Se vi domandassi: “Chi ha fatto la cupola del Duomo di Firenze?”, la risposta sarebbe unanime: Brunelleschi. Tuttavia, chi conosce il mondo delle costruzioni sa bene che Brunelleschi non posò un solo mattone, non issò le impalcature, non maneggiò corde né martelli. La cupola fu costruita da manovali, carpentieri, scalpellini: maestranze organizzate in squadre, spesso appaltate da ditte diverse. Eppure, se chiediamo: “Di chi è la cupola?”, rispondiamo senza esitazione: di Brunelleschi.

Questa risposta è, oggettivamente, imprecisa. Ma nessuno dubita che sia giusta. È proprio in questo scarto che si rivela il senso profondo dell’essere autori di qualcosa. Senza saperlo, formuliamo la domanda: senza Brunelleschi, quella cupola sarebbe mai esistita? Evidentemente, rispondiamo di no. Il ruolo di Brunelleschi ci appare talmente decisivo da offuscare il contributo – pur notevole – di muratori, carpentieri e scalpellini. Tutti altamente competenti, ma al servizio di un progetto concepito da un’unica mente.

Per comprendere cosa abbia effettivamente fatto Brunelleschi per meritare l’attribuzione dell’opera, possiamo ricorrere alle quattro cause di Aristotele: la causa materiale (di cosa è fatta una cosa), quella formale (la disposizione delle parti), quella efficiente o agente (chi la realizza), e infine la causa finale (il perché dell’opera). Brunelleschi si è occupato della causa formale, della causa finale, e ha scelto i materiali (la causa materiale); le maestranze hanno invece ricoperto il ruolo di causa agente.

Confortati dall’autorità del maestro di color che sanno, chiediamoci cosa possa insegnare l’esempio di Brunelleschi ai tempi dell’intelligenza artificiale generativa a un giovane che si presenta a un colloquio di lavoro. Curriculum in mano, racconta le sue competenze, le esperienze, i titoli conseguiti. Tutto corretto. Ma non più sufficiente.

Sono convinto che le nuove tecnologie di intelligenza artificiale stiano imponendo – e imporranno sempre più – una nuova divisione del lavoro cognitivo tra esseri umani e macchine. Persone e organizzazioni dovranno riorganizzare in profondità le proprie attività.

Credo sia ormai superfluo domandarsi se queste nuove macchine siano davvero intelligenti. L’unica risposta sensata è che fanno cose che, se le facesse un umano, definiremmo intelligenti. Più utile è allora spostare lo sguardo sugli spazi di azione che esse rendono possibili.

Qualche mese fa, ho fatto un esperimento. Avevo appena completato una prima bozza di articolo scientifico, ma non ne ero pienamente soddisfatto. Ho quindi deciso di ricorrere all’AI generativa per migliorarlo. Ho fornito alla macchina gli articoli di tre autori che avevano trattato lo stesso tema e le ho chiesto di costruire tre profili di revisori virtuali, mettendo in evidenza i rispettivi punti di vista sull’argomento. A ciascun revisore ho attribuito un nome fittizio. Poi ho chiesto a ciascuno di analizzare criticamente il mio saggio, segnalare le debolezze, argomentarle e proporre miglioramenti. Il risultato? Una revisione analitica, che evidenziava incongruenze stilistiche e contenutistiche, proponendo una serie di soluzioni per migliorarne chiarezza e coerenza. Non tutte le osservazioni sono state accolte, ma l’esperimento era ancora primitivo.

L’ho poi ripetuto in vista di un ciclo di lezioni, addestrando la macchina a generare un team di agenti virtuali: ciascuno impersonava una tipologia di discente, un committente o un revisore dei materiali didattici.

Proseguendo con questi esperimenti, ho notato una progressiva trasformazione del mio modo di lavorare. Il mio ruolo diventava sempre più quello di Designer della conoscenza, mentre la macchina assumeva quello di esecutore. Proprio come Brunelleschi, io mi occupavo di definire il sistema di vincoli e risorse necessario per ottenere un buon testo, scegliere e valutare i contenuti, proporre, modificare e affinare le idee. Tutta la parte esecutiva, man mano, veniva affidata alla macchina. Una quota significativa del tempo era dedicata all’addestramento degli agenti per compiti specifici.

Da queste esperienze è scaturito un suggerimento che rivolgo ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro: redigere un curriculum che, oltre a elencare conoscenze ed esperienze, contenga una sezione dedicata a “I miei agenti virtuali”. In essa, il candidato potrebbe presentare le abilità dei propri collaboratori artificiali. Potrebbe dire, per esempio: “Conosco Python” o “ho esperienza in marketing digitale”, ma anche: “Utilizzo un mio team di agenti AI per analizzare dati, predisporre budget, gestire progetti, simulare scenari. Ogni agente è stato addestrato da me con sessioni formative dedicate e ha superato severe prove di valutazione. Assumendo me, assumerete anche la mia squadra virtuale.”

Prevedo che il curriculum del futuro includerà, accanto alla lista delle competenze, una mappa di strumenti cognitivi: quali tecniche di prompt design sono state sviluppate, quali agenti vengono utilizzati per quali scopi, come sono coordinati tra loro, quali risultati hanno prodotto in contesti concreti.

Non si tratta soltanto di una questione tecnica. È una trasformazione profonda del sé professionale: da artigiano della conoscenza a designer di un processo distribuito tra soggetti umani e soggetti artificiali. Per questo, se oggi un giovane mi chiedesse “Come scrivere un buon curriculum?”, risponderei così: non raccontare solo chi sei. Racconta anche chi sono gli agenti artificiali del tuo team. Mostra come li hai resi strumenti del tuo pensiero. E se qualcuno obiettasse “Ma allora non sei tu il vero autore di ciò che fai?”, tu potrai rispondere che neanche Brunelleschi posò mai un mattone. Ma senza di lui, la cupola non ci sarebbe. E senza di te, i tuoi agenti non costruiranno nulla.