Se ne è andato, quasi centenario, Raffaele La Capria. Di lui ci resta il ricordo del suo attaccamento viscerale a Napoli. Ci resta l’opera letteraria, con la quale ci ha dato emozioni e suggestioni indimenticabili, con capolavori come Ferito a morte, e ci ha aiutato a capire una città complessa, tormentata e difficile. È stato, tra l’altro, sceneggiatore con Enzo Forcella del film di Francesco Rosi Le mani sulla città, che ha denunciato drammaticamente le conseguenze tragiche della dissennata e violenta speculazione edilizia degli anni Cinquanta, dalla quale probabilmente Napoli non si è mai davvero risollevata.

Nel 1986 Raffaele La Capria entrò nel dibattito sul tema della napoletanità con un saggio scioccante, ancora di straordinaria attualità e grande fascino, intitolato L’armonia perduta: forse il suo scritto più bello.

La cosiddetta napoletanità non è solo, come la definisce il Nuovo Treccani: “La qualità, la condizione di napoletano, l’essere e sentirsi napoletano” o “in senso più ampio, l’appartenenza a Napoli, ai Napoletani”. E non è solo, come precisa ancora lo stesso Nuovo Treccani: “L’insieme delle tradizioni, degli usi, delle qualità e degli atteggiamenti spirituali che costituiscono il patrimonio della città”. Ma è anche un coacervo di luoghi comuni, di stereotipi, di abitudini, di disfunzioni sociali: una zona grigia di fatalismo, nella quale si tendono a giustificare discrasie, indigenza, difficoltà, trasgressioni, insofferenza per le regole, annegandole tutte in una perenne rassegnazione, vissuta all’insegna della rinunciataria espressione “che ci posso fare!”, “ch’ aggia fa!

La Capria attribuì la nascita di questa napoletanità ad un forte trauma storico delle cui conseguenze la città non è più riuscita a riprendersi. Il trauma fu inferto dal fallimento della Rivoluzione Napoletana del 1799, naufragata non solo nella repressione borbonica e negli eccidi delle bande sanfediste del cardinale Ruffo, ma anche nella più truce e truculenta delle reazioni della plebe partenopea, capace di efferatezze sanguinarie non dissimili da quelle feroci e indomabili dei tempi della rivolta di Masaniello.

Con il fallimento del 1799 e il bagno di sangue che ne è seguito, scrive La Capria, si è per sempre persa un’armonia, e borghesia e aristocrazia, sopravvissute a questo disastro, nutrendo un vero e proprio terrore della plebe, si sono adoperate per addormentarla “col flauto dolce del dialetto”.

Da allora è iniziato un cammino letterario, teatrale e musicale, che ancora sopravvive vegeto e prolifico e diventa costume di vita, nascondendo e oscurando le istanze culturali e artistiche più autentiche e vivaci che a Napoli reagiscono ai legacci più scontati e deleteri della napoletanità. Letteratura, teatro, musica e persistenza anacronistica dell’oleografia paesaggistica e bozzettistica di cera antiquata moda pittorica, hanno fatto della rinuncia e della rassegnazione, talvolta dell’apologia della povertà e del disagio, quasi uno stile di vita e un rifugio. In una famosa commedia di Eduardo De Filippo, il napoletano che ha tentato di far soldi col contrabbando durante il dopoguerra e non ci è riuscito, confessa che alla fine gli basta poco e, quando è riuscito a mangiare una fetta di pane col pomodoro, si sente un re. Ancora oggi, quando un napoletano va a lavorare fuori della sua città, se non è considerato un povero emigrante, è per lo più trattato, prima che se ne conoscano intelligenza, civiltà e capacità professionali, quasi come un personaggio pittoresco venuto fuori da una commedia, da una farsa popolare e dialettale, quando non da una sceneggiata o, peggio, dalle gag di certi scrittori di successo che hanno svenduto i propri concittadini come nullafacenti superstiziosi, bigotti e ciarlieri, che campano di espedienti.

