Nell’ultima settimana ho notato i seguenti claim di marche più o meno note: “Luci smart per semplificarti la vita”, “Ricevitore Bluetooth 5.0. Il wireless ti semplifica la vita”, “Intenet ti semplifica la vita: entra e vedrai”, “L’ibrido semplifica la vita”.

Evidentemente tra i pubblicitari è diffusa l’idea che la promessa di semplicità fa vendere bene. Ma qual è la semplicità che ci vogliono vendere?

La semplicità è una faccenda complessa. Non c’è dubbio che il nostro sistema cognitivo operi col criterio della semplicità. Ad esempio, gli oggetti simmetrici ci appaiono più semplici di quelli asimmetrici: un quadrato è più semplice di un rettangolo e di un rombo. Le linee verticali ci appaiono più semplici di quelle oblique. Sono più semplici gli oggetti associati alla stabilità: una piramide che poggia sulla base è un oggetto più semplice di una capovolta. Le situazioni di equilibrio tra le forze in gioco ci sembra più semplice e desiderabile di quelle in cui c’è uno squilibrio.

La ragione della preferenza per la semplicità è da ricercarsi nella legge della pregnanza formulata Koffka1 a proposito della percezione della ‘buona forma’. La legge afferma che ogni figura è percepita in modo che risulti tanto più ‘buona’ quanto le condizioni date lo consentono. Il termine ‘buono’ comprende proprietà come: regolarità, simmetria, coesione, omogeneità, equilibrio, concisione. Proprietà che, lungi dall’appartenere solo all’universo visivo, possiamo generalizzare ad ogni tipo di esperienza. Una specie di ‘rasoio d’Occam’ del comportamento.

Sembrerebbe naturale associare la semplicità ad un mondo facile e prevedibile, in sintonia con le nostre idee e le nostre azioni. Ma non è così. Come la mettiamo con la noia che ci assale quando vediamo un film giallo di cui possiamo prevedere la soluzione? O quando partecipiamo ad una riunione dove tutto è scontato? Se davvero fosse preferibile un mondo dato per scontato, in queste situazioni dovremmo fare salti di gioia. E, invece, se la situazione non risveglia la nostra attenzione con qualche novità inattesa, la mente entra in stand-by e avvertiamo un senso di torpore.

Come mettere d’accordo la semplicità con la sorpresa? Una risposta ce la offre Arnheim, che a proposito dell’arte afferma: “L’unità della concezione artistica conduce ad una semplicità che, lungi dall’essere incompatibile con la complessità, mostra il suo valore solo quando riesce a padroneggiare l’abbondanza dell’esistenza piuttosto che sfuggire alla povertà dell’astinenza.”2

In altri termini, Arnheim ci dice che un' esperienza è semplice se riusciamo a organizzare una ricchezza di fatti entro un' unità dove ogni cosa trova il suo posto. Perciò ci piacciono le storie d’amore intricate e leggiamo con avidità le avventure del conte di Montecristo e le intricate vicende di Jan Valjean ne I Miserabili.

Secondo la definizione di Arnheim la costruzione della semplicità richiede due passaggi: realizzare un’esperienza abbondante; ricondurre l’abbondanza a unità.

Per comprendere come si fa a costruire una esperienza abbondante, osserviamo La libecciata del 1880 Giovanni Fattori, e come l’artista riesca a cogliere la complessa esperienza del libeccio che scatena la sua furia sul litorale toscano: il vento piega e scuote le tamerici, sconvolge il terreno, fa biancheggiare e gonfia il mare, solleva la sabbia che vela l’atmosfera di un tono giallastro, rende l’uomo uno spettatore impotente di fronte alle forze della natura.

Fattori riesce a fare con la pittura ciò che Flaubert consigliava agli scrittori: quando guardi un albero devi scordarti degli altri alberi che già conosci. Quello che vedi deve essere qualcosa di unico; devi osservare le foglie, l’ombra azzurrina che fanno in pieno sole e le tonalità diverse di verde, devi sentire il rumore del vento, sentire nel palmo della mano le croste rugose del tronco, seguire le formiche che lo percorrono su e giù. L’albero, quello specifico albero, deve essere qualcosa di misterioso e di inesauribile che man mano si svela alla tua attenzione.

Il secondo passo consiste nel ricomporre l’abbondanza dei fatti in una unità di senso. Abbiamo due strade: la prima è il montaggio, l’assemblaggio razionale delle parti. Ma è una via che non porta lontano. Antonio Roquentin, il protagonista de La Nausea di Sartre, nel giardino esprime tutta la sua frustrazione quando cerca di afferrare con la ragione il senso della radice di un castagno: “Pensavo all’appartenenza, mi dicevo che il mare apparteneva alla classe degli oggetti verdi, o che il verde faceva parte delle qualità del mare. Invano cercavo di contare i castagni, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s’isolava, traboccava.

Di queste relazioni (che mi ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà; … Quella radice, al contrario, esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome, essa mi affascinava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esistenza.”3

La seconda via è all’opera nel dipinto Il caffè di notte del 1888 di Vincent Van Gogh. L’artista rappresenta l’opprimente solitudine di una sala da biliardo, “un posto dove un individuo può rovinarsi, impazzire o commettere un crimine”, come scrive al fratello Theo. Van Gogh opera una fusione affettiva: scioglie i fatti dell’esperienza in un medium emozionale, come colori nell’acqua. Quando osserviamo un’opera di Van Gogh, partecipiamo alla stessa fusione affettiva tra Vincent e le cose.

A questo punto siamo in grado di rispondere alla domanda: "Qual è la semplicità ci promette oggi la tecnologia ed i soggetti economici come Google, Amazon, Meta, che la padroneggiano?

La risposta è già presente nel collage Cos’è che rende le case d’oggi così diverse, così attraenti? realizzato da Richard Hamilton nel 1956. Nel pieno dell’esplosione consumistica della società americana, l’artista ci mostra il paesaggio fisico e culturale dell’uomo medio. Al centro un maschio, simbolo pubblicitario di salute e di forza, con in mano un gigantesco lecca lecca. A destra una donna, simbolo pubblicitario di bellezza ed erotismo. Il tutto nell’universo artificiale di prodotti industriali e di icone dei mass-media: l’aspirapolvere sulle scale, il marchio di Ford sul paralume, la tavola di fumetti alla parete, il cartellone di un cinema, il televisore acceso, il prosciutto sul tavolino.

È il mondo artificiale del consumo di massa. L’esperienza della casa è la continuazione del supermercato, con i suoi prodotti selezionati, marchiati, allineati, organizzati, predisposti a sedurre e titillare gli appetiti del consumatore. Non c’è nessuna complessità da esplorare, nessuna unità da ricomporre. La semplicità è già data, già predisposta a priori. È la banalità dell’esperienza inscatolata, liofilizzata, predigerita che ci trasforma in soggetti ugualmente banali. Dovremmo chiedere i danni a chi ci promette una vita così.

Note

1 Koffka, K. (1970), Principi della psicologia della forma, Torino, Boringhieri.
2 Arnheim, R. (1962), Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, pag. 38.
3 Sartre, P. (1965), La Nausea, Milano, Mondadori, p. 183.