I rapporti con gli altri non hanno che una durata; quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il servigio, compiuta l'opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.

(Marguerite Yourcenar)

L’unica relazione stabile, seppur soggetta al cambiamento come ogni cosa, è con noi stessi.

Le relazioni con gli altri non sono immutabili, eterne, ma limitate nel tempo così come la durata della vita, sono però funzionali alla scoperta di se stessi per il messaggio evolutivo che ogni rapporto nasconde e che deve o dovrebbe essere decifrato e consapevolizzato. Lo scambio continuo con gli altri contribuisce alla trasformazione interiore, ogni consapevolezza acquisita viene inanellata come innumerevoli perle di una collana.

L'etimologia della parola ‘relazione’ è da ricollegarsi al latino relatio, a sua volta da relatus, participio passato di referre = riferire, riportare, stabilire un legame, un rapporto, un collegamento.

La relazione quindi è un legame tra due o più persone ognuna delle quali attribuisce ad essa un significato particolare che muta ed evolve nel corso del tempo.

Come ho scritto nell’articolo L’ombra nella relazione io e mia madre, la prima relazione con il mondo è quella con la madre, dalla radice sanscrita matr che significa l'ordinatrice, colei che ordina il caos, ed il suo volto è il primo specchio attraverso cui vediamo noi stessi. Questo rapporto privilegiato condiziona la nostra immagine corporea, la relazione con il cibo, le dipendenze affettive, la visione del mondo e di noi stessi e anche le relazioni.

Il rispecchiamento è fondamentale nella formazione dell’identità ed è la base per creare sane relazioni. Quando ci guardiamo allo specchio vediamo non solo riflessa la nostra immagine ma anche i sentimenti, i pensieri, il modo in cui ci percepiamo.

Se la madre rispecchia empaticamente ciò che percepisce dal bambino, questi a sua volta svilupperà l’empatia, termine derivato dal greco ἐν, "in", e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, "soffro".

Essere empatici significa quindi ‘sentire’ e riconoscere i sentimenti e le emozioni degli altri come se fossero vissuti da noi. E l’empatia è una competenza fondamentale dell’intelligenza emotiva basata sulla consapevolezza e accettazione di tutte le emozioni, anche quelle che percepiamo sgradevoli. Questo ci consente di costruire relazioni gratificanti. Per riconoscere le emozioni negli altri, invece, è necessario saper dare un nome alle proprie: infatti l’analfabetismo emotivo detto alexitimia (dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione») consiste proprio nella mancanza di parole da attribuire alle emozioni e indica l’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri o gli altrui stati emotivi.

Qui viene in aiuto il modello sviluppato nel 1980 dallo psicologo statunitense Robert Plutchik, chiamato ‘ruota delle emozioni’, e composto da quattro coppie di emozioni primarie che, mescolandosi tra loro, possono produrre un'infinita varietà di esperienze emozionali, con variazioni di colore ad indicarne l’intensità.

Riflettiamo sul concetto di Io e di Sé metaforicamente visto come un iceberg: l’Io è ciò che emerge dalla superficie, mentre il Sé è tutto ciò che è sommerso, rappresenta, inoltre, il nucleo della personalità di cui l’Io è solo un riflesso, ma con il quale ci identifichiamo. Secondo l’orientamento psicoanalitico di Heinz Kohut, il Sé descrive la totalità psichica dell’individuo che si sviluppa e si consolida in funzione dell'Io ed emerge tramite il riconoscimento empatico dell'altro, cioè con il ‘diverso da sé’. Il Sé è quindi non conoscibile in tutta la sua essenza così come lo è la realtà.

Credo che la maggior parte degli uomini abbia provato almeno una volta la sensazione di essere ‘gettati nel mondo’, come teorizzò il filosofo tedesco Martin Heidegger: il suo concetto del Dasein raffigura l’esserci, la presenza, l’esperienza umana dell'essere. L’uomo è cosciente di doversi confrontare con l’essere innanzitutto un individuo, poi con l’essere mortale ed infine con il paradossale dilemma di vivere con altri esseri umani ma di esistere fondamentalmente solo per se stesso.

L'Esserci è quell'ente nel quale il suo essere percepisce questo stesso Essere come una questione.

(Heidegger)

La questione, secondo Heidegger, consiste nel fatto che l'esserci, progettando il mondo, lo fa venire all'essere in quanto coscienza trascendentale ma si trova ad essere a sua volta "progettato": egli stesso è progetto gettato, nasce e muore senza averlo deciso, allora ricerca il significato della sua limitata esistenza.

