1. PJ Harvey, “Let England Shake”

Soldati che cadono a terra come carne macellata, avanzano nel sole e si nascondono nel buio, morte che “è tutto e tutti”. Le battaglie della vecchia e nuova Inghilterra cantate da Polly Jean ormai hanno una decina di mesi, ma per me il disco del 2011 rimane di gran lunga questo, scritto con cura maniacale a cominciare dai testi drammatici, e consegnato al pubblico in una confezione musicale che, pur non concedendosi scorciatoie, è matura e accessibile, meno ruvida del solito. Nella playlist: “In the Dark Places”.

2. Bon Iver, “Bon Iver”

Con la seconda uscita questo ragazzotto ex sfigato convince soprattutto perché disegna un mondo tutto suo. Con il falsetto, un suono inconfondibile e un album “geografico” fatto di posti veri e immaginari, con testi di cui è inutile cercare la decriptazione, Justin Vernon ci porta un’America fotografata con la Leica e ritoccata con il vocoder. Una conferma dopo l’esordio di “For Emma, forever ago”. Nella playlist: “Perth”

3. Tom Waits, “Bad As Me”

Tom finirà almeno sul podio finché non ci propinerà una ripresa live di un phon che gli asciuga i capelli tinti. “Bad as me”, come detto a suo tempo, non è tra le pietre miliari dell’orco di Pomona. Ma, diciamocelo onestamente, un compito svolto nella media da un signore come questo equivale al capolavoro di una vita per altri. Forse non c’è una scelta forte, né un tema portante, ma il campionario waitsiano contenuto in queste tracce resisterà nel tempo, ci scommetto. Anche perché può accontentare sia i nostalgici dell’era Asylum che i seguaci del furioso scorticatore di note. Nella playlist: “New Years Eve”.

4. Fleet Foxes, “Helplessness Blues”

In teoria sarebbero un po’ troppo “accordati” per piacermi. I loro dischi, e come ho verificato a Bologna anche i loro concerti, sono tintinnanti, in un certo senso mi fanno venire in mente i Beach Boys con l’ascia da taglialegna sottobraccio al posto del surf. In pratica, nonostante questa perfezione, mi divertono e hanno avuto alcune delle idee più forti negli ultimi anni. Nella playlist “The Shrine/An Argument”.

5. Johnatan Wilson, “Gentle Spirit”

“Ma” e “però” all’orizzonte: è un disco che non dice molto di nuovo. E’ vero, l’ho scritto anch’io sul diario, e lo ribadisco. Ma insisto su un particolare: quando finisci per metterlo, rimetterlo e ri-rimetterlo nel lettore di continuo, è ufficiale che un album è tra i tuoi preferiti. E continuo a pensare che “Natural Rhapsody” sia valida al di là di quello che rubacchia ai Radiohead o riprende dai Pink Floyd, “Can we really party today?” faccia lo stesso nonostante la sua crosbystillsnasheyounghianità, per non parlare di “Desert Raven”, che gradirei prima o poi venisse disisntallata dalla mia memoria a breve, così da poter canticchiare anche altro. Nella playlist: “Natural Rhapsody”.

6. Black Keys, “El Camino”

Sono tornati alla fine dell’anno con la produzione di Danger Mouse, e l’ultima aggiunta alla lista in ordine di tempo è stata obbligata: “El Camino” è un altro disco strepitoso firmato dalla coppia Auerbach-Carney. Senza momenti deboli, perennemente scosso dall’impulso elettrico delle chitarre distorte e sostenuto dalla spontaneità di canzoni che vanno al sodo, è un lavoro che conosce senza incertezze la propria direzione: diritto al cuore del rock’n roll. Nella playlist: “Dead and Gone”.

7. Beirut, “The Rip Tide”

Mi dispiace che suonassero a Londra, alla Brixton Accademy, la stessa sera in cui ho sentito Brian Wilson alla Royal Festival Hall, e d’altra parte il sold-out mi aveva tolto dall’imbarazzo di fare una scelta. Zach Condon, motore della band, ormai è un pezzo forte nel panorama indipendente: la sua è una musica di frontiera, con qualche difficoltà a capire se la frontiera è quella tra Texas e Messico oppure se siamo a cavallo dei Balcani. Spasso assicurato. Nella playlist: “The Rip Tide”.

8. The Low Anthem, “Smart Flesh”

Non gli si resiste: basta mettere un paio di volte “Apotechary Love” per arrendersi , trattandosi di una centilena stregata, che sintetizza in pochi minuti la mia idea di “Alternative Country”. Non so se è destinato a durare nel tempo, ma quest’anno mi ha regalato parecchie ore ad alto volume. Una volta, mentre lo ascoltavo in piena notte in salotto, mia moglie si è alzata dal letto per chiedermi di abbassare, perché facevo troppo chiasso. Considerando che lo stavo sentendo con le cuffie, probabilmente aveva ragione. Nella playlist: “Boeing 737″.

9. Wilco, “The Whole Love”

Comincia con la ritmata, frenetica, elettrica “Art of Almost”, chiude con la lunghissima, splendida “One Sunday Morning”, e in mezzo la band di Jeff Tweedy piazza una sfilza di pezzi riusciti , cambiando spesso ritmo e dimostrando di essere a proprio agio con influenze, e a tratti anche generi, diversi. In Italia a marzo, ma il vero evento è stato il tour in coppia con Jonathan Wilson. Nella playlist: “One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend)”.

10. Timber Timbre, “Creep On Creepin’ On”

Gotico, folk, country, blues, dark. Mi risulta impossibile definire questo disco, che non comparirà in molte altre classifiche del 2011. Alla lista delle suggestioni aggiungo velatissime inflessioni soul nell’uso dei fiati e nelle scelte ritmiche. Nonostante un paio di pezzi strumentali arditamente dissonanti, l’abilità nel dosare i pieni e i vuoti, le orchestrazioni, la scrittura di molti brani mi conquistano, e ci trovo un’impronta originale. Nella playlist: “Creep on Creepin’ on”

Niente di oggettivo. E’ quello che è piaciuto di più a me. Aggiunte e suggerimenti sono graditi, e non sono considerati per forza una critica. info@wsimagazine.com