Nel bel mezzo del Rinascimento, le migliori menti dell’epoca si lasciano affascinare da un dibattito che per noi – da Duchamp in poi – potrebbe non avere più vero significato: è più “arte” la pittura, o la scultura?

Più completa perché permette all’osservatore di girare intorno a tutta l’opera la scultura, secondo Michelangelo; meno scientifica della pittura, che “rappresenta al senso con più verità e certezza le opere di natura” secondo Leonardo da Vinci; poi, con un salto di 3/400 anni, decisamente “noiosa” per Baudelaire, la scultura attrae, a volte distrae, molti artisti del primo Novecento, da Boccioni, a Sironi, a Balla… a Antonietta Raphaël.

Per lei, però, la “fuga” dalla pittura alla scultura non è un altro modo per esprimere lo stesso concetto già esplorato con altre tecniche.

Se la scelta della scultura, nella seconda metà degli anni Trenta, fu – lo dice lei stessa – anche un modo per evitare lo ‘scontro’ con il marito Mario Mafai, pittore come lei e critico delle sue opere tanto quanto lei lo era delle sue, c’è un motivo che appare più profondo, proprio osservando le sue opere scultoree.

Il tempo della pittura, per Antonietta Raphaël, è infatti quello di una visione più libera, a tratti quasi incantata, una visione che negli anni precedenti le aveva forse offerto un modo per attraversare le tante complicazioni già conosciute.

Ora, lei, ebrea che a breve sarà costretta a cambiare città per rendersi meno visibile alle persecuzioni razziali, sembra avere bisogno di qualcosa di più tangibile, più crudo, più autentico per dire le proprie esperienze passate, e presenti.

Ora, è il momento della scultura.

Tre Sorelle è una delle prime opere di Raphaël scultrice.

In essa ci troviamo davanti non solo a materia, ma a un vero racconto di radici, di legami, di peso e di memoria.

Tre figure femminili, compatte, i volumi stretti come se tutto nascesse da un unico respiro, le Tre Sorelle forse, come suggerisce il titolo, sono le tre figlie di Antonietta: Myriam, Simona e Giulia Mafai; e forse, anche, sono un’eco scolpita del tema delle tre età della donna, tanto caro alla pittura della fine del secolo precedente.

O, forse, sono un po’ di tutto questo. L’amore materno che nuovamente dà a luce quelle giovani vite, e il sentimento di una donna che in quelle tre giovani vite rivede qualcosa di se stessa, delle sue radici, della sua storia.

Una storia che ha conosciuto l’esilio e forse sta per conoscerne un altro; che cerca una radice di identità che non possa mai essere scalfita da circostanze o da umani rivolgimenti. E la trova nell’unione di quelle tre figlie.

Legge, la figura più grande - diremo Myriam, per meglio capirci.

Un libro aperto sotto il suo sguardo, il volto appoggiato a una mano chiusa a pugno, come ad aiutare la concentrazione, il corpo raccolto attorno alle parole.

La figura è in primo piano ed è la più grande, ma forse porta in sé la Antonietta Raphaël più giovane, poco più che bambina, quella che vive la propria infanzia in una comunità ebraica lituana, a Kaunas.

In una famiglia ebraica, la lettura non è mai solo un gesto: è trasmissione, è memoria, è identità. Fin dall’infanzia si insegna che la parola scritta è il legame con la storia e con le proprie radici. Il libro è più di un oggetto, è un mondo che abbraccia chi lo legge.

Antonietta Raphaël è l’ultima figlia di una famiglia numerosa. Suo padre, rabbino itinerante, muore quando lei è ancora piccola, lasciando la madre sola con undici figli.

Nella sua casa, come in ogni casa ebraica, si legge e si trasmette: la Torah, la letteratura yiddish, le storie che tengono viva un’identità secolare.

Anche se non avrà mai un rapporto stretto con la fede, il legame di Antonietta con la cultura ebraica rimarrà fortissimo, come la sua arte dimostra, semplicemente e innegabilmente.

Ma nel 1905 il mondo di Antonietta viene travolto.

I pogrom attraversano la Lituania come un’onda distruttrice: le case ebraiche vengono saccheggiate, le sinagoghe date alle fiamme, le famiglie costrette alla fuga.

La madre decide di partire, di lasciare tutto, di ricominciare altrove.

