È il corpo che, potendo,
chiederebbe soltanto d'essere dis-individuato

(C.B., Quattro momenti su tutto il nulla)

Le molte voci del romanzo sono, dall’altro canto,
le voci ritornanti di chi è in grado di ascoltare
ancora sia il minerale sia i residui
filamentosi dell’organico

(C.B., Autografia di un ritratto)

L’anno scorso ho contemplato due “eventi in scena” sui quali sentivo aleggiare il fantasma di Carmelo Bene. Un fantasma numinoso, luminoso. Il primo è l’Otello tutto al femminile di Andrea Baracco. All’inizio ero prevenuto. Pensavo alla solita porcata finto-beniana dove il classico viene massacrato ma senza una poesia-pensiero dentro ai movimenti. Oppure al solito retorico strizzare l’occhio alle tendenze retoriche dominanti sull’iper-lesbo-femminismo, o ancora a una sorta di contrappasso anti-elisabettiano. Al contrario Andrea Baracco ha compiuto il prodigio di attrarre il fantasma di C.B. che aleggiava tra corpi-suono che ci hanno fatto dimenticare l’Otello storico-bardico per immergerci in una nuova favola di gesti, suoni e movimenti più appartenente alle dimensioni della danza e del sogno che a quelle della narrazione.

L’identità sessuale solo femminile ha reso finalmente faticoso il seguire la sequenzialità discorsiva restituendo così il carisma dis-individuante di un “corpo-olos” proiettante visioni e ritmi come una nuvola dei fulmini o raggi di luce. Dentro questa felice implosione e poetico collasso ecco un altro stupore: un pezzo di una canzone di Modugno, una Viola Marietti alla fisarmonica e poi danzante con obliante grazia che satura il tempospazio scenico. Oblio dentro l’oblio. Danzare sopra la tragedia. Danzare dentro la tragedia. Ecco il cuore pulsante del teatro-odeon ancestrale e beniano. Il massimo di libertà possibile nello spaziotempo = l’indifferenza elegante della grazia! Solo dall’estetica sorge, fresco, il senso di un etica effimera ma fisicamente saggia: la tempesta ha sconfitto i Mori, allora la guerra esplode fra gli umori dei corpi psichici.

Simile splendore poieitico ci coglie nel dittico “Elegia” di Enrico Morelli e“Ballade” di Mauro Bigonzetti per MM Contemporary Dance Company, con la voce di Isidora Balberini e le poesie di Mariangela Gualtieri (Bestia di gioia, Paesaggio con fratello rotto, Senza polvere senza peso, Einaudi). Sussurri ben microfonati, echi, ripetizioni: ecco la segnaletica d’enigma di Carmelo per una trans-de-semantica. Una danza-flusso catabatica con voli nel teatro della più pura poesia. Totalità in dinamica.

La locandina recitava: “alla ricerca del gesto libero dalla mimesi del quotidiano”. Ecco che la lezione beniana appare farsi corpo, appare passaggio. I segni della luce diffusa, dei deodoranti, del filo teso e sfuggente appaiono come tracce di un percorso che si apre e si chiude in corpi quali incidere nell’invisibile, come il pentagramma ventarolo di “Rosencrantz Guildenstern sono morti” di Tom Stoppard. Due eventi epifanici, da vedere quasi insieme.

Gemelli non separati nella loro fertile artefatta inconsapevolezza. Carmelo vola e sorride: può tornare il soggetto (anche inteso quale “soggetto narrativo” oltre che attoriale) quale sub-iectum, totale passività-autoascolto, eco che precede la VoceCorpo. Il corpo allora diventa scena vuota e totale. Si elude il principio di identità e di riconoscimento em si torna al circolo beniano che si fonda all’opposto su un Olos dove al centro e nella circonferenza stà l’idea di Opera e in mezzo un ambiente oggettuale che è la macchina attoriale che è come la grazia sufficiente che prepara e attrae la grazia giustificante della Phonè che all’improvviso talvolta travalica e delira e attraversa, aliena, tutto.

Non ci si rivolge ad alcun pubblico. Non si vuole convincere né informare nessuno né raggiungere alcun modello mimetico. Nè si può più farlo. L’attore quale mero agere di un attoretorico (in senso tecnico-linguistico, non persuasivo), cioè un “dire” fisicamente dato e colto. Pura forma autogenica. Non oltre. Tutto il resto per sottrazione di Io e per moltiplicazione di ostacoli, handicap voluti e artifici, che non sono però mediazione di nulla, come la fisarmonica di Viola che all’improvviso è lei la scena e la protagonista, come i suoi gesti danzanti.

Nessun messaggio di cui essere latore. Esibizione di presenzialità e di cortocirtuiti senza mediazioni. Il pensiero del “fuori” risputato “fuori”. E’ l’Iper-uomo che non esce dal suo esserci circondato dall’assenza, all’alienità. Canta, non lotta. Non c’è evoluzione né redenzione.