Questo è il viaggio compiuto da una storia, ma sia ben chiaro come i protagonisti non si trovino solo nella storia. Ci sono i luoghi, da sempre fatti di quel passato che continua a raccontarsi nel territorio, e poi ci sono le cose da dire e i messaggi da far arrivare, comunicare, e che per primi, da sempre, sono affidati alle parole, fuori e dentro la storia.
Ad essere sincera non so se queste righe siano una trama o la descrizione di un territorio, di quelle che si prestano a suggerire un bel posto dove andare, non saprei se la narrazione sia venuta fuori per la redazione di un articolo a suo modo interessante o per quell’irresistibile desiderio di raccontare e rappresentare insieme, perché comunicare dovrebbe essere più spesso anche sinonimo di “esprimere”, non solo informare.
Il viaggio, e forse anche questa narrazione, iniziano comunque tra le mani di Umberto, a Grammichele, nel bel mezzo della Sicilia orientale. È la fine del mese di maggio, l’estate è alle porte ma da queste parti il caldo ha già un gran peso e la sua elevata misura.
Qui l’aria del mare isolano è un profumo ancora lontano, che si può respirare un po’ più giù. Il bel tavolato dei monti Caronia è invece alla stessa altezza mentre tutto intorno, Caltagirone, Mineo e Licodia riescono a restituire non solo il calore di una terra mediterranea e abbastanza a Sud, ma anche le immagini di un entroterra dal sapore tutto letterario, come quello definito dalle pagine veriste di Giovanni Verga e Luigi Capuana.
A Grammichele e dintorni è insomma come muoversi tra le righe di un’intensa narrazione, segnate da tanta storia e da tanto tempo. E, ogni volta che Umberto monta in bici per ritiri e consegne varie, è consapevole del patrimonio eterogeneo della terra che attraversa. Per questo, quando spinge sui pedali, sa di intraprendere un percorso fatto di chilometri, indirizzi e numeri civici che scandiscono i tanti racconti di un territorio letterario e letteralmente risuscitato più di una volta, prima di tutto dalle macerie.
La Sicilia, come questo borgo del catanese che si trova proprio al suo interno, ha avuto a che fare con eventi distruttivi e rigeneranti, ci sarebbero di mezzo anche la storia e l’attività di un vulcano, l’Etna, lì detto a muntagna, e di quella morfologia viva e spesso attiva anche nella profondità del mare. Si sente che è una terra lavica, respira forte e ancora.
Il disastro che interessò Grammichele si definisce terremoto, si verificò l’undici gennaio del 1963 e a voler essere precisi il sisma tremò prima ancora che Grammichele divenisse Grammichele.
Fino a quell’undici gennaio c’era infatti un borgo medievale identificato come Occhiolà, aveva piccole abitazioni costruite in pietra e il vissuto era il fare instancabile di contadini e artigiani ceramisti, ebanisti, intagliatori di pietra, maestri del ferro. Poi la scossa, assai violenta. Una catastrofe così imponente che fece tremare quasi tutti i centri abitati di quella meravigliosa parte della Sicilia e che, una volta ricostruita, ridefinì in stile Barocco l’intera Val di Noto, riedificando i capitoli di un’autentica favola dell’architettura. Lo sa bene l’Unesco che di tutta questa valle risorta ne ha fatto Patrimonio dell’Umanità.
Anche Occhiolà, nella sua disperazione, venne ricostruita.
Se ne interessò il suo principe e barone Carlo Maria Carafa Branciforte e fu una ricostruzione architettonica che diede al piccolo borgo uno sviluppo urbanistico del tutto inedito, caratterizzato da una pianta ad esagono. A idearlo fu un architetto che era anche un frate, Michele da Ferla. Dopo il terremoto, gli abitanti di Occhiolà non erano più tremila ma millecinquecento e il borgo, completamente nuovo prese a chiamarsi Grammichele.
Proviamo ad andarci oggi, e guardiamola dall’alto: c’è una piazza centrale, il suo perimetro disegna la regolare geometria di un esagono dal quale si diramano le vie e le architetture di tutta Grammichele che per questo è detta “città dell’esagono”.
Una propaggine arteriosa che dalla parte centrale suggerisce più di una via di fuga verso l’esterno, segnando quei percorsi attraversati, quasi ogni giorno, da Umberto, in bici. Lui carica il suo zaino a sacco, pedala e consegna.