Il Dasein quindi contiene l’antinomia tra libertà in quanto trascendenza ovvero ciò che esiste al di là della realtà percepita dall'uomo, e immanenza ovvero ciò che esiste, in quanto parte della realtà abitata dall'uomo. Quel che risiede nell'essere ha in sé il proprio principio e fine e, facendo parte dell'essenza di un soggetto, non può avere un'esistenza separata da questo.

Penso che Franco Battiato nella sua canzone Vecchio cameriere si sia riferito al Dasein nella frase ‘Qualcuno ci lancia nella vita’.

Ma torniamo all'esortazione «conosci te stesso», in greco antico γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón, la massima iscritta nel tempio di Apollo a Delfi. Con questa sentenza il dio Apollo intima agli uomini di «riconoscere la propria limitatezza e finitezza», o ancora «conosci chi sei e non presumere di essere di più», un’esortazione a non cadere negli eccessi e a non offendere la divinità pretendendo di essere come il dio. Nella tradizione antica l’ideale del saggio, colui che possiede la sophrosyne ((in greco antico: σωφροσύνη), la saggezza, è infatti la moderazione.

La locuzione latina corrispondente è nosce te ipsum o temet nosce.

Chi ha visto la trilogia cinematografica di Matrix ricorda che la porta dell'Oracolo ha una targa in legno con la scritta «temet nosce», un monito per gli eletti che, desiderando comprendere se stessi, avanzano verso livelli superiori di autocoscienza. L’Oracolo si esprime in modo sibillino poiché è l’uomo che deve empiricamente scoprire la verità celata. Neo inizialmente rifiuta di essere considerato un eletto, non accetta ciò che Morpheus sa per certo, lo scopre strada facendo, nelle relazioni con Trinity e con gli altri personaggi, finché il suo potere esplode nella consapevolezza della sua missione di luce.

Vi è un parallelismo tra Matrix, una neuro-simulazione interattiva, e il mito della caverna di Platone. Neo è colui che esce dalla realtà illusoria dei sensi e vede la vera realtà e vuole che tutti gli uomini la vedano, ma molti hanno paura e non hanno il coraggio di accettarla, preferiscono rimanere nelle false sicurezze, nell’ignoranza piuttosto che stravolgere la propria vita. Neo incarna l’uomo in preda al dubbio cartesiano, dubita di tutto, dei sensi ingannevoli, dell’esistenza del mondo esterno, della distinzione tra sogno e realtà.

Gli uomini ignorano, deformano e rinnegano se stessi, come Medusa impietrano tutto ciò che li circonda, ogni azione e ogni parola è un ulteriore sbarra alla loro prigione interiore, fanno del corpo il loro recinto e timidamente si pongono ai margini del mondo, senza potenza né speranza. Questo autoboicottaggio può terminare quando, sfiniti dagli affanni della vita e dal non senso delle loro limitate esistenze, si pongono la domanda delle domande: ‘Che sono, Io?’. Allora iniziano a percorrere la Via della conoscenza e per trovare la risposta devono innanzitutto sgretolare l’immagine che hanno di se stessi, per poter immaginare l’Io come il sentirsi senza limiti di spazio, di età, di potenza.

Quanti e innumerevoli IO popolano questo pianeta, obesi di schemi, di ruoli, di etichette, di credenze, di ‘io sono questo o quello’, tutti limiti alla potenza ingabbiata come un leone in cattività che ha dimenticato la sua natura selvaggia. Eppure ogni tanto accade il miracolo in cui il leone si ‘risveglia’ e rompe la gabbia, ri-torna a se stesso.

Tra me e l’altro c’è uno spazio dove agiscono potenti forze, l’altro è colui che identifichiamo come separato per il desiderio inconscio di affermare la nostra identità, negando spesso l’identità dell’altro.

La relazione con l’altro è il riflesso della relazione con noi stessi e se l’immagine che vedo come in uno specchio è intollerabile allora mi sbarazzo dell’altro, nell’illusione che quella sgradevole immagine sparisca, ma non accade.

I volti degli altri sono parti del nostro volto, se riusciamo ad accettare ed integrare tutti questi aspetti di noi stessi che gli altri ci rimandano, allora possiamo davvero incontrare la nostra e l’altrui potenza, potenza in via di realizzazione.