Per conoscere e comprendere ciò che è “altro da noi” non dobbiamo “diventare l’altro”. Non è mettendoci nei panni dell’altro che arriveremo a comprenderlo realmente, perché la nostra percezione sarà sempre, comunque, inevitabilmente differente.

Ci viene istintivo provare ad entrare nello sazio interiore dell’altro (cosa che oltretutto è di per sé stessa un’illusione) oppure immaginare cosa faremmo noi al suo posto (esercizio che non ci conduce all’effettiva comprensione del suo stato). Non è immaginando noi stessi nella situazione dell’altro che potremo scoprire come si sente, perché ogni individuo reagisce diversamente agli stimoli. Uscire da noi stessi per entrare nei panni dell’altro ci disconnette dalle nostre percezioni, ci allontana dal nostro vero potere, cioè la possibilità di ascoltare l’altro così attentamente da entrare con lui in risonanza. Come spesso accade, la differenza è sottile ma sostanziale.

Possiamo dunque scegliere di rimanere in noi, vigili e presenti, accogliendo l’altro nel nostro spazio interiore, e per comprendere la sua emozione trovare quella stessa emozione dentro di noi. Allora la comprensione di ciò che è “altro da noi” smetterà di essere una competenza intellettuale e potrà diventare una relazione. Per fare ciò è necessario avere allenato e coltivato la nostra intelligenza emotiva, aver esplorato i nostri sentimenti e le nostre emozioni a sufficienza per poterli conoscere e ri-conoscere. Significa aver fatto esperienza di sensazioni che hanno lasciato nella nostra memoria una traccia, che possiamo recuperare, ricordare e rievocare. Il punto, quindi, non è domandarci: “Come mi sentirei al suo posto?” ma… “Quand’è che mi sono sentito così?”. Allora saremo in grado di attivare una comprensione così profonda da permettere all’altro di rispecchiarsi in noi, sentirsi capito, accolto, sostenuto, non giudicato. Per fare questo dobbiamo ascoltare il nostro mondo interiore, un ascolto aperto, onesto, totale.

È solo conoscendo noi stessi sempre più profondamente che potremo migliorare la nostra capacità di sentire, con ogni senso che abbiamo a disposizione, ciò che è fuori e diverso da noi.

In tutta onestà, possiamo credere che una donna possa mettersi “nei panni” di un uomo? Che un giovane possa riuscire a sentirsi un vecchio? O come ci si sente ad essere paralizzati, o cosa significa la morte di un figlio? La vita ci racconta anche che non tutti coloro ai quali è stato amputato un braccio o vivono nel lutto del loro grande amore provano le stesse emozioni e reagiscono allo stesso modo. Proprio per questa assoluta unicità dell’essere, per riuscire a comprendere l’altro è necessario sintonizzarci con la sua frequenza e cercare dentro di noi ciò che ci risuona.

Per esempio, siamo in grado di comprendere cosa significa vivere in un Paese in guerra? Più che pensare di metterci nei panni di chi ne fa ogni giorno esperienza diretta o disperarci per il suo dolore, potrebbe essere più efficace cercare dentro di noi quel dolore e farlo affiorare dalla memoria ai sensi, andarlo a pescare rimestando dentro lo spazio che riserviamo a ciò che non ci piace, che ci disturba, che rifiutiamo, allentando ogni resistenza auto-protettiva, e portarlo nel presente del nostro cuore. Solo se saremo così coraggiosi da renderci vulnerabili al dolore dell’ingiustizia e della morte potremo scegliere di disattivare i conflitti nella nostra vita quotidiana ed essere consapevoli del perché rifiutiamo la guerra. Solo così potremo essere realmente e fattivamente protettori della pace, che è una cosa molto diversa dal proclamarsi “contro la guerra”.

La meraviglia nell’allenamento di questa capacità si manifesta non solo nella qualità delle nostre relazioni sociali con altri esseri umani, ma ci apre alla capacità di connetterci con tutte le altre forme di vita, diventiamo potenzialmente in grado di ascoltare tutto. Prima che l’empatia venisse identificata come un’abilità nelle relazioni umane (disposizione alla comprensione dell’altro senza partecipazione emotiva e senza giudizio), venne coniata per esprimere la capacità della nostra immaginazione di cogliere il senso della natura o di entrare in profonda connessione con un’opera d’arte.

Come è possibile dunque raggiungere una profonda comprensione di qualcosa così diverso da noi, con qualcosa di non umano?

Rimanendo in noi. Dissolvendo ogni barriera e sovrastruttura, abbassando il volume della mente che ci parla in continuazione, scendendo in profondità e aprendo l’intuito, il più raffinato dei nostri sensi. Attraverso l’esperienza sensibile e l’intuizione possiamo dunque fare conoscenza dell’altro, prendendo consapevolezza nell’ascolto possiamo espandere la nostra capacità di sentire, partecipare e percepire. Perciò se volessimo, per esempio, capire cosa significa “essere albero” non dovremmo “diventare un albero”. Per capire cosa significa “essere radicato” non dobbiamo (fingere di) sentirci un albero o “come un albero”. È solo attraverso la reale conoscenza di cosa significa per noi, esseri umani con le gambe, nella nostra interezza e specificità, attraverso le nostre possibilità e capacità, attraverso le sensazioni e le emozioni esperienziate “dell’essere radicato” che possiamo comprenderne il senso e il valore, l’insegnamento, il messaggio, e finanche la guarigione che l’albero ci porta (che tra l’altro è diversa per ognuno).