È appena arrivato nei pressi della Piazza dedicata a Carlo Maria Carafa, dove c’è il palazzo comunale, la chiesa madre di San Michele Arcangelo, e gli edifici storici di un ex cinema. Chissà là dentro quante immagini mute hanno messo in scena racconto e meraviglia. Poi ci sono il Palazzo Fragapane e il monumento a quel Sisifo che, avvolto da tutto il peso del mondo, in questa piazza si comporta da meridiana ed è realizzato in ferro battuto.
Il caldo è quasi afoso, Umberto si ferma un attimo, abbassa la visiera del cappello per ripararsi meglio dalla luce ed è a quel punto che il piccolo cartoncino illustrato riposto nel tascone esterno del suo zaino gli scivola a terra. L’illustrazione mostra proprio la grande piazza di Grammichele ma alla maniera di un disegno, quasi uno schizzo o un bozzetto tratteggiato a matita, come per restituire quel luogo ad un altro tempo. La piazza sta ora due volte a terra, incorniciata nei contorni di un cartoncino rettangolare e illustrato che, per ogni suo metroquadro, pesa si e no duecentocinquanta grammi. Il taglio poligonale ha una misura compresa tra una quattordicina di centimetri in larghezza e i dieci e poco più di altezza. Ci potrebbe stare una vita?
Quell’immagine è l’avanti di un dietro, per svoltare basta il giro veloce tra le due dita di Umberto. Così si passa dalla parte patinata e lucida a quella posteriore e grafica che disegna quattro righe continue, allineate in basso a destra per lasciare poi spazio bianco alle parole da scrivere, o alle cose da dire, da significare. È da qui, da queste righe che parte la storia pensata da Umberto, dopo averla raccolta da terra, nel girare l’immagine.
Qualcuno su quelle righe ha scritto il nome di un destinatario. Poi nello spazio libero e senza linee ha scritto ancora:
Il viaggio è un cammino, ma il cammino non è il viaggio.
Umberto mette insieme gli elementi indicati su quel cartoncino: Piazza di Grammichele con tutti i suoi monumenti, illustrati e disegnati, compreso quel Sisifo che la mitologia ha condannato a dover rotolare una grossa pietra e in eterno, poi la destinazione riferita a una certa Cecilia che si troverebbe invece a Roma, e infine un piccolo testo scritto a mano, con parole che definiscono tragitti e forse distanze… magari di lei. E poi chi è che avrebbe scritto? Lui? E lui chi poteva essere? Un padre, un amico, un marito, un fratello? Cosa possono significare quelle parole?
Umberto cerca di arrivare fino a Roma, da Cecilia, viaggiando dentro al messaggio indirizzato a lei, accomodandosi in un vagone di pochi vocaboli. Il bagaglio è quello leggero e appena lungo come quella frase ma il viaggio può essere abbastanza carico: di cose da imparare, momenti da vedere, ponti da attraversare o magari stanze nelle quali entrare.
Il viaggio è un cammino, ma il cammino non è viaggio. Umberto se lo ripete così, cercando di afferrare il significato di quell’espressione, lo fa perché è uno di quelli al quale non piacciono le parole che rimangono senza storia.
È brutto avere una parola e non pronunciarla senza creare una storia che sia di verità. È brutto quando parliamo nel mondo senza attestare una storia, senza generare nessuna creazione, senza efficacia, senza raggiungere l’altra parte del cuore, senza lasciare qualcosa all’altro. Per questo Umberto ritorna a quel viaggio e al suo diventare cammino, alla piazza che diventa esagono aprendo tutte le sue vie fino a raggiungere Roma, e ci mette di mezzo anche una piccola traversata, pensando che tra Grammichele e i sette colli c’è anche lo stretto del mare con la sua Fata Morgana pronta a confondere con l’invisibile.
Viaggio e cammino. Umberto, pensa che si tratti di passi che non si rassomigliano affatto.
Un cammino è salita e discesa, è fame e sete, è sosta e ripresa, è piano e veloce, un cammino è come la preghiera, il passo continuo al ritmo della devozione. Il viaggio è variabile, il cammino è certezza, è a piedi nella tenacia di ogni incedere. Il viaggio è nella testa, il cammino è nel cuore, dentro alle vie che si devono attraversare, dentro alle parole che si scrivono per rimanere.
Umberto sa che il mittente ha scritto da Grammichele, deve essere qui per via del proprio di viaggio. Deve essere rimasto indietro, o ancora peggio altrove. Cecilia invece, da sempre in cammino, è arrivata fino a Roma. Cecilia è capitata nel sentiero dei ricordi confusi che un giorno le si sono intrappolati nella sofferenza di una stanza d’ospedale.
