Già, talvolta, all’improvviso, la bussola non indica più il Nord e i quattro punti cardinali si trovano poggiati sulla superficie instabile di un mare in burrasca: le onde spazzano via le certezze in un amen, prima i gorghi risucchiano verso il basso e poi le creste dei flutti spingono tutto in direzione del cielo, mente, cuore e corpo. Alto e basso, basso e alto che si alternano. L’ago che dovrebbe determinare la diritta via si trova nella baraonda di un saliscendi e in un istante la vita assume i colori vivaci dell’incertezza. Gli uragani esistono per dilavare le tregue, i fortunali sconvolgono i momenti di bonaccia che incontrano pensieri, emozioni e sensazioni, le tormente tormentano. Quando la stasi si interrompe, prorompe la vita con tutta la sua spumeggiante impredicibilità. Sì, prorompe l’impredicibilità della vita, il fascino della vita.

Il volo dello stordire

Volteggiamo nell’aria, sospesi, senza una direzione e senza un perché. Quando soffiano i venti dell’incertezza, ci ritroviamo storditi, incapaci di analizzare i fatti, abbandonati a noi stessi: sospinti dalle correnti ascensionali che fanno a pugni con le correnti che ci spingono verso il basso. Nel verbo stordire troviamo la storia di un uccello, il tordo, che agli umani e probabilmente ad altri uccelli non dà l’idea di essere brillante e vispo. Chissà perché. C’è chi sostiene che la ragione stia nel fatto che i tordi sono ghiotti d’uva matura e diventano ebbri dopo averne beccato i chicchi. Beccarsi l’epiteto del tordo non è piacevole. Torde sono le persone un po’ balorde, quelle di cui è facile prendersi gioco, sciocche e sempliciotte.

Lo stordimento talvolta ci porta in quello stato: siamo a tal punto confusi che a prenderci gioco di noi possiamo essere addirittura noi stessi. Lo stordimento implica comunque possedere le ali, assegnarsi la possibilità di compiere un volo. Senza le ali, rimani a terra, a guardare verso l’alto, ma a terra.

Senza più un paese, spaesato

Ti manca la terra sotto i piedi. Ti manca la tua terra. La terra delle tue certezze, delle tue solidità, delle tue granitiche convinzioni. In quei momenti ti ritrovi spaesato. L’aggettivo spaesato è recente, compare nella lingua italiana solo nel 1829. Nello spaesamento i punti di riferimento non esistono più perché ti trovi ad abitare in un altro paese che non è il tuo. A fregarti, e anche a regalarti nuove opportunità, è quella s- iniziale che ti nega il suolo conosciuto e ti porta in un altrove dove ti senti a disagio. Nello spaesamento sei condotta o condotto fuori dal tuo villaggio, quello di cui conoscevi le feste, i riti, le consuetudini, le prassi, le cerimonie. Le strade del villaggio nuovo non le conosci, confondi i cardi con i decumani della vita, cerchi segni ma nessuno può aiutarti nell’interpretare le impronte dei tuoi passi. Nella parola spaesamento trovi le tracce del latino tardo pagense(m), aggettivo che significava ‘del villaggio’, derivato a sua volta di pāgus che nella lingua di Cesare e Cicerone voleva dire ‘villaggio’ o meglio ‘territorio appartenente al villaggio’.

La confusione dello spaesamento sta tutta lì, in quella terra che ti fa vacillare, traballare, barcollare sulle gambe per regalarti, chissà, un giorno, nuovi dinamici equilibri. Fuori dal villaggio sei forestiero perché incontri la foresta che comporta rischi ma che fornisce anche la condizione favorevole all’espansione del tuo sguardo.

La fusione del confondere

“Essere creativi significa essere in grado di soffermarsi nell’incertezza e nella confusione”. Così secondo Fritjof Capra, il fisico austriaco autore de Il Tao della fisica.

Per generare creazioni nuove, mescoli insieme, versi, aggiungi, amalgami, impasti, rimescoli nuovamente. La confusione la generi così, con aggiunte continue, con versamenti senza fine, con l’atto del travasare e del mescere. La confusione è una fusione con qualcun altro, laddove fondere non significa unire ma sciogliere e liquefare. Nel fondere facciamo passare una sostanza dallo stato solido a quello liquido. Il con- aggrega, è l‘elemento di agglutinazione di materie riversate nel medesimo contenitore.

