, con noncuranza affidata a suore sconosciute, in un viaggio organizzato dalla struttura. A cosa si stava rassegnando lei? Lei che avrà pensato che la vita era così, maturando un senso di sopportazione comune a pochi, come una punizione, che non meritava. Lei non si lamentava mai, neanche quel paio di volte che cadde e si ruppe la testa e le dovettero mettere i punti. Lei che andava celebrata. Non protestava.
Lei che era insicura. Lei pensava di non essere coraggiosa. Non prendeva l’ascensore da sola. In tribunale per andare al ventiduesimo piano, usciva se qualcuno usciva e aspettava che qualcuno entrasse per ricominciare la salita. Eppure, coraggiosa lo era stata e ci aveva cresciute da sola. Doveva essere stata terrorizzata ma, non si era piegata e aveva affrontato tutto. La banca, i finanziamenti, i conti, il lavoro, i problemi, i malanni, gli amanti, gli studi, la nostra adolescenza, il nostro essere figlie, un po' fragili.
Aveva organizzato la sua vita, intrecciandola con le nostre. Aveva commesso quel minimo di errori che avremmo commesso tutti ma, a lei erano stati rinfacciati con durezza. Sarà stato per il suo sguardo dolce che ne faceva un facile bersaglio, sarà stato per la sua inclinazione a non attaccare, per l’accogliente fronte spaziosa, per il modo di raccogliere i capelli, sarà stato per quel senso di colpa che portava stretto, come una borsa d’acqua calda in un giorno freddo o quando hai mal di pancia. L’unica cosa che conosceva bene e non abbandonava. Un’abitudine spacciata per normalità. Aveva costruito ormai su quel senso di passata inadeguatezza la nostra relazione e manteneva fisicamente con sofferenza quel cardine. Non ci ha mai gridato in faccia i suoi perché, anche se erano davvero tanti.
Balla, balla, ballerina. Balla su una tavola tra due montagne.
(Lucio Dalla, “Balla balla ballerino”)
Ora che non ci sei, non posso più essere arrabbiata, delusa, incompresa. Non posso più essere figlia. Posso essere solo me, senza te, mentre sento Only Ever feat. Alyse Baca e non riesco a non tenere il ritmo e non riesco a non sentirmi bene, per il tempo che viene, per quel che vale, per quel che può durare. E non riesco a non sentirmi male, per te, che ho lasciato andare, senza intervenire. Ora però, tocca a me, portare quel senso di colpa, un’abitudine che non voglio spacciare. Il mio percorso è condiviso, come se nella traccia di un evidenziatore, un tratto rotto e impercettibile della punta avesse creato una doppia linea parallela, un binario e una comunione. Questa storia però la posso modificare. Basterà schiacciare la punta, insistere, calcare evidenziando con un tratto netto, non smettere di credere. Lasciare andare. Emanciparmi. Guardo il panorama dal confine, giunta al confine.