Lì le pareti erano bianche, le finestre ampie, i letti enormi e con le sbarre per non cadere, il tempo lento, la mente di corsa e la casa lontana. Ogni tanto andava a trovarla una bambina, la vedeva solo lei. Era di quell’Occhiolà dove non si abita più. Qualcuno continuava a dirle che nelle stanze d’ospedale non potevano esserci bambini, tantomeno di Occhiolà, e che quella non era più nemmeno una stanza d’ospedale.
Era casa sua, dove c’era ogni cosa di lei: l’abbondanza di una natura spontanea, la terra aperta della campagna, la messa sempre e al mattino presto, il germogliare delle cose buone, il calore di un braciere in pieno inverno, ciò che si semina e che poi si raccoglie, la pentola sul fuoco vivo, una piccola giara dentro al camino, la tavola ben imbandita, la porta sempre aperta, le arance rosse e l’uva fragola che diventa vino, la festa santa da rispettare, l’impasto, il pane e il forno di pietra, il latte appena munto che fa la schiuma, un tempo infinito e sempre diviso tra fare e servire, i figli piccoli che devono diventare grandi, lei da bambina in una piccola casa, e appena di fronte una chiesetta piccola e povera dove non voleva sposarsi nessuno, lei semplice donna nel gran da fare della campagna, una vita vissuta con la schiena piegata alla terra e la gratitudine di uno sguardo di chi ha sempre affidato ogni sua più cara cosa alla trasparenza del cielo, passando per quella chiesa di cui non ne voleva sapere niente nessuno.
Una vita vissuta che adesso, dentro al bianco di quella stanza, sotto il manto di lenzuola o coperte che proteggono, tra cure e premure, è diventata una vita immobile e tutta pensata, un’esistenza che all’improvviso ha preso a muoversi in un pieno di ricordi, in viaggi di memoria, recitati a memoria, nel prima o nel dopo, nel sempre e nel suo mai.
Come si fa a pensare una vita tutta intera, a tenersela stretta nel disordine di un tempo senile? È faticoso mantenere l’ordine di sé stessi rispetto alle cose del mondo, ma in un modo o nell’altro Cecilia ci riesce ancora. Ancora entra ed esce da quella piccola chiesa di cui non ne voleva sapere nessuno, è bambina ed è donna, è moglie e figlia, è sorella e madre, è vita di quello stesso credo e valore, è vita che mantiene fede ad un’unica promessa.
La meridiana di Sisifo, a Grammichele segna mezzogiorno.
Ad Occhiolà sono invece le quattordici in punto. A Grammichele c’è il terremoto, ad Occhiolà la ricostruzione. No, non è l’inverso. A questo punto della storia, del viaggio e del cammino, il tempo e il luogo sono un miscuglio che riesce a dare senso al non senso, attraverso il senso di una vita. Non è Cecilia che deve definire il prima e il dopo, chi era e chi è, lei è sempre in cammino nello stesso suo tempo, tra gioia e dolore, a volte tra inquietudine e serenità, tra consapevolezza e spontaneità, tra delusione e perdono.
È così che si pensa la vita, tutta d’un fiato, aggrappata alla bontà anche quando non si può essere buoni, anche quando arriva il terremoto.
Ecco… Tutto trema, a volte tutto crolla. Ma le parole di una vita possono raccontare la ricostruzione e rimanere vita. È così che Umberto ha conosciuto la signora Cecilia, attraverso un messaggio di poche parole, una storia raccontata non si sa come, attraverso un viaggio che è cresciuto rimanendo sempre in cammino. Anche la meridiana di Sisifo adesso punta le quattordici. E siccome le storie più autentiche si scrivono con parole pronunciate in coincidenza con i riflessi del cielo, ecco che alle quattordici a Grammichele, in piazza, arriva una bambina, ha in mano una cartolina.
Ho fatto un lungo viaggio, sono stata lontano lontano.
Prima di andare non ho preparato nessun bagaglio,
anzi ho dovuto lasciare tutto.Ma non sono mai stata sola, né vuota, né inconsapevole.
E quando sono arrivata ho trovato una grande indescrivibile pienezza.
È allora che ho fatto il mio bagaglio.Ora posso portarlo con me e altrove.
Non posso perderlo più.
Viaggia con me ogni giorno.È più leggero di un respiro.
È più puro di una lacrima.
È sicuro come quella Mano che non mi ha mai lasciata.È vero, sono andata lontano lontano … in un posto inchiodato.
Dentro e non fuori.
Sono stata. E ho compreso che non avrei voluto essere da nessun’altra parte.
Sono ancora.Essere è rimanere.
Ami, rimani.
Resto.
Mentre il mondo chiede di portarti altrove.