Si comincia da una teiera. La teiera di Maria Cassi, attrice, regista e autrice, poggiata su un tavolino del Teatro del Sale di Firenze. Anche perché, diciamolo chiaramente: l’esistenza sulla Terra è più complicata da quando gli inglesi preferiscono il caffè. Carlo III e Camilla, a proposito di Regno unito, si sbellicarono dalle risate (al tempo “solo” principescamente) assistendo a un’esibizione di Maria Cassi. «Sì, la teiera è un particolare forte - spiega l’artista fiorentina, anzi fiesolana - perché fra i miliardi di interessi che io e Fabio condividevamo c’era il tè: una nostra passione. E lo è ancora per me».

Fabio Picchi se n’è andato nel febbraio del 2022 ed è naturale domandare alla donna che è stata sua moglie per decenni e che riesce difficile chiamare vedova, se non come fa ella stessa con umorismo doloroso, che succede nel suo cuore e sul palcoscenico del Teatro del Sale, fondato dai due nel 2003. Fabio Picchi, chef, iniziatore del Cibrèo di Firenze, star della tv, scrittore, infatti è stato, soprattutto, un inventore di universi.

Maria, ecco che arriva la preziosa Gordana, con la teiera. Come stai?

Contenta tu me lo chieda. Io sono grata al mestiere che faccio, così come sono grata a Fabio perché ha voluto intensamente questo luogo. Il Teatro del Sale ci è appartenuto, mi continua ad appartenere e continua ad appartenere anche a lui perché, ovviamente, il suo spirito è qua. Sono riuscita a lavorare dopo la perdita di Fabio, e avevo lavorato nei giorni prima che lui morisse, perché l’energia del lavoro artistico non si consuma mai, è una fiamma perenne. Non puoi pensare: «Eh, ma se sto male…».

Il lavoro artistico sei tu?

Sei tu. Animata da quel fuoco che non si spenge mai, qualunque dramma ti capiti. Ero andata in scena anche quando erano morti il mio babbo e la mia mamma. Un anno fa mi è capitata una delle cose più tragiche: la perdita di un compagno, di un marito.

Dell’amore.

L’amore della mia vita.

Questo è un vero teatro, ma con cucina. Come nacque?

Fabio voleva creare qualcosa che non fosse strettamente un ristorante: voleva abbinarci il lato artistico, visto il nostro rapporto. Io ero spaventatissima dalla stanzialità perché la mia professione prevede l’andare e il tornare, quindi è molto zingaresca. È uno degli aspetti affascinanti del mestiere, se ti piace viaggiare, se ti piace dormire in qualsiasi posto. Però avevo una totale fiducia in Fabio che ha, che ha avuto, una visione talmente larga.

La sua caratteristica numero uno.

Esatto. Fabio vedeva già, io no. Di conseguenza mi affidai a lui, sedotta, spaventata eppure molto convinta del suo estro, della sua capacità: sapevo che stava creando qualcosa di veramente unico, lo sapevo che questo teatro sarebbe diventato quello che è diventato. E ho dato davvero tanto per vent’anni, non tralasciando il resto perché sono riuscita a mantenere le tournée in Italia e all’estero.

Adesso?

Adesso quello che tengo a dire è che quando sono in scena, pur essendo una laica, una laica credente perché credo in tante cose, sento che quello che faccio qui è una preghiera. Ho sempre sentito una sorta di rito, indubbiamente. Ora di più perché provo una sensazione di gioia e di unione con Fabio, è materica e spirituale insieme. Una liberazione: durante gli spettacoli non ho mai avuto un secondo di tristezza.

Mi può arrivare una nuance di nostalgia, ma mai la tristezza. È potente e so che Fabio sarebbe stato grato perché mai avrebbe voluto pensarmi triste, sembra banale dirlo, ma è così. Mi ha ringraziato fino agli ultimi istanti: «Che meraviglia che tu non sia una moglie che mi dice: o, poerina (in fiorentino doc n.d.r.), che farò». Ci siamo commossi, abbiamo pianto, ci siamo detti delle parole profondissime, ma sempre legati alla bellezza e alla forza della vita.

Era il tuo fan più acceso, vero?

Lo è stato. Ha compreso quello che facevo, lo ha amato moltissimo. Il mio ego si svolge solo sul palco, poi ho bisogno di appartarmi. Fabio, viceversa, era uno protagonista dalla mattina alla sera. Di conseguenza, a un certo punto, gli ho dato appoggio affinché potesse essere lui sempre alla ribalta, senza nessun tipo di gelosia. Anzi era un piacere che si pigliasse il primo piano.

Si occupava lui di apparire quando tu non lo desideravi.

È esatto. Con la sua personalità, con il suo carattere terribile, del quale era consapevole, che nascondeva un cuore immenso. Immenso e immenso. La sua etica, la sua verità. Fabio era realmente come sembrava. Presente, generoso. Le persone gli appartenevano, non per possessività: aveva paura di non essere sempre all’altezza del proteggere tutti e tutto in qualsiasi momento. Qualcuno diceva che era ingombrante. Ma Fabio non ha mai chiesto nulla, se non un riconoscimento per quello che faceva. Se mi posso permettere, siamo stati un po’ mecenati di Firenze, con il Teatro del Sale. Come dice Giulio (uno dei quattro figli Picchi, assai voluti bene dalla Cassi n.d.r.), con il quale collaboriamo e siamo complici, il padre era un marziano. Forse ha ragione.

