Mi sono ritrovato, come spesso accade, seduto a questa scrivania con la voglia matta di raccontare una storia. Sentivo arrivare dalla tv in soggiorno le solite notizie trite e ritrite e tra queste le solite frasi buttate un po’ così come fossero slogan. Mi colpisce distintamente una di loro: “Tutto sta cambiando”, sparata lì senza contesto. In particolare quel “tutto” mi disturba un po’. Penso a tante cose in un secondo aiutato dalla giusta nostalgia che aggiunge il tocco di sale necessario alla situazione. Stranamente non mi butta giù, anzi, mi fa volare indietro con i ricordi e lo schienale della sedia, inclinato verso il passato, dritto contro un’immagine in particolare…

Anni fa praticavo la scherma, uno sport che mi ha dato tutto: gioie, dolori, sofferenze, sorrisi, lacrime, esperienze… non conta fare l’elenco completo, sono quello che sono anche per quello sport. Frequentavo un palazzetto dove mi allenavo quotidianamente e respiravo quell'aria umida, fredda e totalmente priva di un impianto di riscaldamento adeguato. Insieme a noi schermidori c’erano anche giocatori di hockey su pista, ballerine, pallavoliste, arrampicatori e chi più ne ha più ne metta. Certo, detto così può sembrare un luogo estremamente caotico e poco funzionale, ma in realtà, la calma e il caos sono agli antipodi e in mezzo ci passa tutta la vita. Nella non sempre facile convivenza tra più sport totalmente diversi tra loro, una cosa ci accomunava tutti: ... ebbene no, non era la fatica, la passione o il sudore; o meglio, anche, ma io parlavo di una persona in particolare: Otto, il custode.

Basso, claudicante, con pochi capelli ricci grigi e ancor meno denti, occhiali muniti di cordicella, pelle scura e aria burbera. La descrizione forse non rende giustizia, ma il suo mito ha fatto eco nelle orecchie di tutte le generazioni di atleti che si sono succedute negli anni al palazzetto. Abitava lì, in realtà nessuno sapeva con esattezza quale fosse la porta d'entrata della sua vera casa. Viveva solo. Abbiamo provato più volte ad immaginare come fosse arredata la sua abitazione. Un blocco completamente staccato dal resto? Oppure una semplice e fredda estensione del palazzetto? Domande alle quali nessuno ha dato mai una risposta, alimentando così il mito di Otto. La sua età era un altro mistero. Giovane non era, questo è poco ma sicuro; impossibile rispondere alla domanda se non con dei generalizzati: “più di 50”, oppure: “Penso sopra i 60”. Non partivano scommesse illegali solo perchéé sarebbero state impossibili da verificare.

Otto era un semplice custode, non che fosse un lavoro facile (non sono neanche sicuro che nel suo caso fosse un lavoro vero e proprio, di quelli con stipendio e contributi annessi), di certo, per gran parte della giornata, piccoli lavoretti e compagnia non gli mancavano. Che sia una spazzata per terra o una lampadina fulminata da cambiare, non stava quasi mai con le mani in mano. Non l'ho mai sentito fare grandi discorsi, ma l'ho sentito fin troppe volte ripetere quello che per noi ormai era un tormentone: «ve lo buco quel pallone!». Detto non proprio così. Le parole erano masticate male e quello che arrivava, più che altro, era il forte senso di minaccia.

Non si poteva giocare col pallone praticamente da nessuna parte in quel palazzetto e ne ho avuto conferma del motivo dopo diversi vetri rotti. Non siamo mai stati i ragazzi più tranquilli del mondo, ci prendevamo a scarpate nello spogliatoio, così, per gioco. Vi risparmio ulteriori commenti. Sta di fatto che uno dei superpoteri di Otto era la sua capacità di... fiutare? Sentire? Percepire? (Non è chiaro quale senso usasse per farlo), i ragazzi che giocavano di nascosto col pallone e come per i più noti Batman, Spiderman e Don Matteo, spuntava sul luogo del crimine dal nulla, in una frazione di secondo, scatenando un fuggi fuggi generale che ti faceva sentire colpevole anche se in quel momento eri solo un passante.

Non ha mai fatto male a nessuno, ma il solo sentore vago del suo nome bastava ad incutere timore dentro il cuore di chiunque frequentasse il palazzetto. Col senno di poi, penso che in quel luogo fosse un po' tutto la sua casa, quindi vi chiedo: voi vorreste valanghe di ragazzi sudati che urlano per casa? ... il pallone era davvero troppo, vista da fuori, ora come ora lo capisco. Come ogni supereroe leggendario che si rispetti, la sua storia parte da un evento triste. Bruce Wayne non sarebbe Batman se non avesse perso i genitori in quel modo, stessa cosa vale per Peter Parker con lo Zio Ben e via discorrendo.

Si raccontava quasi come fosse un’esigenza essenziale parlarne, che Otto si trovasse in quel palazzetto, dopo quello che immagini sia stato il giorno più brutto della sua vita: il giorno in cui venne lasciato sull'altare. Vorrei poter ironizzare e sdrammatizzare come faccio sempre o anche solo provare a immaginare cosa significhi per una persona un evento del genere. Non ci riesco. Non ho mai sentito nessuno farlo. Volevamo bene a Otto, parlarne con la giusta serietà di quell’episodio, mai con certezza confermato, era il nostro modo per rispettarlo. Non so se essere lasciati sull’altare renda qualcuno immediatamente degno di rispetto e di certo non voglio sperimentarlo.

A mio parere, non esistono eremiti per vocazione. Soli ci si diventa, nel suo caso, per scelta di qualcun altro. Ma sono qui per parlarvi di una leggenda, del cambiamento e quindi anche del suo riscatto. Un riscatto che si trova proprio lì, in quel luogo freddo e umido senza un impianto di riscaldamento adeguato. Un posto così inadatto al normale concetto di casa che ha accolto un uomo senza fare troppe domande, donandogli la possibilità di arredare al meglio quella solitudine non scelta. È stata una seconda casa anche per noi in quegli anni, quindi capisco bene perché lo vedessi sorridere spesso.

Quando sono tornato al palazzetto diversi anni dopo, ho passeggiato da solo tra le pedane. Sono passato nella vecchia stanza degli armadietti e ho fatto un giro veloce per gli spogliatoi. L’aria era la stessa, sembrano non essere passati gli anni. L’onda della nostalgia mi ha travolto, stavolta buttandomi un po’ giù e rendendo la mia passeggiata più pesante del previsto. La stessa nostalgia che tento di cavalcare con la penna in mano quando sono alla mia scrivania intento a raccontare una storia come questa, più che un racconto è un modo per fissare un ricordo e legarlo con delle parole. Mi sono sentito diverso dall’ultima volta in cui ero stato lì, come fossi un’altra persona. Sono cambiato così tanto in questi anni che mi ha stupito come quel palazzetto mi apparisse identico. La prova che lo fosse però, l’ho avuta alzando un attimo gli occhi sugli spalti vuoti. Con la sua tuta, gli occhiali, i capelli grigi e il leggero zoppicare, c’era lui: Otto.

Ho sorriso.