Il rifugio è la città di Londra. Dove Antonietta si ritrova immersa in una lingua nuova, in un mondo sconosciuto.

In quel mondo così diverso la giovane continua a leggere, a studiare, a imparare - ora è la volta della musica, poi e altrove la pittura, e infine la scultura: la sua è una ricerca costante di un linguaggio capace di raccontare e di raccontarla.

Per questo, in Tre Sorelle, quel libro aperto tra le mani di Myriam dice molto di più di quel che normalmente trasmette un semplice dettaglio: è il filo invisibile che lega Antonietta alla sua infanzia, alla sua storia, a tutto ciò che non ha mai smesso di appartenerle. E cui lei stessa non ha mai smesso di appartenere.

Se Myriam legge, Simona ascolta.

La testa inclinata, il volto assorto, lo sguardo abbassato sui capelli della sorella maggiore, come se anche lei volesse essere grande, già grande abbastanza per potere leggere con i propri occhi quel tesoro di saggezza e conoscenza che ancora le è precluso.

La stessa voglia di scoprire che certo stava nel cuore e nella mente di Antonietta, che si fa ragazza a Londra e qui comincia la sua ricerca della forma espressiva che riuscirà a rappresentarla di più. Con la sicurezza, tutta giovanile, che il futuro sia uno solo, e che, per poterlo percorrere, basti solo scoprire dove è.

Antonietta Raphaël studia musica alla Royal Academy of Music, e si dedica al pianoforte con disciplina, ma presto capisce che non è abbastanza. Vuole qualcosa di più, un linguaggio che le appartenga davvero. Così, si trasferisce a Parigi per studiare pittura. È il 1919, lei ha appena 25 anni.

Cinque anni dopo, un nuovo trasferimento.

Con il bagaglio pieno delle idee incontrate nella Parigi delle avanguardie, Raphaël arriva a Roma. Frequenta l’Accademia di Belle Arti, entra in contatto con i giovani artisti della città e soprattutto incontra il pittore Mario Mafai – colui che diventerà il padre delle Tre Sorelle.

La casa di via Cavour, che condivide con Mafai, diventa il crocevia di incontri e sperimentazioni da cui nascerà la Scuola Romana.

Ma, come Simona, Antonietta vuole vedere con i suoi occhi. Interrogare l’arte con la propria voce, solo con la propria voce.

La Scuola Romana – con Mafai, Scipione, e molte e molti altri, ha la pittura al centro della propria ricerca. Antonietta, nel 1933, si iscrive a una scuola serale di scultura.

Il passaggio dalla pittura alla scultura è graduale, ma inesorabile. La materia è più solida, più difficile da manipolare, ma proprio per questo più capace di esprimere la verità delle cose, senza la consolazione dei sogni.

La gioventù con la sua spensieratezza nonostante si sta allontanando, e la vita, che a volte sa essere davvero prepotente, arrogante, e banalmente cattiva, sta per bussare alle porte di Antonietta Raphaël, e di tutti gli ebrei di Roma, e non solo.

Le Tre Sorelle è una scultura del 1936 – mancano solo due anni alla pubblicazione dello scandaloso Manifesto della Razza.

Ma gli artisti, spesso, presagiscono.

La sorella più piccola, Giulia, è la sola delle tre a non guardare verso il libro. Si appoggia al corpo della più grande, come a voler mantenere un contatto rassicurante, e cerca con lo sguardo, da chi potrà venirle una risposta. Se c’è, una risposta.

Giulia è l’istinto che ti riempie di adrenalina perché tu possa resistere, e trovare una via di scampo - ad esempio cambiando di nuovo città, come in realtà Antonietta fece con le sue figlie, lasciando Roma per rifugiarsi a Genova, dove le acque erano più calme.

E contemporaneamente Giulia è il bambino scampato ai campi, o alle bombe, o ai droni, che chiede perché, non del tutto certo che una risposta a quel perché esista, da qualche parte.

Antonietta Raphaël tornerà alla pittura solo dopo la guerra, e nel 1952 tornerà a Roma, definitivamente. Non abbandonerà la scultura, che anzi rimarrà una parte significativa della sua produzione artistica, ma ricomincerà a dipingere sogni.

Anche se, a volte, quei sogni saranno incubi.