Negli ultimi mesi l’Europa ha scoperto, quasi suo malgrado, di essere vulnerabile a una nuova e silenziosa forma di minaccia. Mi riferisco a tutti quei piccoli droni, impossibili da identificare se non vi si mette le “mani sopra”, che appaiono improvvisamente nei pressi di aeroporti civili o di basi militari, costringendo i controllori a bloccare il traffico aereo, deviare voli e sospendere le operazioni per ore, con danni economici ingenti per le compagnie aeree e per lo stesso scalo. Oggetti che si muovono nel cielo a poche centinaia di metri di quota, apparentemente inoffensivi, ma capaci di mettere in crisi sistemi complessi e costosi come l’aviazione civile o la difesa nazionale.
Il caso più recente e clamoroso si è verificato in Danimarca, dove a partire da settembre una serie di droni non identificati è stata segnalata sopra o in prossimità di almeno quattro aeroporti civili – Aalborg, Billund, Esbjerg e Copenaghen – oltre che nei cieli di basi militari in cui sono schierati i caccia F-16 e F-35 della Royal Danish Air Force. In più occasioni le autorità hanno dovuto sospendere i voli per motivi di sicurezza, bloccando aerei in decollo e impedendo atterraggi programmati. Il traffico aereo di Copenaghen, principale hub scandinavo, è rimasto fermo per quasi quattro ore, lasciando centinaia di passeggeri a terra.
Di fronte a questa serie apparentemente coordinata di episodi, il governo danese ha reagito vietando temporaneamente tutti i voli di droni civili sull’intero territorio nazionale. Il divieto, entrato in vigore nei giorni precedenti al vertice dell’Unione Europea del 1°ottobre, è stato motivato ufficialmente da ragioni di sicurezza. Tuttavia, dietro le parole prudenti delle autorità si avverte un’inquietudine crescente. Secondo fonti del Ministero della Difesa, le incursioni appaiono “sistematiche e pianificate da un attore capace”, forse con l’obiettivo di “seminare preoccupazione nella popolazione, disturbare le operazioni di difesa nazionale”. Il sospetto immediato, e in parte inevitabile, è che si tratti di una forma di guerra ibrida, una di quelle operazioni opache che combinano propaganda, disinformazione e piccoli atti di sabotaggio per testare le difese di un Paese e misurarne la reazione.
Alcuni analisti collegano gli episodi danesi a un aumento di attività sospette attribuite alla Russia nel Nord Europa, lungo il Baltico e nel Mare del Nord. Mosca, com’è prevedibile, ha respinto con decisione ogni accusa, parlando di “fantasie occidentali”. Ma il dubbio rimane, soprattutto perché è ancora impossibile capire la provenienza e l’identità di questi piccoli aeromobili. Infatti, nessuna prova concreta è emersa. Non è chiaro se i droni avvistati siano parte di un piano coordinato, di un’operazione di spionaggio o di un gesto isolato compiuto da mitomani o curiosi dotati di apparecchiature sofisticate. In Danimarca, come in altri Paesi europei, la distinzione tra un’azione ostile e un atto sconsiderato è spesso sottile: un drone commerciale di fascia alta può coprire distanze considerevoli, trasportare piccoli carichi, montare telecamere a lungo raggio e sfuggire ai radar tradizionali. Basta un singolo operatore esperto, mosso da motivazioni ideologiche o da semplice mania di protagonismo, per creare il caos.
Non è la prima volta che accade. Nel Regno Unito, alla fine del 2023, l’aeroporto di Gatwick, a sud di Londra, fu paralizzato per oltre trentasei ore dopo l’avvistamento di un drone vicino alla pista principale. Centinaia di voli cancellati, migliaia di passeggeri bloccati, un danno economico stimato in decine di milioni di sterline. Nonostante l’enorme spiegamento di forze – polizia, esercito e perfino elicotteri militari – il drone non fu mai ritrovato, né venne individuato l’autore dell’incidente. Episodi simili, di minore entità, si sono verificati anche a Heathrow, Francoforte, Amburgo, Varsavia, Praga, Stoccolma, Helsinki e Oslo. In alcuni casi gli avvistamenti sono stati confermati da piloti in fase di atterraggio o decollo, in altri dalle torri di controllo. In tutti, le conseguenze operative sono state le stesse: chiusura immediata dello spazio aereo, allarme generale e ore di paralisi.
