Su un’isola che non ha nome, in un tempo imprecisato che tuttavia possiede le caratteristiche del nostro presente, dalla vita degli abitanti scompaiono a poco a poco oggetti, piante, animali e altro ancora. A svanire, in seguito a repentine e minime avvisaglie, è il ricordo delle cose stesse e quindi la loro più intima essenza. Si direbbero i segni oggettivi di una malattia a carattere epidemico, ma attraverso il racconto dell’anonima protagonista – scrittrice di professione – scopriamo l’esistenza di una Polizia Segreta che presiede in maniera sistematica e brutale all’oblio collettivo, assicurando che gli oggetti spariti dalla memoria spariscano anche fisicamente. Impossibile determinare con anticipo ciò che svanirà, giacché queste scomparse hanno un carattere totalmente aleatorio e imprevedibile. Tutto ciò che sappiamo è che dopo queste eclissi, mentre la popolazione cerca ogni volta di riassestare l’equilibrio appena perduto, la Polizia Segreta rimuove anche le più deboli tracce che potrebbero ricondurre a quel ricordo. La protagonista lo sperimenta in maniera diretta quando a essere cancellati dall’isola sono gli uccelli e gli agenti fanno irruzione a casa sua per sequestrare tutto il materiale presente nello studio del padre, un noto ornitologo morto alcuni anni addietro: «In un’ora soltanto, l’aspetto della camera era cambiato: i segni della presenza di mio padre, che vi avevo gelosamente custodito, erano del tutto scomparsi, sostituiti da un vuoto incolmabile. Rimasi in piedi al centro della stanza: mi sembrava ora una cavità abissale che stava per essere risucchiata da un punto sul fondo».

Ma l’esistenza della giovane protagonista era già stata in parte compromessa dall’intervento della polizia, la quale, senza fornire nessuna spiegazione a riguardo, quindici anni prima ne aveva sequestrato la madre, rea come altri di non poter dimenticare. Non tutti gli abitanti, infatti, sono soggetti a questa forma di oblio e le milizie danno la caccia in maniera inesorabile a quanti per virtù o per vizio non riescono a cancellare dalla propria memoria quel che invece dovrebbe essere scomparso: «I metodi delle cacce ai ricordi si inasprivano sempre più. Non veniva più mandato un ordine di comparizione, come nel caso di mia madre. Erano tutti attacchi a sorpresa. Usavano armi potenti, in grado di rompere qualsiasi tipo di serratura. Invadevano le case, in cerca di un possibile sospetto. In un ripostiglio, sotto un letto, dietro un armadio: non sfuggiva loro nessuno spazio che potesse nascondere un essere umano».

Difficile non pensare ad alcuni aspetti delineati in 1984 di George Orwell e alle strategie che nel romanzo dell’autore inglese vengono messe in atto dal Partito per manipolare la storia e riscriverla secondo i propri interessi: «Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. La storia si è fermata. Non esiste altro che un eterno presente nel quale il Partito ha sempre ragione». L’idea di un presente onnipervasivo e della conseguente mancanza di coordinate temporali riconducibili al passato accomuna le due opere, o meglio i fini perseguiti dai due regimi in esse descritti. Mentre però nel libro di Orwell il passato è fatto oggetto di persistenti alterazioni affinché plasmarne il senso alla luce di ciò che dovrà poi rappresentare nel presente, nell’Isola dei senza memoria il passato viene direttamente rimosso dall’orizzonte degli abitanti e in modo tanto radicale da non lasciare nemmeno tracce di sé nelle esperienze personali e collettive.

Lo spettro della distopia, pur nella deformazione allegorica scelta dall’autrice giapponese, sembra allungarsi sin dalle prime fasi e permeare ogni singola circostanza narrativa. Come nei più tradizionali regimi totalitari che la storia e la letteratura ci hanno consegnato, ciò che il potere ritiene anche solo potenzialmente sovversivo deve essere non soltanto bandito ma addirittura estirpato con tutti i mezzi possibili. A giocare questo ruolo, qui, è dunque la capacità mnemonica degli individui. La singolarità di ognuno viene contrastata infatti dal regime attraverso la corrosione dei ricordi, col risultato di un appiattimento generalizzato che rende gli abitanti – progressivamente svuotati di ciò che più di tutto contraddistingue gli esseri umani, e cioè il proprio personale serbatoio di memorie – come automi privi di capacità critica e sempre più simili gli uni agli altri.

Lo sviluppo della vicenda prosegue in maniera cadenzata e priva di strappi, con frequenti ricorsi a flash-back e sovrapposizioni temporali, ma spesso si confonde con un altro sviluppo, quello del romanzo scritto dalla protagonista secondo una storia parallela e per certi versi simmetrica rispetto alla principale. Una donna, dopo essere stata assunta come dattilografa, viene inspiegabilmente privata della voce e rinchiusa dal proprio datore di lavoro in una stanza gremita di vecchie macchine da scrivere ormai guaste. All’interno di ognuno di questi oggetti accatastati gli uni sopra gli altri, c’è la voce di cui le ragazze che l’hanno preceduta sono state via via defraudate. Malgrado la detenzione alla quale viene sottoposta, e questa afasia indotta in qualche modo dalla persona che la tiene prigioniera, la donna sviluppa una sorta di attaccamento morboso nei confronti del suo persecutore. Sembrerebbe un chiaro richiamo alla Sindrome di Stoccolma, quella particolare condizione psicologica che implica un legame emotivo tra la vittima e il proprio aguzzino. Ma questo snodo narrativo potrebbe avere una valenza metaforica particolare e in esso è forse rinchiuso più di quel che a prima vista appare in superficie: ogni totalitarismo che si rispetti ha bisogno del consenso – spesso formalmente spontaneo ma di fatto imposto – della popolazione che sottomette alle sue logiche e al suo volere. Saremmo quindi di fronte alla possibilità che questa acquiescenza popolare nei confronti dei rappresentanti politici sia in realtà l’effetto di una Sindrome di Stoccolma su larga scala, generalizzata e tanto più mostruosa proprio perché estesa a tutti gli abitanti dell’Isola.

