Se volete sapere cos’è casa è negli occhi di un randagio che dovete guardare. Uomo o animale poco importa. La casa abita colui che non ce l’ha.

Nel 1962 ad uno dei film più iconici di Hollywood, Breakfast at Tiffany’s, vengono conferiti ben due premi Oscar. Il riconoscimento non va però, come ci si aspetterebbe, alla metafisica e inarrivabile Audrey Hepburn come migliore attrice protagonista né alla sceneggiatura o alla scenografia del film. A portare a casa le due statuette sono l’indimenticabile colonna sonora composta da Henry Mancini insieme alla canzone Moonriver, scritta da Johnny Mercer e intonata dalla stessa Hepburn in una delle scene cult del film.

Non è un caso che a decretare il successo assoluto del film diretto da Blake Edwards sia stata proprio la sua musica. Colazione da Tiffany è tratto infatti dal romanzo di un giovane e virtuoso Truman Capote che ambienta la storia di Holly Golightly e del suo vicino di casa Paul Varjak nella suggestiva New York degli anni Quaranta. Leggendo il racconto di Capote si comprende quanto testo e musica di Moonriver siano in fondo debitori della personalità sfuggente ma oltremodo definita della giovane protagonista e del lirismo raffinato, consapevole e a tratti dolente del suo straordinario creatore.

Moglie bambina, scappata dalle campagne del Texas per inseguire il sogno proibito del riscatto, Holly Golightly è l’archetipo perfetto dell’amazzone colta in una delle sue possibili declinazioni: darsi a molti uomini per non darsi a nessuno.

Il carattere di Holly si è formato troppo presto, tra abbandoni e abusi. Ecco perché non può cambiare, spiega Capote. Ed è la stessa giovane donna a fare il punto su se stessa, sulla propria condizione di passante “selvatica” sulla strada della vita. La stessa donna che perde tutte le chiavi e disturba puntualmente i vicini per farsi aprire, quella che non possiede mobili ma solo scatoli da imballaggio e che sulla targhetta del citofono del palazzo di arenaria in una delle strade di Manhattan ha messo accanto al proprio nome una strana dicitura: in viaggio.

L’amazzone Holly, come molte donne del suo stesso archetipo, possiede un gatto che, a parte il fratello che le morirà in guerra, è la creatura a cui è più affezionata. Eppure, proprio perché nel gatto lei vede se stessa, un essere libero, indipendente, che non appartiene a niente e a nessuno, Holly non vuole dargli un nome. Non ne ha il diritto, dice. Tanto nel romanzo di Capote che nel film di Edwards il fedele compagno felino è chiamato infatti semplicemente Gatto.

Difficile capire le amazzoni. Molto più semplice giudicarle. Ma Holly Golightly interpreta con così tanta delicatezza la fenomenologia dell’essere selvatico che risulta impossibile per il lettore o lo spettatore non allinearsi con l’anima della giovane che gli antichi filosofi avrebbero probabilmente definito la fuggitiva. Ed è proprio a questo punto che bisogna smontare un equivoco frequente. L’amazzone fugge, è vero. Ma fugge da qualcosa e soprattutto verso qualcosa. L’amazzone cerca la sua casa.

Come spiega la Holly di Capote: «Io non voglio essere padrona di niente finché non saprò di averlo trovato, il posto dove io e le cose siamo legate tra noi. Non so ancora bene dove sia questo posto. Ma so com’è […] È come da Tiffany […] Se nella vita reale riuscissi a trovare un posto che mi fa sentire come da Tiffany, comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto».

Con buona pace dei benpensanti di ogni tempo, la giovane Holly dal comportamento discutibile e socialmente inaccettabile sosta di fronte a Tiffany, la lussuosa gioielleria di Manhattan, con lo stesso atteggiamento di chi sta dentro a una chiesa. Quando è assalita da quello strano sentimento che la atterrisce e le fa sentire il suo isolamento, le cosiddette paturnie, solo la rassicurante e luminosa atmosfera di Tiffany è infatti in grado di placarla. I gioielli c’entrano poco. Ciascuno prega a suo modo.

Ma se a questo punto gli spettatori avranno tirato un sospiro di sollievo, pensando all’epilogo lieto che comunque attende la protagonista alla fine del film, non così i lettori di Capote. Nel film di Edwards, infatti, Holly cederà infine all’amore per Paul Varjak, che lei chiama affettuosamente Fred come suo fratello, e l’ultima scena vedrà i due innamorati ricongiungersi sotto una pioggia battente con il Gatto che Holly aveva poco prima abbandonato per iniziarlo definitivamente alla vita randagia, decisa a salire su un aereo per portare a compimento la sua ennesima fuga.

Nel racconto di Capote, invece, l’autore costruisce un epilogo che è in piena coerenza con la natura dell’amazzone. Holly, infatti, prenderà il famoso aereo su cui manca di salire nel finale di Hollywood e partirà per il Brasile. Nel frattempo, avrà lasciato Paul sotto lo stesso temporale che imperversa nella pellicola, ma solo dopo essersi fatta promettere da lui che avrebbe ritrovato il Gatto. Se allora vogliamo ritrovare il finale di Capote all’interno del film, dobbiamo ascoltare la musica di Mancini e provare a comprendere il testo della canzone cantata da Holly che così bene riassume il senso del suo personaggio:

Fiume della luna/più largo di un miglio/un giorno ti attraverserò come si deve/Vecchio creatore di sogni/tu che spezzi i cuori/dovunque tu stia andando ci sto andando anch’io/Due errabondi alla deriva per vedere il mondo/c’è così tanto mondo da vedere/Noi siamo alla fine dello stesso arcobaleno/mentre aspettiamo dietro la curva/io e il mio amico Huckleberry/il fiume della luna ed io.

Paul Varjak, nella narrazione di Capote, riuscirà infine a ritrovare il Gatto. Lo vedrà un giorno appollaiato dietro una finestra nel quartiere dove Holly lo aveva lasciato, sicuro ormai di aver messo fine alla vita randagia e finalmente in possesso di un nome. Non così la sua padrona che fa perdere le sue tracce, tranne per l’unica cartolina che manda a Paul per annunciargli che gli avrebbe inviato il suo indirizzo una volta trovato il posto in cui stabilirsi.

L’indirizzo, però, non arrivò mai. Se si ama una creatura selvatica, aveva spiegato Holly, è certo che lei, forte di questo amore, un giorno scapperà nei boschi oppure volerà sopra un albero e poi sopra un albero ancora più alto, fino a raggiungere il cielo, quell’arcano e indefinibile posto che deve essere molto accogliente, molto simile a Tiffany.

Possiamo allora immaginare la protagonista di Moonriver che, certa di non essere la sola creatura selvatica al mondo, attende che la propria strada confluisca in quella di un’altra creatura simile a lei. Illusione? No, Fede. Quella che non permette ai viandanti di vedere, ma permette di sapere cosa c’è dietro la curva. Alla fine dell’arcobaleno, lì dove - è certo - ci attendono i randagi.