La storia di David Helfgott la conoscono quasi tutti. Con qualche licenza, è quella del film Shine, diretto da Scott Hicks e interpretato da un Goeffrey Rush all’apice della bravura. Nel caso non lo abbiate visto, provvedete al più presto. Nato a Melbourne nel 1947, dopo aver studiato al Royal College of Music di Londra con Cyril Smith, Helfgott si è trovato a dover combattere con la malattia nervosa che ha segnato la sua esistenza, facendo di lui un uomo problematico, ma anche mite, dolce, gentile, tutto sommato non troppo diverso da quello tratteggiato da Rush nella pellicola del 1996.

Per uno strano caso del destino, mi è capitato di incontrare di persona e ascoltare questo talentuoso pianista già tre volte, l’ultima lo scorso 20 giugno, alle Terme Tettuccio di Montecatini. Helfgott infatti ha un’amicizia salda con un medico che vive nella cittadina termale toscana in cui sono cresciuto anch’io, e questo legame lo porta ad offrire recital a cadenza quasi fissa in zona. Chiunque lo abbia incontrato (e quindi abbracciato e probabilmente baciato, che è il destino che tocca a tutti quelli che lo salutano dopo le esibizioni) non può non sentirsi contagiato dalla gioia di questo sessantasettenne con gli occhi azzurri e il sorriso facile. Non sono un critico musicale, certo non sono un esperto di quella che grossolanamente viene definita “musica classica”, e non ho intenzione di indossare abusivamente quei panni per scrivere questo articolo. Sulle capacità e le doti di Helfgott si sono espressi in molti, nella maggior parte dei casi segnalandolo per l’abilità tecnica e la straripante vitalità che mette nelle performance. Qualcuno in passato ha storto la bocca per la notorietà planetaria e il successo popolare ottenuto dopo l’uscita di Shine, ma ormai quelle immancabili reazioni ipercritiche sembrano essersi stemperate in un generale apprezzamento.

Del resto la questione non è paragonare Helfgott a Horowitz, a Pollini o a Gould. Quando si assiste a un suo concerto è del tutto naturale che la vicenda umana si leghi a doppio filo alla musica. Che, almeno questo mi sento di dirlo, è tutt’altro che trascurabile. Helfgott tiene in repertorio pezzi tecnicamente affatto semplici, e dimostra sempre di venirne a capo filtrandoli attraverso la propria sensibilità, che è diversa da quella di molti pianisti, virtuosi o meno, senza che per questo si debba derubricarlo a fenomeno pop. Ogni volta che sono stato a un suo concerto la platea era affollata, e il pubblico (anche quello più avvezzo all’ascolto della musica) ha tributato un’ovazione meritatissima. In quest’ultima occasione ha offerto un programma che andava da Chopin a Gottschalk, da De Falla a Liszt, uno dei suoi preferiti insieme a Rachmaninov (come ben sapete se avete visto il film), in questo caso lasciato da parte. Poi c’è, come dicevo prima, l’aspetto umano, i continui ringraziamenti indirizzati agli spettatori, la mania di stringere le mani a chi siede nelle prime file, l’inarrestabile esplosione di sentimenti e, curioso a dirsi per un uomo segnato dai problemi mentali, una capacità empatica immediata. A chi gli fa i complimenti risponde a voce bassa, quasi timidamente: “It’s a pleasure” prima di lanciarsi in un abbraccio. Lo stesso approccio, al tempo stesso misurato ed entusiasta, probabilmente si riscontra nelle esecuzioni, che a dispetto dell’atteggiamento non sembrano voler strafare e che (specie l’ultima) sono contenute in un’interpretazione rispettosa, senza quegli effetti speciali che rischierebbero di sciuparla.

David Helfgott ormai è una specie di ospite fisso di Montecatini: gli si sono affezionati in tanti, e nel 2013 il sindaco gli ha conferito la cittadinanza onoraria, quindi è molto probabile che insieme alla moglie Gillian (l’astrologa del film di Hicks) torni ancora delle mie parti. Credo che difficilmente riuscirò a rinunciare all’appuntamento, perché amo la musica e mi piacciono le grandi storie. E incontrando lui le trovo entrambe.