Questi episodi hanno un denominatore comune: nessuno sa con certezza chi ci sia dietro. L’ipotesi più semplice – quella di un gesto irresponsabile compiuto da un civile con un drone amatoriale – si scontra con la frequenza, la simultaneità e la localizzazione degli eventi, spesso in aree ad alta sorveglianza e difficilmente accessibili. Allo stesso tempo, la pista di un coordinamento militare straniero resta priva di riscontri verificabili. In assenza di prove, il confine tra il sabotaggio e la mitomania resta labile, e proprio per questo ancora più insidioso. La verità è che i droni, per loro natura, sfidano la logica della sicurezza tradizionale. Sono piccoli, economici, silenziosi e difficili da tracciare. Possono essere pilotati da chilometri di distanza e, se perdono il segnale, cadono senza lasciare tracce significative. I radar civili, progettati per individuare velivoli di grandi dimensioni, spesso non li rilevano affatto. E anche quando vengono avvistati, intervenire è tutt’altro che semplice: abbattere un drone, compito difficilissimo per le loro piccole dimensioni, se fatto sopra una zona abitata o su un aeroporto può causare danni peggiori del problema che si vuole risolvere.
La domanda è semplice, ma la risposta tutt’altro che banale: come si può neutralizzare un drone senza creare nuovi pericoli? Alcuni Paesi stanno correndo ai ripari sperimentando sistemi di interferenza elettronica (jamming) che interrompono il collegamento radio tra il velivolo e il suo operatore. È una soluzione efficace, ma non priva di rischi: se il segnale viene perso, il drone potrebbe precipitare su case, strade o infrastrutture, con conseguenze anche gravi. Inoltre, le interferenze non sono selettive e possono compromettere le comunicazioni di aerei civili o dei servizi di emergenza. Altri esperimenti si concentrano su armi a energia diretta, come i laser ad alta potenza. Il Regno Unito ha sviluppato un sistema chiamato DragonFire, in grado di distruggere un drone da oltre tre chilometri di distanza, fondendo letteralmente le sue parti elettroniche in pochi secondi. Anche l’esercito francese e quello tedesco stanno testando tecnologie simili, così come la Polonia, che ha annunciato un piano per dotare gli aeroporti di sistemi anti-drone basati su sensori ottici e radar di precisione.
Ma questi strumenti, ancora costosi e complessi, restano confinati per ora solo all’ambito militare. Superando le iniziative dei singoli governi, anche l’Unione Europea sta valutando la creazione di un “muro di droni” (drone wall): un sistema integrato di sorveglianza lungo i confini orientali per monitorare e intercettare velivoli sospetti provenienti dall’esterno dell’area Schengen. L’iniziativa, promossa da Paesi baltici e scandinavi e sostenuta da Bruxelles, incontra però ostacoli politici e tecnici: chi gestirà i dati, chi deciderà quando intervenire e, soprattutto, chi ne sosterrà i costi? Per questo motivo, nonostante sia stata ampiamente “sbandierata”, l’idea di una difesa comune europea a bassa quota resta per ora solo sulla carta.
Nel Nord Europa, dove la tensione con la Russia è più percepita, si è registrato un aumento di episodi anche vicino a impianti energetici e piattaforme offshore. Dopo il sabotaggio del gasdotto Nord Stream nel 2022, che sappiamo essere stato fatto da agenti ucraini, i Paesi scandinavi hanno rafforzato la sorveglianza marittima e aerea, ma i droni rappresentano una sfida del tutto diversa: piccoli, silenziosi, capaci di sfuggire alle reti radar. In Svezia e Finlandia, droni non identificati sono stati avvistati anche sopra centrali elettriche, depositi di carburante e installazioni portuali. A volte si trattava di droni civili in violazione di zone vietate al volo, altre volte di velivoli più complessi, in grado di volare per ore e trasmettere video in tempo reale.
Anche la Germania ha segnalato numerosi episodi sospetti attorno alle sue basi militari. Nel 2024, droni non identificati sono stati avvistati nei pressi della Ramstein Air Base, la più grande base aerea americana in Europa. Le autorità hanno confermato che gli oggetti variavano per dimensioni e configurazione, e che non si trattava di semplici droni da hobby. Anche un’altra località sensibile — la Büchel Air Base, sede di ordigni nucleari statunitensi nell’ambito del comando condiviso NATO — è stata oggetto dell’avvistamento di un drone nelle vicinanze. Tuttavia, non sono stati diffusi ulteriori dettagli né confermata la cattura del velivolo. Le autorità tedesche non hanno mai annunciato un collegamento diretto tra i diversi episodi, né ipotizzato fossero russi, ma la coincidenza temporale e la natura dei siti coinvolti hanno destato forte preoccupazione anche da parte degli statunitensi.
Finora l’Italia è rimasta in gran parte ai margini del fenomeno, ma non del tutto immune. Alcuni episodi isolati si sono verificati nei pressi degli aeroporti di Malpensa, Ciampino e Capodichino, con l’avvistamento di piccoli droni amatoriali che hanno costretto la torre di controllo a sospendere temporaneamente il traffico. In un caso, un drone era stato segnalato a meno di 300 metri dalla pista principale. Episodi minori, certo, ma sufficienti a ricordare quanto il sistema aeroportuale sia vulnerabile. Più sensibili ancora sono le aree militari e industriali: le basi di Amendola e Sigonella, i porti di Taranto e La Spezia, le centrali elettriche e i terminal del gas naturale. Ognuno di questi siti potrebbe diventare bersaglio o banco di prova di un’operazione di disturbo. Per cercare di arginare questo fenomeno, l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC) ha introdotto nuove regole per i droni civili che impongono registrazione, tracciabilità e limiti di altezza. Tuttavia, la neutralizzazione attiva — ossia la possibilità di abbattere o bloccare un drone in volo — resta solo parzialmente disciplinata.
