Steso sulla sabbia con le mani dietro la nuca per proteggere i capelli osservava il cielo notturno così come sempre lo immaginava da bambino: la cupola nera che ti sovrasta, perforata da mille minuscoli pertugi da ognuno dei quali penetra un filo di luce.

Lei era da qualche parte dietro di lui, fuori dalla portata del suo sguardo, poteva sentire i suoi passi irregolari ed inquieti che frusciando comprimevano e penetravano delicatamente la sabbia imprimendovi impronte leggere.

Da mesi aveva gradualmente coltivato in segreto il sogno di restare solo con lei ma un senso di terribile insicurezza si era impossessato di lui al primo diverbio sorto per una sua celata timidezza a rispondere alle sue richieste e nulla era rimasto dei primi dialoghi scherzosi ed anche allusivi condotti più volte nell’aula magna. Gradualmente in quell’aula si erano conosciuti e “sentiti”, pur mescolati alla massa di persone che sempre affollava gli anfiteatri scricchiolanti di legno antico. Invariabilmente lui aveva mostrato di sé la versione filtrata, aveva sempre indossato la maschera di sicurezza che solo a tratti abbassava, nei momenti di maggior debolezza, o forse di maggior coraggio, difficile dire se sia da ritenersi più frutto del coraggio o della codardia il mostrarsi scoperto e vulnerabile come un carapace privato del suo guscio osseo. E così ora, nel momento in cui davvero poteva esprimere tutto ciò che provava per lei, era bloccato dal timore di mostrarsi diverso, meno sicuro, e questa sua apparentemente inspiegabile titubanza l’aveva irritata.

“Hai freddo ?” le chiese. “No.” La risposta proveniva secca da qualche metro di distanza, nell’aria immobile le vibrazioni secche del suono sembravano graffiare la sua pelle e infrangersi sulle scogliere distanti, nel mare immobile.

Gli parve di sentirlo quel mare, caldo e piatto, disciolto quasi dal sole selvaggio di luglio, di sentirlo mentre lo avvolgeva e si adattava alla sua pelle riportando la matrice perfetta del suo corpo in movimento lento mentre avanzava nell’acqua, luminescente in quel periodo dell’anno, tanto che anche dei pesci si poteva seguire la scia, come fosse bava luminosa di lumaca.

Non disse nulla lui e alzatosi a sedere slacciò le scarpe, sfilò le calze e ve le pose dentro, quindi rizzatosi in piedi slacciò i pantaloni, li tolse e li poggiò ripiegati sulle scarpe, quindi tolse la camicia, le mutande e anch’esse poggiò ordinatamente sulla sommità della piccola pila di vestiti.

“Vieni?” disse e non attese a lungo la risposta, semplicemente si avviò verso la superficie piatta e lucente che si lacerò ed increspò sotto i suoi passi.

“Perché non vieni?” pensò e l’acqua già raggiungeva il suo inguine e veramente gli trasmetteva un senso di tepore, lo stesso tepore che avrebbe voluto percepire abbracciandola e baciandola.

“Perché non sento i tuoi passi nell’acqua?” pensò ancora e già era immerso fino al petto eppure si sentiva felice ed una strana euforia stava impadronendosi di lui, un’ubriacatura imprevista ed ingiustificata, “te lo dirò domani... te lo dirò domani, perché non capisci?” pensò, e immersosi completamente si rovesciò per osservare da sotto la superficie fluida la luna bianchissima e ormai alta nel cielo.

“Perché?” pensò e riemerse sbuffando e poi inalando aria voracemente e ancora quel senso di vertigine innaturale lo colse. “Domani,” pensò, “glielo dirò domani,” e rise dentro di sé pensando al suo viso imbronciato, perché lui ormai aveva già deciso, ma l’attesa, col suo senso di finta incertezza, aggiungeva sapore ad un dado già tratto e prolungava la felicità un pò incosciente degli ultimi momenti prima che la storia si compia. Si riimmerse compiendo due ampie bracciate e spingendo avanti ed in basso con forza il suo corpo a lambire la pelle sabbiosa del mare fino a sentirne la granulosità fine e le correnti più fresche prossime al fondo, quindi lasciò che l’acqua lo riportasse sulla sua superficie, scollandosi quasi da lui nelle parti riemerse. “Domani!” pensò, e ancora sbuffò respirando.

Fu allora che sentì lo sciacquio lieve ed il tocco leggero sul piede sinistro e una gioia piena di stupore lo avvolse facendolo girare su se stesso, verso il grande bagliore dell’acqua smossa che accentuò l’ilarità inconsapevole che lo aveva pervaso poco prima, e nell’acqua calda e lucente la cercò allargando le braccia attorno a sé con le dita aperte a setacciare il mare a cercare un abbraccio, e dunque gli occhi la videro, ma la sua mente non capiva... a cinquanta metri da lui, forse settanta, si allontanava camminando lenta sulla sabbia asciutta verso le luci lontane della strada.

L’acqua era più calda ora che il sangue fluiva in volute cupe che dissolvendosi attorno a lui lo avvolgevano in un fluido mortale.

“Il mare...” pensò “Il sangue...” e la pinna caudale lo spinse di lato dando l’impressione di una forza possente. “Aiuto!” pensò, e mentre il destino gli concedeva l’amaro privilegio di percepire il sapore del proprio fegato nel momento in cui veniva abbracciato, non già da lei, ma dai denti del makò, ebbe il tempo di accorgersi che gli occhi spalancati nel buio già vedevano meno ma parlavano di lui e del terrore della morte.