Non sai bene cosa succede quando ti innamori. Non sai quali reazioni avrai quando ti muore un amico caro. Non conosci nemmeno gli effetti di un no o un sì o di un forse assestati su una delle tante pieghe quotidiane della tua esistenza. Arriva uno stimolo ma l’effetto di questo stimolo in te non è certo, non lo puoi predire, non puoi determinarlo con granitica sicurezza. La vita è così, è quello che ti accade mentre sei tutto intento a fare altri piani, diceva John Lennon. Chi studia la complessità e i sistemi complessi dà a tutto questo un nome: non linearità. I sistemi complessi sono non lineari, cioè l’effetto degli input sugli output non è proporzionale.

Talvolta un virus genera pochi effetti localizzati in poche persone, talvolta scatena una pandemia a livello globale con ripercussioni su tutto: economia, psicologia delle persone, mobilità, aspettative di vita, sociologia, urbanistica, modelli di lavoro. Tutto è impattato, in quell’insieme di nodi e relazioni che si chiama umanità. Talvolta una frase ascoltata ti fa ribollire il sangue e fatichi a mantenere un atteggiamento equilibrato, talvolta la stessa medesima frase scivola via indifferentemente senza generare alcunché nella tua mente. Talvolta una singola parola ti scioglie e ti fa palpitare il cuore, talvolta quella parola ti fa dannare l’anima, non ti fa dormire la notte, risuona in te come una melodia dolceamara. Il mondo è non lineare, la società è non lineare, tu sei non lineare.

La linea: un punto in movimento

La linea è un punto in movimento, un punto che non riesce a stare fermo e sente la necessità di andare un po’ di qua e un po’ di là. La linea ha una sola dimensione, la lunghezza, mentre manca di larghezza e di profondità. Quando il punto si muove in un’unica direzione la linea si chiama retta. Quando procede prima in una direzione, sempre diritto, poi cambia e procede ancora diritto per un po’ e poi cambia di nuovo, la linea è detta spezzata. Quando invece il punto si muove casualmente su un piano o nello spazio allora la linea si definisce curva. E la nostra esistenza è un continuo susseguirsi di linee rette, spezzate e curve, a seconda delle giornate, a seconda del nostro umore, a seconda di come il sole e la luna scrutano il nostro transito terrestre, determinandone in parte l’andamento.

La parola linea, in latino līnĕa, deriva dal lino, e propriamente rappresenta un ‘filo di lino’, un ‘cordone di lino’. La pianta di cui conosciamo i semi, la farina, le stoffe, i vestiti e l’olio ha prodotto – con lo scorrere della storia e con l’evoluzione della lingua – anche la linea, concetto da cui partiamo per definire tutto ciò che non è lineare quando parliamo di sistemi complessi. Un esempio di non linearità? Lo spazio di frenata di un’automobile a 30 chilometri all’ora è più del doppio di quando procede a 20 chilometri all’ora. Annodando un filo di lino, avvolgendolo alle nostre dita, riflettiamo un po’ su cosa ci capita mentre viviamo.

La rettitudine e i saliscendi della vita

Mondo non lineare, mondo non retto, mondo non giusto. È così, almeno in parte è così. I sistemi complessi non hanno in sé l’idea di giustizia, non sono squadrati, non posseggono le caratteristiche dei rettangoli. I sistemi complessi, come te e come me, non possiedono rettitudine: funzionano, evolvono, sono soggetto e oggetto di metamorfosi, non rispondono a regole certe, non conoscono gli angoli retti. I sistemi non lineari sono anche non retti. L’aggettivo retto significa diritto, privo di curve e di saliscendi ma anche onesto e probo. Nella no linearità osserviamo anche la mancata certezza della probità. La parola retto è un prestito dal latino rēctus, che voleva dire ‘dritto’, ‘regolare’ e anche ‘giusto’.

Da quel rēctus in italiano abbiamo ricavato la retta nel senso di linea retta ma anche nel senso della quota fissa che si paga per il vitto e per l’alloggio, abbiamo ottenuto il rettangolo e anche il verbo rizzare. Rēctus era derivato del participio passato del verbo rĕgĕre che significava nella lingua di Cicerone ‘dirigere’ e ‘guidare in linea retta’. Da quel rĕgĕre in italiano abbiamo ricavato il verbo reggere ma anche la regia, la regola e il rettore. Nei sistemi complessi manca la regia, nessuno decide le regole a cui i singoli elementi che compongono il sistema si devono adattare: il sistema si autoregola, la retta la trova da sé e per sé.

Le curve che consentono nuovi panorami

Una linea può essere curva, quando non procede in una sola, unica direzione. Quando dobbiamo muoverci da qui a lì nel mare e siamo in barca a vela la nostra andatura è un continuo susseguirsi di curve. Nei sistemi lineari, deterministici, saliamo su una barca a motore: a meno di intoppi, sappiamo quanto tempo impieghiamo per salpare da un porto e raggiungerne un altro e conosciamo con eccellente approssimazione il tragitto. Nei sistemi complessi invece il nostro mezzo è una barca a vela: la traiettoria dipenderà dal vento e dalle onde, non possiamo determinare in anticipo con esattezza quale sarà il nostro spostamento né quanto tempo impiegheremo. Continue sorprese, con accelerazioni sorprendenti generate da un maestrale impetuoso o improvvise bonacce che afflosciano le vele sul boma. Una volta arrivati a destinazione, solo allora, sarà possibile ricostruire il percorso sulla mappa e il tempo impiegato.