Sul piano politico, cresce la consapevolezza che la minaccia non è episodica ma strutturale. Il drone, nella sua semplicità, rappresenta un’arma perfetta per chi vuole colpire senza farsi riconoscere. È economico, anonimo, facilmente reperibile e difficile da intercettare. Non a caso, negli ultimi conflitti – dall’Ucraina al Medio Oriente – è diventato uno strumento d’uso quotidiano per attacchi, ricognizioni e propaganda. Le guerre moderne hanno dimostrato che un piccolo UAV può avere un impatto strategico, distruggendo radar, danneggiando mezzi blindati o terrorizzando popolazioni civili. In Europa occidentale, però, il suo impiego come arma di disturbo o di intimidazione è talmente nuovo, che ha colto impreparati i sistemi di sicurezza. Di fronte a questa realtà, gli esperti invocano un nuovo paradigma di difesa aerea, capace di integrare radar a corto raggio, sensori ottici, intelligenza artificiale e cooperazione tra autorità civili e militari. Alcune città stanno sperimentando reti di sensori distribuiti, capaci di rilevare e identificare automaticamente i droni, distinguendo quelli potenzialmente ostili da velivoli autorizzati.
Tuttavia, la sfida principale non è tanto tecnologica quanto politica: chi ha l’autorità di decidere se un drone rappresenta una minaccia? E quali conseguenze legali deriverebbero dall’eventuale intervento? Nel frattempo, il confine tra allarme reale e paranoia si fa sempre più sottile. In più di un’occasione, infatti, presunti “droni nemici” si sono rivelati uccelli o palloni meteorologici. In altri casi, invece, si è scoperto che dietro un avvistamento c’erano semplici appassionati di aeromodellismo. Tuttavia, l’enfasi data a questi avvistamenti dai media, anche se si tratta di “giocattoli evoluti” può creare paure infondate. Gli esperti di sicurezza danesi ammettono che è impossibile distinguere a priori un drone pilotato da un curioso da uno utilizzato per spiare una base militare. E questa incertezza è forse l’elemento più destabilizzante.
Non sorprende quindi, che molti governi stiano valutando leggi d’emergenza per autorizzare le forze dell’ordine a intervenire rapidamente contro qualsiasi drone sospetto, anche in assenza di prove di ostilità. Ma il rischio è quello di creare un clima di tensione permanente, in cui ogni piccolo oggetto nel cielo diventa una minaccia potenziale. Alcuni giuristi hanno messo in guardia contro la possibilità di abusi o incidenti: in un contesto urbano, abbattere un drone significa accettare la possibilità di danni collaterali.
Il fenomeno dei droni nei cieli europei, dunque, non è soltanto un problema tecnico o militare, ma anche una questione culturale e psicologica. L’idea che qualcuno possa sorvolare impunemente aeroporti, basi o centrali senza essere identificato mina la fiducia nella capacità dello Stato di proteggere il proprio spazio aereo. È un colpo simbolico alla percezione di sicurezza, anche se nessun danno materiale viene causato. Proprio per questo, c’è chi ritiene che dietro queste incursioni non ci sia necessariamente un piano di spionaggio, ma una strategia del panico: dimostrare che l’Europa non è in grado di difendersi nemmeno da un giocattolo da mille euro.
Forse, come in molti casi del nostro tempo, la verità sta nel mezzo. Alcune incursioni potrebbero essere effettivamente operazioni di intelligence, volte a testare la reazione dei Paesi europei o a raccogliere dati. Altre, invece, potrebbero essere frutto di iniziative individuali, di chi cerca attenzione o sfida i limiti della legge. Ma finché non si saprà con certezza chi c’è dietro, l’effetto sarà comunque lo stesso: la sensazione di vulnerabilità. Per questo motivo l’Europa si trova di fronte a un bivio. Può continuare a reagire caso per caso, chiudendo aeroporti ogni volta che un drone entra in zona proibita, oppure può dotarsi di una strategia comune che unisca tecnologia, leggi e cooperazione internazionale. Finché ciò non accadrà, ogni nuovo avvistamento – reale o immaginario – sarà sufficiente a fermare un aeroporto, a mobilitare eserciti, a riempire i titoli dei giornali. E nel frattempo, da qualche parte nel cielo, un piccolo drone continuerà a volare, silenzioso e invisibile, sopra un’Europa che ancora cerca di capire se sta affrontando un nemico invisibile o solo le proprie paure.