Ma la grande rinuncia all’azione e al riscatto e l’addormentamento col flauto dolce del dialetto sono stati, e sono tutt’ora, perpetrati soprattutto dalla grande, famosa e apprezzata canzone napoletana, intoccabile mostro sacro del nostro immaginario sentimentale e canoro, nel quale è celebrato il mito della passività, del sonno liberatore, dell’attesa inerte e supina di chi si accontenta della bellezza del cielo, del mare, delle povere cose buone di una volta.

Nella celeberrima canzone ‘O paese do sole, un emigrante ritorna felice quasi incredulo d’essere di nuovo nella sua Napoli e si rende conto che vi è davvero arrivato quando sente, appena il treno è entrato in stazione, il primo mandolino. Gli è andato tutto male, ma è felice del ritorno perché finalmente la mamma gli è vicino e la sua ragazza canta.

Ai napoletani delle canzoni, insomma, basta che ci siano il cielo e il sole, il mare e una ragazza cuore a cuore per cantare. E se per caso tre professori di concertino vanno in Paradiso vengono subito presi dalla nostalgia per Napoli tra lo stupore di un esterrefatto San Pietro. Il napoletano che non ha niente arriva ad affermare che nessuno sta meglio di lui, domani penserà ai debiti, ma stasera, non si capisce bene perché, si sente un re: “E io canto: Qui fu Napoli. Nisciuno è meglio ‘e me, dimane penzo ê diebbete, stasera só’ nu rre”.

Le donne delle canzoni napoletane dormono sempre, non si svegliano nemmeno con le più appassionate serenate degli amanti, e pure se sono sveglie devono far finta di dormire a sonno pieno: “Statte scetata, si vuó' stá scetata, ma fa' vedé ca duorme a suonno chino”. Scétate! “Svegliati!” è una famosissima canzone del 1887 musicata da Mario Pasquale Costa su versi dell’amatissimo poeta Ferdinando Russo. L’innamorato è di notte per strada e intona alla sua donna una serenata elegante come un ricamo, ma lei non si sveglia. Lui insiste: “Scétate bella mia, nun cchiù durmí”. Ma non c’è niente da fare e lui sembra rassegnarsi: “Ma staje durmenno, nun te si' scetata!”.

Ma anche gli uomini dormono. Il pescatore si addormenta con la rete tra le mani e chiede alla Luna di non svegliarlo mai e possibilmente di farlo morire in sonno. E alla propria donna l’invio più affettuoso che si possa rivolgere è: “Duorme, Carmè': 'o cchiù bello d''a vita è 'o durmí”.

Dormono le rose dei giardini e l’incapacità di dormire è una vera tragedia. Così canta chi ha avuto la sventura di perdere il sonno: “Dormono'e rrose 'int ‘o ciardin surtanto 'o ammore mio nun po' durmí”. E nel meraviglioso scenario di Capri, mentre si accendono le stelle a prima sera e una fascia d’ argento di dispone sotto i Faraglioni, l’innamorato chiede alla luna di farle addormentare la ragazza: “Adduorme a nenna mia ca sta scetata”.

Nel 1961 i Beatles fanno il loro esordio rivoluzionario. Nel 1962 vince il festival della canzone napoletana il canto di un barcaiolo che chiede alla sua Mergellina di remare per lui la barca, di cullarlo, di farlo sognare e soprattutto di non svegliarlo: “Margellina,Margellina, dint'a 'sta varca famme sunná. Vocame, vocame. Nun mme scetá”.

Ed è così forte l’influenza del sonno nel cosmo canoro partenopeo che nel 1965 ci prova anche l’Equipe 84 con la canzone Notte senza fine, con la quale la band si cimenta spericolatamente con il dialetto. L’appello è sempre lo stesso: “Non mi svegliare dal migliore dei sonni!”

Non c’è che dire, il programma che Raffaele La Capria attribuiva all’aristocrazia e alla borghesia di domare la plebe addormentandola col flauto dolce del dialetto è riuscito perfettamente, con una sola piccola precisazione da fare… che ad addormentarsi non è stata solo la plebe.