Fino ai barattoli di marmellata sistemati in un certo modo sullo scaffale.

Se ne parlava. Nottate sui dettagli. Infatti io ora “sbarullo” se vedo imprecisioni perché so che cosa avrebbe detto lui. Anche quando mangio fuori.

Che cosa è cambiato nei tuoi spettacoli?

Mi viene in mente un episodio buffo sul primo che ho fatto un mese e mezzo dopo che Fabio non c’era più, al Funaro di Pistoia. In That’s life c’è quella parte su Fabio che russava e il gatto commentava: che è morto? Mi sono interrogata sul da farsi. Poi l’ho lasciata, sfumando, ma l’ho lasciata: l’avrebbe divertito.

Il lavoro mio non cambia, ma mi manca moltissimo il fatto di non sapere che ne pensa Fabio. Era molto tranchant, a volte si litigava, ma aveva l’occhio. Mi ha fatto effetto portare in scena spettacoli che non ha visto: da trent’anni Fabio aveva visto tutto. E anche prima mi conosceva, quand’ero con la compagnia Aringa e Verdurini. Per me è abbastanza impensabile: stavamo veramente tanto vicini.

Come vi siete conosciuti?

Fummo invitati alla Rai, Leonardo e io, il duo Aringa e Verdurini appunto. Non mi ricordo come si chiamava all’epoca la trasmissione con la Raffaella Carrà e Johnny Dorelli. Venne fuori che era una gara e non ci interessava l’idea di gareggiare.

Roberto Incerti scrisse su Repubblica: “Aringa e Verdurini rifiutano la Rai”. Allora ci fu la separazione in due fazioni degli amici e dei conoscenti che ci telefonavamo: «Bravi, avete fatto bene». Oppure: «Che siete scemi? Grulli, completamente». Fabio fu tra quelli che ci fecero i complimenti. Da lì.

Con Leonardo Brizzi hai ricominciato a recitare da poco?

Durante la pandemia, grazie anche a sua moglie Elena Bargagli, presidente del centro anti-violenza Artemisia, che mi chiese una testimonianza. Con Leo non ci siamo mai lasciati per quanto riguarda l’amicizia, però artisticamente ci eravamo riuniti l’ultima volta nel 2006, per i vent’anni del nostro duo.

Nel 2019, su invito di Domitilla Baldeschi, avevo scritto e interpretato un testo sul Carnevale degli animali di Saint-Saëns per l’inaugurazione della stagione concertistica degli Amici della Musica di Firenze alla Pergola, con le fantastiche sorelle pianiste Katia e Mariella Labèque. Ho proposto a Leo di riprenderlo. Facemmo una serata con un po’ di amici per sapere se funzionava. Abbiamo coinvolto il contrabbassista Nino Pellegrini, con noi già nel Pinocchio cha cha cha cha, diretto da Angelo Savelli al Teatro di Rifredi, nel 1994-95.

Il pubblico?

Il pubblico per me è fondamentale: è il mio regista. Sono legata all’afflato al pubblico, fa proprio parte della mia ricerca e lo dico alla fine degli spettacoli.

Dopo la pandemia c’è una voglia pazzesca di teatro: nella tournée che abbiamo fatto finora con Leo le sale sono state sempre pienissime. Anche prima della pandemia non mi potevo certo lamentare, ma ora sento proprio la gratitudine.

È una forma di affetto e di tenerezza che aspetto e cerco tutte le sere. Ci scherzo anche sopra: non sono stata amata da bambina… Subito dopo la perdita di Fabio ho sentito un applauso-abbraccio che mi ha salvato. Potente! E la fortuna di continuare a far ridere. C’è davvero una sospensione dalla vita: con il pubblico siamo sospesi insieme. Esco più leggera. La grossa perdita che ho subito, e che subisco, è una convivenza con un’assenza. Il pensiero è costante e prosegue nel sogno. Non posso immaginare, di fronte a una perdita così grande, una donna senza autonomia professionale, affettiva, finanziaria. Disastro.

Catastrofe esistenziale inaffrontabile.

Pericolosa. Invece...

…tu sei Maria.

Sì, forse è così.

Soffri moltissimo, ma l’intimo essere è custodito.

Non si è sbriciolato. E mi dicono che si è visto immediatamente.

Fai ridere. Ti misureresti con un altro tipo di teatro?

Drammatico? Certo. Un attore comico ha dentro tutte le corde. L’umorismo, secondo papa Francesco, è l’espressione che più avvicina al divino. È l’unico modo di rispondere alla vita, sennò come si farebbe? Prenderti in giro, prendere in giro la vita, ma con serietà. Sì, un ruolo drammatico mi piacerebbe.

Quale?

Chi lo sa? Ai classici non so pensare. Magari una drammaturgia mia. Volevo scrivere una pièce su una suora. L’amore puro, il rapimento, lo stare lontano dal mondo.

Per caso ti ha impressionato l’estasi di Santa Teresa del Bernini?

(Ride n.d.r.) Bellissima, no?