Ancora una volta è lei: Circe! E questa volta ammicca dallo schermo di un cinema. Riflesso di una divinità arcaica che riposa negli angoli arcani dell’inconscio: la Dea Madre mediterranea. Si torna a parlare di lei perché il grande schermo in questi giorni la propone nell’ennesima personificazione: quella di Angelina Jolie, che veste i panni di Malefica, la strega che tutti abbiamo conosciuto nelle pagine della fiaba della Bella Addormentata nel Bosco, e forse ancor più nella celeberrima versione animata dalla Disney del 1959.

Nell’immaginario comune Malefica è un personaggio iconico ma bidimensionale, senza sfumature: l’antagonista, il male, la malvagità, senza nessun appello. Ma davvero rappresenta soltanto questo colei che, per vendicare il mancato invito al battesimo della principessa Aurora, scaglia sulla neonata una maledizione terribile e irrevocabile, condannando la fanciulla, al compimento del suo sedicesimo anno d’età, a pungersi il dito al fuso di un arcolaio e a cadere in uno stato di morte apparente? Un incantesimo che potrà essere spezzato solo dal bacio del vero amore. E’ la stessa Disney che, a distanza di più di mezzo secolo, decide di riabilitare una figura che non ha goduto fino ad oggi del beneficio di un’autodifesa. Le concede il diritto di raccontare la sua versione dei fatti. Ma sulla versione live action, che ha un’anima fantasy e punta gran parte della sua suggestione sugli effetti speciali, non mi soffermerò oltre. Ciò che mi ha colpito è l’essermi imbattuta ancora una volta in Circe!

Malefica, infatti, è l’erede di una stirpe prolifica di creature affascinanti e temibili; vanta l’appartenenza a una genealogie di dee, dimenticate nel trascorrere lento dei secoli, ma di cui porta ancora intatte le fulgide insegne. Divinità potenti e selvagge, che dominano la vasta natura, il mondo vegetale e animale, la ciclicità vegetativa. In definitiva, la vita e la morte come realtà complementari e inscindibili, e il loro immenso mistero. In tempi arcaici era chiamata con molti nomi: la definizione che li racchiude tutti è Potnia. La Signora. Signora delle belve, dei serpenti e della vegetazione. I simboli di Malefica e le sue prerogative sono patrimonio prezioso della sua antenata più celebrata, Circe: come lei possiede il ràbdos, il bastone magico ricavato dal ramo di un albero sacro; ha poteri metamorfici, sa ammansire le fiere e i lupi, è dea e maga al contempo. Vive in una terra separata dal mondo degli umani, come Circe sull’isola Eea, dove le cose della natura possiedono un’anima e sono ammantate di sacra bellezza. Il corvo è il suo paredro, cioè compagno e servitore allo stesso tempo: lei lo trasforma a suo piacimento in essere umano, e poi all’occorrenza di nuovo in uccello, e gli assegna compiti e ricognizioni in volo.

Anche Circe aveva un paredro ornitomorfo: il picchio, in origine Pico, il re che per aver osato respingere le sue attenzioni era stato da lei mutato nel fedele accompagnatore alato. E un corvo era il compagno di un’altra grande maga di medievale memoria: Morgana. Un personaggio solo apparentemente lontano da Circe, per appartenenza geografica, cronologica e culturale: in realtà quasi un suo doppio, una gemella celtica. E il corvo altri non era che re Artù, al quale, trasportato nella fatata Avalon, era stato assegnato il privilegio di una nuova vita, al termine di quella mortale, sotto le spoglie alate di servitore della dea.

Queste figure ambigue e terribili hanno popolato le mitologie di una vasta area di riferimento: sono sopravvissute ai passaggi epocali della storia, senza mai scomparire completamente nel trascolorare dalla antica cultura preellenica a quella dei dominatori micenei, che hanno cercato in tutti i modi di sopraffare e annientare gli antichi riti del matriarcato, per poi rassegnarsi ad addomesticarli, inglobarli, agendo tuttavia un lento quanto impietoso svilimento del femminile, che era la linfa di quell’universo ricco di sacralità. Dee della fertilità che erano così antiche da risalire a tempi in cui il genere umano ancora non aveva intuito che il maschio era partecipe dell’atto generativo, e credeva che il miracolo della nascita di una nuova vita fosse prerogativa delle sole donne.

Sbaglieremmo però se volessimo redimere Malefica in toto, e farne il prodotto distorto di una cattiva interpretazione. Perché la natura, si sa, è madre ma anche matrigna, e il tempo è il suo strumento più crudele. La maledizione imposta alla piccola Aurora è davvero il frutto di una malvagità gratuita? Non è piuttosto un’esortazione ad accogliere consapevolmente il destino dato in sorte a tutte le donne? Aurora è chiamata a seguire il richiamo potente di quell’arcolaio. A nulla varranno i tentativi del padre di far distruggere tutti i fusi del regno: in cima a una torre, lontano dai vani tentativi di controllare i ritmi del tempo, è rimasta una vecchia, che paziente e instancabile fabbrica e lavora quel filo. E’ la Moira, la divinità che produce la continuità della vita di ogni essere mortale. Sarà poi la grande dea tessitrice a comporne la trama. Erano tre le Moire, come tre sono spesso le incarnazioni della Potnia: la prima, Cloto, filava la fibra dell’esistenza; la seconda, Lachesi, distribuiva i destini; la terza, infine, Atropo, tagliava quel filo con la forbice, la falce inesorabile che cala quando il momento è giunto. Nel mondo latino erano chiamate “tria fata”, da cui il termine moderno “fate”. Ma “fatum” (oracolo, destino) significa anche disgrazia, calamità. Aurora, dicevamo, troverà quell’arcolaio spinta da una Necessità non modificabile, quella che i Greci chiamavano Anànke. E si pungerà il dito. Non sarà una ferita di morte, ma la perdita del suo primo sangue, quello mestruale, che attraverso un sonno iniziatico la condurrà alla consapevolezza della nuova vita di donna. Non senza la scoperta dell’abbraccio maschile, racchiuso in quel casto, simbolico primo bacio.

Il tentativo dei genitori di trattenere la figliola nel mondo innocente dell’infanzia è destinato a soccombere. Questo, in sintesi estrema, è ciò che raccontano molte delle fiabe che ci hanno accompagnato negli anni dell’infanzia: almeno quelle che parlano di iniziazioni femminili: Cappuccetto Rosso, Biancaneve... Le fanciulle devono trascorrere un periodo rituale nel regno oscuro della morte (la pancia del lupo, la bara di cristallo), sospendere il tempo vitale fino ad essere salvate o raggiunte da una controparte maschile che le affiancherà nell’ingresso nella stagione fertile della vita. Tutte devono ripercorrere le orme di Proserpina, strappata alla madre Demetra dal fosco Ade, Signore degli Inferi, che la trattiene come sua sposa tra le ombre per la metà sterile dell’anno, per restituirla alla luce nei mesi della rinascita vegetativa.

Lasciate che Circe, Morgana e anche Malefica ci raccontino la vera storia.