Le ribellioni, infatti, sono troppo blande e sporadiche perché si possa parlare di un vero e proprio fronte di opposizione e il sentimento che predomina fra la popolazione è quello di una tacita remissività. Indolenti, passivi, incapaci non soltanto di reagire ma anche di comprendere, gli abitanti continuano infatti a vivere la loro quotidianità minacciata dalle continue dissolvenze, adattandosi di buon grado e in fretta anche alle perdite più consistenti: «A poco a poco, tutti si abituarono a vivere con la gamba sinistra scomparsa. Certo, non era esattamente come prima, ma i corpi trovavano un nuovo equilibrio e si andò consolidando un ritmo quotidiano compatibile».

Che fra i significati del romanzo di Yoko Ogawa vi sia la condanna dei totalitarismi (palesi o mascherati) che hanno afflitto e continuano ad affliggere le umane società non è soltanto un sospetto, tanto più quando scopriamo che a un certo punto a svanire improvvisarmene dall’Isola sono i libri. E come se la scomparsa dei libri non rappresentasse già qualcosa di funesto, l’episodio assume toni ancora più cupi quando scopriamo un manifesto richiamo alla Bücherverbrennung nazista messa in atto il 10 maggio del 1933: «Verso sera l’avanzata delle sparizioni accelerò di colpo. Fu appiccato il fuoco alla biblioteca, e le persone portarono i libri nei pacchi, nei campi e nei terreni incolti per bruciarli. Dalla finestra del mio studio vedevo il fumo levarsi da ogni angolo dell’isola, per essere ingoiato dalle nuvole, tingendo di grigio il cielo […] Lanciammo un libro dopo l’altro. Non guardavo più le copertine, non sfogliavo le pagine. Ripetevamo la stessa azione con distacco, come se portassimo a compimento un lavoro stabilito. Tuttavia, nell’istante in cui ogni singolo volume lasciava la mia mano, percepivo un lieve scricchiolio, come se la voragine della mia memoria si ampliasse sempre più».

Qualche tempo prima la ragazza aveva deciso di offrire protezione al proprio editor – qui chiamato semplicemente R – il quale presto o tardi sarebbe di certo finito nelle mani della polizia in quanto soggetto non-dimenticante. Con l’aiuto di un anziano che gode della sua completa fiducia e che lei usa chiamare «nonno» benché non vi sia fra loro alcuna parentela, la giovane protagonista appronta un nascondiglio sotterraneo nel quale ospitare l’ex collaboratore editoriale. All’interno del rifugio, R incomincia a vivere così una vita austera e monotona, animata solo da qualche saltuario diversivo. Fra questi, l’arrivo di eventuali oggetti scampati alle sparizioni e che soltanto lui è in grado di riconoscere e comprendere, oppure la lucidatura di qualche pezzo di argenteria che la sua ospite gli offre per riempire il vuoto delle giornate trascorse nel sotterraneo. R si cimenta in questo esercizio con uno zelo apparentemente eccessivo e incomprensibile, ma che piano piano svela il suo potenziale simbolico come già era avvenuto per altri passaggi del romanzo. Nel gesto quasi compulsivo dell’uomo che lustra impeccabilmente delle inutili posate si cela forse il tentativo di chi ha compreso l’importanza o addirittura l’imprescindibilità della cura con cui tenere vivo ciò che rischia invece di essere annullato e svanire insieme a tutto il resto. La sua diventa quindi un’impresa tanto apotropaica quanto figurativa, l’estremo tentativo del superstite che cerca con ogni mezzo di rimanere tale perché, a differenza della maggior parte degli altri abitanti dell’Isola, è in possesso dell’unica facoltà che può mantenerlo in vita.

In quest’ottica, anche le ininterrotte precipitazioni nevose cui si fa cenno a partire dalla metà del romanzo in poi, e che sembrano via via ricoprire ogni cosa, possono assumere un valore allegorico importante, poiché un mondo dominato dalle dissolvenze, in un orizzonte che sottrae spazio anche al corretto uso dei corpi e persino all’articolazione della parola, è un mondo destinato a non lasciare traccia di sé e concludersi in un’ineluttabile tabula rasa. Così, mentre la perdita della memoria giuridicamente imposta da chi governa l’Isola conduce anche alla perdita dell’identità individuale e collettiva, la protagonista va verso l’inevitabile annientamento e a poco a poco si consuma, svanendo tuttavia con la consapevolezza che a salvarsi sono soltanto quelli che non dimenticano, come R: «Il mondo esterno è coperto di neve e in completa rovina», gli dirà lei divenuta ormai soltanto una voce disincarnata, «ma per un cuore pieno come il tuo non è un problema. Penso che pian piano potrai sciogliere il rigore del mondo».

Per chi rimane, potenziale testimone del passato che altri hanno tentato di annientare, le acque del Lete possono ancora attendere.