Così come nella vita degli esseri umani: quando non ti aspetti qualcosa, l’esistenza ti propone lo stupore della nuova sfida. La parola curva è anche essa un prestito dal latino cŭrvus che secondo lo studioso di etimologie Alberto Nocentini mostra la stessa -u- radicale del greco kyrtós, che voleva dire ‘gobbo’, e dell’irlandese cruind, con il significato di ‘rotondo’, tutti discendenti dalla stessa radice di cŏrvus ‘corvo’: come per la cornacchia, anche il becco del corvo si presta a indicare per metafora oggetti sporgenti o ricurvi. E il corvo, il nero uccello dal becco ricurvo, ci ricorda che le linee delle nostre vite sono sempre curve: disegnano tornanti che consentono di ammirare paesaggi sempre nuovi.

I segmenti che tagliano la realtà

Nei contesti deterministici, osservi porzioni di realtà che possono essere rappresentate da segmenti: la parte di retta compresa tra due suoi punti. Nei contesti complessi invece i segmenti sono sempre più difficili da individuare: si mescolano ad altri, sono evanescenti, sfuggono alla certezza, appaiono un po’ come il gatto di Erwin Schrödinger, un po’ vivo e un po’ no. La parola segmento deriva dal latino tardo segmentum che voleva dire ‘pezzetto’, ‘ritaglio’, derivato a sua volta dal verbo secāre, ‘tagliare’, che in italiano ha generato il verbo segare. Ecco i sistemi complessi non sono ‘segabili’, non puoi prendere solo un pezzo di formicaio o una parte di società o un braccio di un essere umano per rappresentare lo spettacolo dell’abitazione delle formiche o la meraviglia di un aggregato sociale o l’incanto di un corpo. Conoscere le parti, i segmenti, è utile quando devi montare un’auto o un apparecchio elettrico: quelli infatti sono sistemi complicati, non complessi.

I solchi del trascinamento

Cammini sempre sullo stesso tratto del selciato, generi un solco. Quel solco è un’incisione, un segno, una traccia del fatto che tu hai attraversato e riattraversato uno spazio, con costanza, con tenacia, con determinazione, con perseveranza. Vai e torni, muovi passi, scavi in profondità alla ricerca del senso delle cose. Ti impegni, vai al nocciolo dello studium. Conoscere l’origine della parola solco ci aiuta a comprenderne a pieno il significato, perché nel procedere all’indietro nel tempo acquisiamo la distanza migliore per farci un’idea più ampia di cosa voglia dire. Solco ha un’origine indoeuropea e sŭlcu(m) che voleva dire ‘solco’, ‘traccia’ in quanto incisione prodotta da una trazione. Il latino sŭlcus corrisponde al greco antico holkós ‘solco’ (da *swolkos) che conserva anche il verbo hélkō ‘trascinare’, a sua volta confrontabile con il lituano vilkti e col russo vleč’, entrambi col significato di ‘trascinare’, ‘tirare’. Quando creiamo un solco con i nostri piedi, ci trasciniamo sempre sul medesimo tratto di strada, non osiamo sperimentare l’inaudito, non abbiamo il coraggio di provare l’invisibile.

Flatland, il luogo in cui si incontra il piattume

Flatlandia, edito da Adelphi, è un racconto che tutte e tutti dovrebbero leggere. Autore ne è un saggista e teologo inglese vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, Edwin Abbott Abbott. Nella prima parte del volume, l’ambientazione è il mondo a due dimensioni, abitato da segmenti, semirette, vettori, rombi, cerchi, quadrati. Nessuna profondità, nessuno spessore, nessuna altezza. I concetti, le idee, si possono valutare solo per lungo e per largo. Ovviamente con una possibilità ridotta di capire che la materia può essere anche alta e spessa. Nella seconda parte del volume, la sconvolgente scoperta: il quadrato può dialogare con una sfera, si espone a una terza dimensione, apprende che un altro mondo è possibile, come quel Mondo Nuovo che possiamo osservare nell’affresco dipinto nel 1791 da Giandomenico Tiepolo e custodito al museo del Settecento veneziano di Ca’ Rezzonico.

L’aggettivo inglese flat, che significa piatto, piano, liscio, disteso, ha una radice indoeuropea plat che stava ad indicare tutto ciò che ha una forma piana. Ritroviamo quella radice antica in molte parole italiane: nella piazza in cui passeggiamo e nel piatto in cui mangiamo, nella pianta e nel soprannome latino *Plautus che stava a indicare una persona dai piedi piatti. Insomma, ciò che è flat appare in definitiva un po’ banale, senza una prospettiva ampia: va bene per tutti indistintamente ma non è pensato nello specifico per te che invece non sei piatto (o piatta) e necessiti sempre di chiederti il perché.