Riprendiamo il discorso relativo alla multiculturalità che abbiamo iniziato ad aprile attraverso l’intervista che ho realizzato a due artisti malesi: Sumay Cheah e Joël Lim Du Bois. Qui l'articolo precedente.

Mi sembra, Sumay, che un altro aspetto che collega il tuo lavoro al modo di interpretare la vita sia la critica latente alla società. Perché, se non sbaglio, il titolo della tua installazione è "Oh! Tenang", che significa qualcosa del tipo “Hey, rilassati”.

S: Sì, vuol dire hey, calmati.

Evidentemente perché la società in cui vivi non è poi così rilassata.

S: Sì, in parte hai ragione. L'anno scorso Oh! Tenang si trovava in un centro commerciale affollato e trafficato. Ho sempre amato scegliere spazi che fossero una sorta di tensione tra affollato e liberatorio. Per entrare nella mia installazione, devi cercare il punto di ingresso; avrei potuto allinearlo con il percorso di ingresso nel padiglione, ma non ho voluto, perché solo chi cerca troverà. Ed è proprio come la strada e il viaggio della vita che intraprendiamo, dove ci sono due percorsi. Vuoi prendere la strada più battuta o quella meno battuta?

Ed è lo stesso per te, Joel? Stai concentrando la tua attenzione su qualcosa che sta scomparendo. Quindi sembra che, in un certo senso, tu stia dicendo che ciò che c'è oggi non è così interessante come quello che c'era e rischia di non esserci più.

J: Sì, questo è uno dei messaggi. Abbiamo parlato prima della dimensione culturale, della dimensione del mix culturale e di come questo stia cadendo a pezzi, delle cose fatte a mano piuttosto che di quelle fatte digitalmente o a macchina. Ma non è una critica pura.

Non si tratta di dire “Ok, la vita moderna e contemporanea è terribile e dobbiamo tornare indietro”, perché non funziona così. Ciò che spero di fare, a un livello più ampio, è dare forma al modo in cui la nuova generazione percepirà sé stessa. Quindi, se sono un designer di insegne e utilizzo la tecnologia digitale, forse vedendo questa mostra sarò ispirato a pensarci due volte su cosa sto facendo o da dove sto prendendo in prestito le idee. Potrebbe darsi che comprenda che potrei appoggiarmi di più a un'estetica malese o di Penang, piuttosto che a una d’importazione. Forse dovrei pensare di essere ispirato da ciò che è il passato per dare forma al modo in cui andrà in futuro.

Probabilmente sono troppo ambizioso, ma se riesci a influenzare una o due persone a cambiare il loro modo di pensare... Ecco perché Ban Ban Kia, che in hokkien significa “camminare lentamente” ed è uno dei nostri obiettivi: se possiamo far rallentare le persone e fare in modo che prestino attenzione mentre camminano per Penang, avremmo raggiunto un buon risultato. Devi essere consapevole delle cose che ti circondano, ma stai passando troppo velocemente per notarle.

S: In definitiva, tutte queste sono "storie ombra", come il titolo dello spettacolo, che collegano il passato al presente e al futuro. Mi sembra che pensiamo troppo e che, in ogni caso, creiamo il nostro stile di vita e celebriamo la nostra cultura come vogliamo; perché anche la storia, come tutte le storie personali, si presenta in forme verbali e visive. Penso che finché saremo consapevoli nel profondo che ciò che siamo è quello che crediamo di essere, probabilmente sarà sufficiente.

Qui si conclude la mia intervista con Sumay Cheah e Joël Lim Du Bois, due artisti malesi molto interessanti ispirati dalla storia e dalle tradizioni dei vari popoli che condividono lo stesso territorio malese. Una delle considerazioni che si può trarre da questo incontro è che la convivenza pacifica tra diverse culture non è solo auspicabile, ma possibile. E questo non avviene solo in Malesia, ma anche in India, dove popolazioni, culture e religioni diverse coesistono e si influenzano reciprocamente da diverse centinaia d’anni. E lo stesso avviene in Europa, solo che ormai non ci facciamo più caso, ma, a cominciare dall’uso dei termini anglosassoni, per passare alla contaminazione culinaria, alla moda e a molto altro è difficile distinguere cosa sia peculiarità di una nazione, di un territorio o il risultato del loro insieme. E questo accade da sempre: anche la nostra amata lingua italiana si compone di termini che provengono dall’arabo, dal francese, dal sanscrito e chissà da quante altre fonti.

A maggior ragione ciò accade oggi, dove le distanze sono state annullate dalla rete, dove tutto è presente con un semplice click. D’altronde ce lo insegna la natura stessa, tutto è contaminazione, tutto è collegato, non esistono barriere invalicabili, ma la complessità della vita è possibile proprio grazie a questo costante passaggio di informazioni tra esseri diversi che condividono gli stessi spazi, lo stesso ambiente.

