Tornavo dalla Spagna dopo una lunga parentesi. Il viaggio, il convegno dei poeti ispano-parlanti, la lingua ritrovata — tutto mi aveva restituito un senso di appartenenza che credevo perduto. Parlare di nuovo la mia lingua natale era come riaprire una finestra chiusa da anni: l’aria entrava con un suono familiare, pieno di luce.
Le Jornadas Poéticas de Otoño en Madrid, alla Casa América, avevano lasciato in me una scia sottile, come un profumo che non si decide ad andarsene. Gli amici di vecchia data mi avevano accolto con quella naturalezza che solo la distanza rende possibile, e in me cresceva una sicurezza calma, quasi infantile. Quella sera, appena rientrato, accesi i fornelli. Il gesto era semplice, ma aveva il peso di una piccola cerimonia. L’olio sfrigolava, le verdure si coloravano nella padella; mi sembrava di cucinare per dare forma alla gratitudine. Poco dopo eravamo tutti intorno al tavolo: io, Paolo, il mio compagno, mia sorella e mio cognato. Le voci si incrociavano leggere, come fili di fumo. Ogni frase cadeva nello spazio con la precisione delle cose giuste, dette al momento giusto. Fu in quel silenzio sospeso tra una parola e l’altra che mi venne un pensiero nitido, come chi riconosce un segno.
Mi tornò allora alla mente la cartolina d’invito all’installazione di Alfredo Jaar a Venezia — quella che ritraeva Lucio Fontana nel suo studio devastato, circondato dai detriti, il passato e il presente nello stesso sguardo. L’immagine mi attraversò come un’eco. Forse era proprio quella sovrapposizione che cercavo di trattenere: la casa intatta e la rovina, il viaggio e il ritorno, il suono della lingua e il silenzio della sera. Nell’aria aleggiava qualcosa che ancora non sapevo nominare, ma che aveva la consistenza di una rivelazione.
Lucio Fontana era tornato nel suo studio milanese dopo la fine della guerra. C’era polvere, calcinacci, frammenti di gesso e pietra, ma tra le macerie trovò una sorpresa: un busto suo. Lo guardò con un misto di pudore e smarrimento, perché ormai era noto per i suoi tagli, il celebre Concetto Spaziale, e quella testa modellata dalle sue stesse mani sembrava smentirlo. Aveva una forma troppo umana, troppo piena di materia, come se la carne avesse reclamato il suo diritto di esistere contro lo spazio. Fontana, che aveva voluto liberare la superficie del quadro, si trovava ora di fronte al peso del corpo, alla gravità della figura. Se ne vergognò un po’. Quella scultura, nata interamente dalla sua mente e dalle sue mani, era una smentita involontaria di tutto il suo pensiero successivo. Eppure era lì, sopravvissuta alla rovina, come una confessione senza parole.
Fontana era nato a Rosario, in Argentina, da una famiglia italiana. Gli argentini, si dice, convivono con la psicoanalisi come con uno specchio quotidiano. In esso, ogni gesto cerca la propria radice. Fin da giovane, Fontana aveva imparato a guardare la materia non come ostacolo, ma come pelle del pensiero. In Argentina lavorava nella bottega del padre, specializzata in sculture funerarie. Tra marmi e figure dolenti, comprese che l’arte poteva contenere insieme la morte e la sopravvivenza. Nel 1925 cominciò a ricevere i primi riconoscimenti: le sue sculture umane, ricoperte di materiali insoliti — come L’uomo nero, una figura rivestita di catrame — già annunciavano la sua volontà di attraversare la superficie. Più tardi, nel 1946, il suo Manifesto Spaziale avrebbe proclamato: «Noi continuiamo la rivoluzione dell’arte attraverso il mezzo».
Quella frase, semplice e radicale, apriva la strada: il mezzo non era più solo un supporto, ma un campo di rivelazione. Con essa avrebbe potuto anche smettere di creare. Ma Fontana sapeva che l’intuizione doveva essere ferita per diventare visibile.
Il suo pensiero era una forma di taglio: la pittura doveva aprirsi allo spazio reale, lasciando che la luce e il vuoto respirassero dentro di essa. In quel gesto, il quadro cessava di essere finestra per farsi ferita. Fontana non distruggeva, creava un’altra dimensione. Come scrisse una volta: «La materia, tagliata, lascia passare l’infinito». Ma quell’infinito non era astratto: era l’aria stessa del presente. E tuttavia, di fronte a quel busto ritrovato tra le macerie, sembrava che tutto si ripiegasse. L’artista che aveva aperto lo spazio si trovava di nuovo davanti al limite del volto. Forse per questo lo nascose, o cercò di farlo. Forse perché in esso risuonava l’eco di tutti i suoi dubbi, una confessione modellata nel gesso.
Lucio Fontana in piedi tra le rovine del suo studio bombardato in Via San Marco a Milano nel 1946.
Anni dopo, dall’altra parte dell’oceano, Gordon Matta-Clark avrebbe compiuto un gesto simile. Nato a New York, figlio del pittore surrealista cileno Roberto Matta, trasformò l’architettura in materia viva. I suoi tagli negli edifici abbandonati non erano distruzione, ma rivelazione. Aprendo una casa, mostrava l’aria che la sosteneva. Le sue opere — Splitting, Day’s End — erano ferite nella città che lasciavano filtrare la luce. Tra Fontana e Matta-Clark esiste una segreta affinità: entrambi lavorarono con il vuoto come sostanza, entrambi compresero che tagliare non significa rompere, ma lasciar entrare. Tuttavia, una differenza li divide: Fontana tagliava verso il futuro, Matta-Clark verso la memoria. Il primo apriva lo spazio sulla tela, il secondo nei muri del mondo.
Matta-Clark aveva un fratello gemello, Batan, che si tolse la vita gettandosi dallo studio di Gordon. Dopo quella tragedia, l’artista cambiò. I suoi tagli divennero più malinconici, più urgenti. Non erano più soltanto interventi concettuali, ma gesti di lutto. Lo spazio, per lui, era ormai un corpo. Pochi anni più tardi, morì di cancro, giovane, come se la sua opera si fosse consumata dentro di lui. Anche nel suo gesto c’era una forma di redenzione: mostrare che ogni limite può essere attraversato.
Ci penso ora, mentre torno a Sipicciano, nella mia piccola torre nel cuore del borgo vecchio, dove i gatti governano le strade. Il paesaggio si oscura lentamente; l’aria porta un odore di terra umida e pietra antica. Le luci delle case tremolano come se esitassero tra restare e svanire. Salgo la salita piano, sento i miei passi rimbombare tra i muri, e avverto che tutto — il viaggio, la cena, la memoria di Fontana e di Matta-Clark — si fonde in un unico respiro. In quella torre, dove la notte si posa morbida sui tetti, capisco che l’arte non consiste nell’aggiungere, ma nell’aprire. Aprire la materia, il tempo, la lingua, finché l’aria non attraversi ogni cosa.
I gatti mi osservano dai muretti, immobili, come guardiani dell’istante. Dentro, il silenzio ha uno spessore lieve, quasi umano. Mi siedo, lascio che il respiro si stabilizzi, e penso che forse tagliare la luce non è un atto di violenza, ma un modo di vedere. Un modo per dire che siamo ancora qui, in attesa che qualcosa, dal fondo, ci attraversi.