L’idea della confusione come versamento la ritroviamo nello studio della storia di questa parola. Il verbo latino fŭndĕre, che oltre a confondere ha fatto nascere anche diffondere e trasfondere, è collegato a un’antica radice indoeuropea che si trova anche nel verbo greco antico khéō ‘verso’, ‘spando’, ‘spargo’, il verbo sanscrito ju-hoti ‘fare libagioni’ e il sostantivo sanscrito homan ‘libagione’.

Da questo punto di vista, la confusione assume una dimensione mistica, come fosse una offerta agli dei, un sacrificio sacro indispensabile per essere condotti altrove. Del resto, non esiste possibilità di viaggio senza che prima non si sia attraversata la selva oscura, non ci si può ritrovare senza esserci persi almeno un po’.

Frastornato, in balia di un tornio impazzito

Sono gli dei a scagliare le bufere sugli esseri umani: si divertono così, nel togliere persuasioni e nel far danzare confusi desideri. Le persone colpite dai loro dardi appaiono frastornate.

Frastornato in origine voleva dire ‘impedito’, ‘reso impossibile’. Solo con il fluire del tempo, con il passare dei secoli, questo aggettivo è entrato nel piano semantico dello sconcerto: anticamente significava solo ‘che non può essere’. Il verbo frastornare è derivato da stornare, con il significato di ‘sviare’ e di ‘confondere’, a cui è anteposto il prefisso fra-. Stornare a sua volta deriva dal verbo tornare, in latino tornāre, che voleva dire ‘lavorare al tornio’, ‘far girare la ruota del tornio’, da cui il significato di ‘girare’ e ‘far ritorno’ delle lingue romanze, cioè delle lingue derivanti da latino.

Frastornato è qualcuno che non ritrova più l’andatura curva costante che il tornio garantisce. Con il tornio, il moto rotatorio permette al vasaio, al falegname o al fabbro di modellare i pezzi di creta, di legno o di metallo. Chi è frastornato è materia in balia di un tornio impazzito, non più in grado di forgiare forme, inadatto a sagomare immagini compiute.

Il tempo, quello sì, solo il tempo può far ritornare gli esseri umani nell’orbita abituale, almeno per un po’, prima della nuova rotazione senza freni e senza certezza di un nuovo rallentamento. Del resto, scriveva Jane Austen in Persuasione, romanzo uscito postumo a cura del fratello nel 1818: “Nessuno di noi vuole stare in acque calme per tutta la vita”. Meglio frastornati che in totale assenza di vento.

La vita è un turbamento

Il ritmo dell’esistenza è quello di un turbo, tutto è veloce, tutto è accelerato, tutto assume le sembianze di un vortice. Queste spinte del turbocompressore della contemporaneità possono turbarti, cioè scompigliarti i capelli e tutta la testa. Il turbamento è scompiglio e inquietudine. Essere turbati significa impensieriti, con i pensieri che stanno sull’altalena dalle lunghe corde.

Il verbo latino tŭrbāre è derivato dal sostantivo tŭrba, ‘scompiglio’. Ma anche ‘tumulto’, ‘folla’, ‘calca’, a lasciare intendere che laddove c’è ressa aumenta la possibilità di mancanza di ordine: noi sappia che il terreno della complessità è quello che si apre tra l’argine dell’ordine e quello del caos. Anche il sostantivo greco týrbē voleva dire ‘disordine’, ‘confusione’, ‘scompiglio’.

Parenti del turbamento sono il turbine, cioè il ‘movimento vorticoso dell’aria’, e la turbina, la macchina che ruotando genera energia. I periodi turbolenti del resto portano sempre con loro anche energie nuove. Nelle lettere al fratello Theo (1972-1890), Vincent Van Gogh scriveva: “Il cuore di un uomo è molto simile al mare, ha le sue tempeste, le sue maree e nelle sue profondità ha anche le sue perle”.

Distrai lo sguardo e i pensieri

Cerca di assumere una posizione in equilibrio, per esempio rimanendo in piedi su una gamba sola, nella postura dell’albero. Ondeggi. Barcolli. Se chiudi gli occhi ondeggi molto di più. Se invece ti sistemi di fronte a un muro e fissi un punto specifico, la mente resta più ferma e il corpo la asseconda trovando un maggiore equilibrio, una migliore stasi.

A volte sono gli sguardi a fare la differenza.

Negli sguardi, in certi sguardi, convivono due azioni distinte. Una è appunto il guardare, l’osservare, lo scrutare, il vedere per comprendere e per separare così il grano dal loglio, il bianco dal nero, la materia dal riflesso. L’altra azione attiene al custodire, al preservare, al mantenere con cura, come fa una guardia buona, ritta sulla sua garitta, pronta scattare in caso di pericolo.

