László Nemes: “in un mondo in guerra serve l'umanesimo”. Una storia "che è accaduta a mio padre quando aveva 12 anni, che mi insegue da sempre. Riflette i traumi del XX secolo, che si riverberano lungo tutta la mia esistenza e forse anche oltre". Così Laszlo Nemes, il regista ungherese Premio Oscar per il miglior film straniero nel 2016 per Il figlio di Saul, racconta Orphan, presentato in concorso alla 82ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nemes firma un’opera intima, di miseria e povertà di un paese in rovina, con i segni evidenti delle macerie lasciate dai bombardamenti, e con un clima di paura che avvolge tutto e tutti. Dopo i temi storico-politici del campo di concentramento di Auschwitz di Il Figlio di Saul (Grand Prix della Giuria al Festival di Cannes e Oscar come miglior film straniero) e della Budapest del 1913 in Tramonto il cinema di László Nemes fa un altro passo con Orphan.
Il cineasta Premio Oscar, sceglie di mostrarci la ricostruzione drammatica di Budapest del 1957, quattro anni dopo la seconda guerra mondiale, attraverso gli occhi di un bambino. Andor (Bojtorján Barábas) è un ragazzino ebreo, cresciuto solo con la madre Klara (Andrea Waskovics), che attende con vana speranza il ritorno del padre, Hirsch, che vendeva biglietti per spettacoli teatrali e di cabaret, deportato durante la seconda guerra mondiale.
Convinto di essere figlio di un eroe dal cognome ebreo Hirsch, così idealizzato dalla madre, vuole come il padre contribuire alla riconquista della libertà, crescendo tra stratagemmi e scappatoie ma nei quali dimostra coraggio e fermezza. In un paese ancora sconvolto dalla guerra, soffocato nel sangue dalle truppe sovietiche e soppresso dal nuovo regime comunista, Andor deve fare i conti però con una realtà inattesa: la scoperta del suo vero padre biologico, Berend (Grégory Gadebois), un uomo brutale, (un macellaio di un paese vicino) ben lontano dalla figura idilliaca dipinta dalla madre.
Per lui inizia un periodo tormentato, imprevedibile e complesso, non vuole accettare la realtà, tra rabbia e scatti d’ira tenta di allontanare l’uomo dalla famiglia e dal senso di sottomissione che la madre prova nei suoi confronti. Al trauma della guerra, dell’orfanità e della ristrettezza politica e sociale, si aggiunge dunque quella dell’angoscia di un possibile genitore che non riconosce come tale.
Un atto rivoluzionario che va di pari passo con quello del suo paese, poiché Andor vive non solo la condizione di orfano di un genitore ma anche quella di appartenere al popolo vittima dell'Olocausto, prima, e del regime comunista, poi.
Il clima respirato dal giovane ebreo e la sua ribellione alla paternità diventa lo specchio di un paese che non accetta ciò che gli impone il futuro; così come Andor si oppone a una figura del padre “intruso”, l’Ungheria cerca di ribellarsi alla brutalità e all’intransigenza del regime comunista, entrambi lottando contro l’accettazione di forze troppo grandi per essere respinte. Orphan, il cui titolo riprende quello del suo personaggio principale, affronta oltre il tema della paternità, anche quello della ricerca della verità, la sola che può dare senso all’esistenza e qualità alle relazioni.
Le verità contraffatte o negate, portano a narrazioni storiche falsate e sono alla base delle violenze e delle sopraffazioni. László Nemes narra una storia dai tratti autobiografici. Ungherese ed ebreo di nascita, la sua famiglia ha subito sia la ferita dell’Olocausto che il dispotismo del regime comunista che, nonostante le episodiche rivolte, rimarrà in vigore sino al 1989, l’anno storico della caduta del socialismo reale in Ungheria e in altre nazioni di influenza sovietica, che è diventato poi simbolico con la Caduta del Muro di Berlino.
La pellicola, con Bojtorjan Barabas, Andrea Waskovics, Gregory Gadebois, Elíz Szabo, Sándor Soma e Marcin Czarnik, è un nuovo capitolo nel viaggio indietro della storia del cineasta. "Sono attratto dai soggetti storici ma non voglio trattarli come fossero cartoline. Voglio portare lo spettatore nel cuore di un'esperienza umana".
Nemes, di religione ebraica, non entra, rispondendo ai giornalisti, sul tema della mobilitazione per far sì che la Mostra dia spazio a quanto sta accadendo a Gaza, ma spiega che, ancora di più oggi, in un mondo ancora dilaniato dai conflitti.
Quello che i cineasti possono fare con i loro film è favorire le relazioni umane tra le persone. Afferma che si può comunicare con il pubblico attraverso film che lasciano libertà di pensiero. Non vuole, però, dare messaggi o manipolare gli spettatori, ma essere il più possibile onesto. La grande domanda, per lui, anche nel cinema, nell'arte, come nella vita di tutti i giorni è se si è umanisti o antiumanisti. Qualunque cosa si affermi, qualunque cosa si finga di dire, si è umanisti o antiumanisti. Dice che ci sono due forze nel cuore della civiltà e a volte quella dualità non può essere facilmente risolta. È intrecciata. Hanno visto nel XX secolo cosa si può produrre. La sua responsabilità da regista è la ricerca di quell'umanesimo.
Quello che noi cineasti possiamo fare con i nostri film è favorire le relazioni umane tra le persone. Posso comunicare con il pubblico attraverso film che lasciano libertà di pensiero. Non voglio dare messaggi o manipolare gli spettatori, ma essere il più possibile onesto. La grande domanda, per me, anche nel cinema, nell'arte, come nella vita di tutti i giorni è sei un umanista o un antiumanista? Qualunque cosa tu dica, qualunque cosa tu finga di dire, sei un umanista o un antiumanista? Ci sono due forze nel cuore della civiltà e a volte questa dualità non può essere facilmente risolta. È intrecciata. Abbiamo visto nel XX secolo cosa può produrre. La mia responsabilità da regista è la ricerca di quell'umanesimo.