È stata definita più volte, anche su queste pagine, una storia infinita o meglio nel senso letterale senza fine ovvero la cui soluzione è ancora nelle speranze di tutti. Il nostro paese, tutti lo sappiamo anche se non nel modo preciso in cui le cose sono avvenute, si è privato delle centrali nucleari e dell’energia dell’atomo. Oggi se ne torna a parlare con impianti di ultimissima generazione, ma il sentiment è sempre di forte contrarietà nelle popolazioni e nelle amministrazioni. Parlare di nucleare e di sicurezza, anche se i tecnici danno chiare indicazioni, rimane una sorta di spettro difficile da far scomparire.

Potremmo dire che l’Italia potrebbe tornare al nucleare quando si realizzerà il ponte di Messina tra Calabria e Sicilia. Anche di quest’ultimo manufatto si torna a parlare, si è rifinanziata la società concessionaria, avviate alcune procedure (per meglio dire riavviate), ma la sensazione che i tempi non siano ancora maturi è ancora palpabile. In mezzo a questi estremi vi sono oltre quarant’anni di rinvii, di ritardi, di dilazioni, e fiumi di denaro pubblico che non è sfociato però in alcun atto concreto, ma che ha tenuto vive organizzazioni e imprese destinatarie dei compiti suddetti che però la politica ha tenuto a bagnomaria, come usavano dire le nonne!

Con il passo del gambero, però, anche a livello parlamentare e legislativo qualche passetto in avanti si è fatto, ma nulla continua a succedere. Alla fine del mese di gennaio scorso è stato confermato dal governo che l’individuazione di un luogo adatto a costruire un unico grande deposito nazionale di scorie nucleari è in ritardo. Il governo guidato da Draghi aveva previsto di scegliere l’area entro la fine del 2023. Neanche a dirlo però, il mutamento politico e di governo ha reimposto la sostanziale sordina, e il completamento degli adempimenti previsti per legge e le soluzioni tecniche non hanno avuto altro che un timido avvio teorico. Le scadenze, dunque, realisticamente non saranno rispettate e troppi sono ancora i passi per vedere un inizio reale della sua individuazione e ovviamente della futuribile realizzazione. Il tema non è secondario perché nonostante l’assenza di centrali nucleari e con le scorie ancora in viaggio spesso tra la Francia, la Germania e il nostro paese, vi sono ancora molte attività, scientifiche e mediche in primis che producono rifiuti radioattivi che in assenza di piani di smaltimento o di stoccaggio concreti vengono custoditi in venti depositi sul territorio nazionale. Rifiuti radioattivi poi vengono anche prodotti in alcuni procedimenti industriali.

Usciti dall’atomo dunque con grande soddisfazione di alcune aree ambientaliste radicali e con la moderata soddisfazione dei cittadini comuni convinti di aver detto no al nucleare, siamo tuttora circondati da scorie e residui dell’atomo! Centri che producono o custodiscono rifiuti radioattivi - secondo le indicazioni che vengono date - sono le ex centrali nucleari (4 centrali e 4 impianti del ciclo del combustibile), i centri di ricerca nucleare e centri di gestione di rifiuti industriali. Le ex centrali nucleari, attive fino alla fine degli anni Ottanta, sono a Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta). Ci sono poi un impianto di “Fabbricazioni Nucleari” a Bosco Marengo (Alessandria) e tre impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). In fase di dismissione c’è anche ISPRA-1 nel complesso del Centro Comune di Ricerca (CCR) della Commissione Europea di Ispra, in provincia di Varese.

Esiste una società statale incaricata di affrontare non solo teoricamente ma in concreto il nodo dello smantellamento delle vecchie centrali, il cosiddetto decommissioning (e sì, le centrali sono ancora tra noi, cattedrali del deserto, mostri di cemento armato ancora pervasi nel loro interno di combustibile nucleare, nonostante una pluridecennale azione per la loro eliminazione, e l’individuazione del deposito nazionale cui conferire tutti questi materiali dei quali abbiamo fatto cenno). Questa società è la Sogin che lo scorso anno è stata commissariata dal precedente governo.

Il vero nodo a quanto si può comprendere non è ovviamente la costruzione di un sito, qui le capacità nazionali saprebbero dare prova di efficienza, di compatibilità ambientale e di corretto immagazzinamento, oltrettutto in una prospettiva economica garantita dallo Stato, ma trovare e definire il sito più adatto allo scopo, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche attuali. Il dibattito e il confronto in merito è ormai pluridecennale e il meccanismo che si attua ogni volta che se ne torna a parlare può essere definito come l’andare da Erode a Pilato, ovvero un batti e ribatti serio, approfondito, ma inconcludente.