Negli sguardi, in certi sguardi, si intrecciano - abbracciandosi - i verbi francesi regarder e garder, che hanno in comune antiche pietre di costruzione ma che, al tatto, rivelano oggi le loro diverse materiche consistenze. Ecco, quando ti distrai, perdi quello sguardo. Vieni condotto altrove, vieni tratto in un’altra dimensione (dis-, appunto).

Il latino distrăhĕre voleva dire ‘separare’, ‘disperdere’, ‘allontanare’. Genitore di questo verbo è il verbo, ancora una volta latino, trăhĕre con il significato di ‘trarre’, ‘tirare’. Da lì il trattore e la traccia, il trattato e il tratto della penna sul foglio. Da lì anche la trama, cioè il filo che costituisce la parte trasversale di un tessuto e al contempo l’intreccio di un racconto, quell’intreccio che consente di dare profondità alla narrazione. Ecco, essere distratti qualche volta ti fa perdere lo sguardo e ti impedisce di cogliere il valore di quella profondità.

Disorientare, senza più l'origine

Quando perdi l’orientamento non solo smarrisci la prospettiva del prossimo passo della direzione che verrà, del cammino che stai per compiere. Essere in preda al disorientamento vuol anche dire rimetterci l’oriente, cioè l’origine, ciò da cui tutto è partito.

Orientare e il suo contrario dis-orientare conservano in sé la luce e i profumi dell’oriente, parola che deriva dal latino orĭens -entis che significava ‘est’, ‘levante’, e propriamente era il participio presente del verbo orīri, che voleva dire ‘sorgere’, ‘spuntare’.

Essere disorientati vuol dire talvolta svegliarsi presto il mattino, uscire di casa, passeggiare sulla spiaggia, guardare a est e non riconoscere più la luce del sole nascente. Disorientare è talvolta il non-sorgere, il non vedere i primi raggi dell’alba.

Erich Fromm, lo psicologo, psicanalista e filosofo tedesco del Novecento, ti ha comunque aiutato a trovare il positivo nel disorientamento: “Per essere creativi è necessario lasciarsi disorientare, concentrarsi, accettare il conflitto e le tensioni, rinascere ogni giorno e sapersi ascoltare.” D’altro canto i disorientamenti, come tutto ciò che è vivente, prima o poi passano. Torna l’oriente, torna l’orientamento, tornano i raggi, torna il tepore del sole.

La sorpresa ti rende sbalordito

Inatteso il regalo. Sorprendente il gesto. Resti sbalordito di fronte a ciò che proprio non ti aspettavi, che non credevi potesse succedere, che non potesse succedere a te. E invece la vita è un ghirigoro e la meraviglia è sempre o trama o ordito dei nostri tessuti.

Nello sbalordire troviamo il balordo, che è un po’ tardo di mente, tonto, sciocco e un po’ malvivente, sbandato emarginato. Ecco restare sbalorditi ci rende tutti un po’ balordi, con la testa piena di chissà e i piedi fluttuanti nella mota.

E resti rintronato

Stordito e rintronato. Quasi piallato dalla novità. E il rintronare non è silenzioso: si sentono il rimbombo del tuono. Si ascolta il boato. Sì perché dentro il rintronare troviamo il tuonare, con una lettera erre che si incista nel tuonare per diventare tronare. Diceva il giocatore di football americano Jack Tatum: “La mia idea di un buon placcaggio è quando la vittima si risveglia lungo i bordi del campo e sente rintronare nella sua testa i fischi di un treno”. Sì nella testa i fischi di un treno.

Errare senza errori

La parola pianeta ha origine nella Grecia antica. Per definire quella piccola sfera di terra e acqua sulla quale poggiamo i nostri piedi, gli antichi abitanti di Atene avevano inventato la parola planḗtēs, ‘pianeta’, propriamente ‘vagante’, derivato del verbo che alla prima persona singolare dell’indicativo presente è planáō, ‘vago’, ‘vado in giro’, ‘erro’.

Il nostro transito individuale e collettivo è dunque su un pulviscolo errante che chiamiamo Terra. E il nostro errare sull’errante è sempre un po’ un vagare, spesso sbagliando, qualche volta prendendo cantonate, comunque facendo esperienze che ci portano ad acquisire nuove prospettive per osservare dentro e fuori di noi.

Il verbo latino di provenienza indoeuropea errāre significava ‘vagare’, ‘aggirarsi’ e anche ‘sviarsi’, ‘sbagliare’. Da qui il sostantivo errore. L’erranza è anche sbaglio. O comunque rischio di sbagliare. Ma per chi abita il pianeta errante, l’erranza è indissolubilmente legata alla vita.