Però…
Eh sì, c’è un però, anzi, almeno un paio.
Il primo non è insito nella natura umana, ma è generato dalla convenienza di alcuni a discapito di molti. E chi ha il potere di condizionare i popoli a suo beneficio se non la politica? E questo avviene anche, non solo, in Malesia.

Oltre che i due brillanti artisti di George Town durante il mio soggiorno ho avuto modo di incontrare diverse persone dell’ambiente culturale malese, e molti di loro mi hanno mostrato un quadro meno idilliaco di quello che a prima vista si presenta a un visitatore straniero. Hanno chiesto di rimanere nell’anonimato in quanto:

La tensione sommersa tra le diverse culture, così come la critica alla politica, sono qualcosa che non verbalizziamo, perché in Malesia non siamo sempre liberi di dire quello che pensiamo.

Penang, ma in generale la Malesia dovrei dire, è cambiata molto, sta diventando sempre più divisa socialmente e politicamente. E i diversi gruppi, che in Malesia sono chiaramente definiti da razza e religione, sono costretti a prendere direzioni diverse. Ad esempio, nell'era di Internet, la parte musulmana è sempre più influenzata dalle forme dell'Islam estremista provenienti dal Medioriente.

Le comunità cinesi malesi, che un tempo erano identificate come Hokkien, Cantonese, Hakka, Teochew, sono sempre state separate, mantenendo una loro identità pur facendo parte di un ambito più ampio cinese. Ma i vari governi sono riusciti a far credere al mondo intero che ci sia un solo popolo cinese e che tutti i cinesi siano uguali, il che non è vero. Anche le comunità Tamil indiane guardano sempre più all'India, che sta cambiando rapidamente sotto il governo Modi che inneggia a una identità hindu del popolo indiano.

Qualche tempo fa uscivo con una ragazza malese che un giorno mi presentò alla sua famiglia. Non mi apprezzarono, anzi, fecero di tutto per dissuadere la figlia a frequentarmi perché sono di origine cinese. Nella cultura musulmana non ci si può semplicemente frequentare, ci si deve sposare, ma bisogna sposare la persona giusta, cioè un musulmano.

Ci sono stereotipi malesi sui cinesi, stereotipi cinesi sui malesi, sugli indiani e su tutti gli altri. Quindi ci sono tensioni che si manifestano quotidianamente. Ciò accade a partire dagli anni '80, quando i politici hanno iniziato a usare la razza per creare divisioni e assicurarsi il potere.

Frequento da quarant’anni il continente asiatico e, in particolare, l’India dove ho potuto vedere con i miei occhi quanto la politica crei divisione invece che incoraggiare l’unità nella diversità. Ho visto hindu andare nelle case di famiglie e amici musulmani a presentare i loro omaggi durante ‘Id al-adha ed essere accolti come veri amici. Ho parlato personalmente con le maggiori autorità musulmane in alcuni Stati dell’India del nord che si sono dimostrate molto più aperte di certi italiani che si professano antirazzisti. Ma l’attuale governo di Modi sta buttando all’aria centinaia di anni di coesistenza tra culture ed etnie diverse, professando l’avvento di uno stato hindu, dove le altre religioni saranno bandite, cristiani compresi.

India, Malesia, per non parlare di Israele e Palestina, ma non è forse lo stesso quello che sta succedendo negli Stati Uniti con Trump e la sua “politica” sugli immigrati?

E qui vengo al secondo “però”.
Se la politica trova terreno fertile per fomentare l’odio tra culture diverse non sarà perché la diffidenza, per non parlare di paura, verso “l’altro” è parte integrante della natura umana? Forse per motivi puramente genetici, di preservazione e continuazione del nostro DNA, della nostra linea ereditaria, un retaggio del nostro essere primordiale che ancora oggi, nei momenti di crisi, torna a fare capolino, non necessariamente per cattiveria o malafede. Qualcosa che condividiamo con gli altri esseri viventi di questo pianeta che, parafrasando Stephen Hawking, si danno tanta pena per continuare ad esistere, per portare avanti il proprio gene.

Forse Dio non ci vuole tutti uguali, forse trovare un equilibrio tra l’annientare l’altro e innamorarsene perdutamente (abbandonare, cioè, gli estremismi), potrebbe permetterci di imparare a trovare l’unità nella diversità, a conciliare io con te, nonostante le nostre differenze, ma senza negarle, semplicemente osservandole, facendo propri quegli elementi che a me mancano, ma di cui tu disponi e che potrebbero aiutarmi ad evolvere. Riconoscere che siamo diversi, ma non per questo farci la guerra, ma al contrario far sì che queste differenze ci aiutino a crescere, a capirci, a comprenderci. Non sono un Inuit, ma mi interessa molto conoscere il suo modo di interpretare la vita, voglio sapere come la pensa su diversi argomenti, che strumenti gli hanno dato i suoi antenati per sopravvivere in mezzo ai ghiacci. E questo senza pensare che io e lui siamo uguali, perché non è così.

Una provocazione? Forse, ma preferisco vederlo come il punto d’inizio di una diversa e più sincera convivenza.