L’ultimo atto concreto in direzione di una futura scelta - sulla base degli studi condotti negli anni - è avvenuto due anni fa nel gennaio del 2021, quando è stata pubblicata una mappa delle 67 aree potenzialmente idonee ad ospitare il nuovo deposito. Un fatto epocale si direbbe, mitigato dal fatto che di essa si era a conoscenza già da sei anni prima, ma l’argomento era coperto da segreto! Allora, dunque, abbiamo la mappa che si chiama Cnapi, ovvero sciogliendo l’acronimo: Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico.

Un lavoro meritevole che ha permesso, questa almeno la soddisfazione postuma, di escludere tra centinaia di ipotesi tutte quelle i cui dati morfologici rendevano e rendono inaccettabile in essi la individuazione del sito. I criteri sono stati l’alta densità abitativa, il rischio sismico e idrogeologico basato sulle conoscenze costruite per anni, ma anche la presenza di siti Unesco o aree protette. Oltre a questi elementi due in certo senso più concreti e tecnici: il sito futuro deve essere realizzato oltre i settecento metri di profondità sul livello del mare e in luoghi la cui pendenza orografica non sia superiore al 10%.

Qui nasce il primo di una serie di rebus. Infatti nessuno dei siti potenziali individuati è caratterizzato da tutti questi criteri insieme. Dunque alcuni ci sono altri no! Tra queste 67 alcune vengono considerate più adatte: sono dodici e secondo i dati raccolti dalla Sogin sono in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso, Carmagnola), Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure) e Viterbo (due aree a Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Tutte le altre aree - in Toscana, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna - hanno una valutazione inferiore perché non si riscontrano tutti gli elementi richiesti. Grande come si può immaginare il gradimento popolare per queste indicazioni che sembrano confinare in due regioni Piemonte e Lazio le future attenzioni per arrivare ad una scelta. La mappa, è bene ricordarlo, è frutto di quella che è stata definita consultazione popolare basata sulle indicazioni anche negative e le richieste di centinaia di amministrazioni locali.

Una nuova puntata si è aperta allora. Sulla base dei pareri e delle osservazioni di regioni e comuni individuati nella Carta, è stato realizzato un aggiornamento della mappa, che ha questo punto ha cambiato in parte nome, è viene definita Cnai ovvero Carta nazionale delle aree idonee. Un passo questo da non sottovalutare perché rispetto alla precedente si parla di aree idonee e non “potenzialmente idonee” come sino a ieri. Questa nuova indicazione è stata inviata poco tempo fa, il 15 marzo di quest’anno, al ministero della Transizione ecologica. Ad oggi però, non si conosce ancora perché la pubblicazione, al momento di scrivere, non è avvenuta. Il motivo di tale ritardo sarebbe dovuto ad alcune integrazioni richieste dall’ISIN, l’ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare. L’approvazione dell’Isin, infatti, è necessaria per poter procedere alla pubblicazione.

Ora si apre una nuova fase. Se e quando dall’Isin arriveranno integrazioni e richieste si potrà immaginare di avviare la successiva fase di individuazione o per scelta o per esclusione del sito più adatto tra quelli indicati come ideonei. Arduo immaginare che qualche comune si faccia avanti per avanzare la propria candidatura. Molti hanno anche manifestato contrarietà alla stessa indicazione nella mappa. E nessun risultato è venuto dalla previsione di incentivi e garanzie per le comunità che dovessero imboccare questa strada. La considerazione del governo, ammesso che tutte le fasi successive siano positive e in assenza di ricorsi, è che l’autorizzazione unica del deposito nazionale potrebbe arrivare (un condizionale d’obbligo ovviamente) non prima del 2026 ed entrare in esercizio non prima del 2030.

Sin qui le questioni affrontate sono state soprattutto tecniche e di natura scientifica. Se e quando sarà, il nodo diverrà quello che è sempre stato: politico e di compatibilità con le comunità coinvolte. Intanto i soldi pubblici e gli interventi di sicurezza devono continuare, i fondi devono essere utilizzati e questi ricadono anche sulle nostre “amate” bollette energetiche, già gravate da ogni genere di oneri non ultimo quello dei costi in aumento dovuti alla guerra in Ucraina. È bene anche ricordare che oltre tre miliardi di euro sono stati spesi dal 2001 per il trattamento dei rifiuti fatto dalla Francia e dalla Germania e per la manutenzione dei depositi provvisori attuali. In conclusione e sperando di essere smentiti, ancorché con la tempistica che abbiamo ricordato, rammentiamo il detto dell’araba fenice: che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!