È solo attraverso l’esercizio della fiducia incondizionata come esseri umani che possiamo condividere con l’albero la sensazione totale della certezza che la primavera arriverà e che pioverà abbastanza per farci sopravvivere.

Il potere di questa capacità risiede nel suo essere indipendente dal pensiero, dal controllo, dal giudizio e dal pregiudizio, e da molte altre forme di condizionamento, dalla moltitudine di interferenze che disturbano la chiarezza del messaggio che ci arriva quando ci sintonizziamo, quando ci connettiamo. La sua magia invece si manifesta nel rendere noi stessi in grado di comprendere anche ciò che apparentemente non ci assomiglia. Possiamo definirla una neutrale ma attenta e accurata forma di accoglienza. Questa capacità ci dispone ad una profondissima trasformazione rispetto ad un’abitudine limitante: raggruppare per similitudine, percepire il diverso come negativo.

Distinguere “noi” da “loro” è il principio di ogni conflitto. Per qualche motivo abbiamo coltivato la convinzione che essere inseriti in un gruppo di simili sia molto, molto meglio che riconoscere il valore della nostra unicità, e la divisione tra “questi” e “quelli” indebolisce tutti. Niente di tutto ciò ci aiuta ad essere più sani e felici.

Lo sappiamo ma in qualche modo veniamo distratti al punto di dimenticarci che la più grande ricchezza della Terra è proprio la diversità. Ciò che rende così unico e speciale il nostro pianeta nel panorama dell’universo conosciuto è proprio l’incredibile moltitudine di manifestazioni della materia e dell’energia (se proprio le vogliamo distinguere). Nella diversità stanno la forza e il potere, sia del singolo che dell’insieme. Dobbiamo fare pace con l’idea di essere unici, che non significa essere soli, e grazie a questo pensiero liberarci dal bisogno di sentirci necessariamente simili a qualcuno per poterci distinguere da qualcun altro e riconoscerci esclusivamente in un valore condiviso per poter acquisire senso. Noi donne, noi umani, noi orfani, noi animali, noi del gruppo 0+, noi onesti, noi italiani, noi consapevoli, noi, noi… voi, voi… ci piace tanto ma non ci rendiamo conto che raggruppando per similitudine, includendo qualcosa, escludiamo automaticamente moltissimo altro, e il sistema che usiamo per riconoscere la similitudine è molto spesso distorto e fallimentare, oltre ad essere incredibilmente limitante.

Prendo in prestito il termine “nio”1 che vuole creare un nuovo spazio di relazione tra “l’io” e l’insieme della diversità. Mantiene la qualità plurale del “noi”, non propone quindi una nuova forma di egocentrismo, ma cambia il paradigma con cui il “noi” si costituisce. Se “noi” è l’insieme di me con i miei simili, “nio” racconta la relazione che esiste tra me e ciò che diverso da me, porta con sé l’evoluzione della modalità con cui creiamo l’insieme di noi stessi con gli altri. Modifica il modo di percepire tutto ciò che ci circonda e ci apre la porta alla possibilità di comprendere, connetterci, sintonizzarci, ascoltare, sostenere ed essere sostenuti da qualunque cosa con cui entriamo in contatto. Sia a livello fisico che energetico. Ma questo può avvenire solo se diventeremo capaci di vivere con pienezza l’essere umani, allora potremo vivere la fierezza dell’albero, che mai si allontana dalla sua essenza, che costantemente manifesta il meglio di sé, per quello che è, senza dover essere qualcos’altro per rientrare in un gruppo esclusivo, per sentirsi parte di qualcosa… L’albero semplicemente manifesta il suo essere individuo e anche parte del tutto.

Nel nostro mondo la transizione da “noi” a “nio” sarebbe una grande rivoluzione. Questa piccola parola inventata di una sola sillaba che nella sua semplicità porta la ricetta di un’umanità nuova, di una società nuova, nella quale ogni individuo è unico (e oserei dire naturalmente funzionale) nel suo essere parte di una pluralità, infinitamente ricca e variegata, con la quale è profondamente e consapevolmente connesso.

Immaginiamola e costruiamola dunque questa nuova società. Il primo passo è desiderare di coltivare uno spazio, interiore prima di tutto, dove sintonizzarci e trovare l’armonia.

1 “Nio” (variazione della prima persona plurale “noi”) è la fortunata traduzione letterale dell’anglosassone “wi” (variazione di “we”, prima persona plurale) coniata da Christina Della Giustina, docente di Pratica di Ricerca Artistica Transdisciplinare presso la Slade School of Fine Art, University College di Londra, che da decenni si occupa di dinamiche della percezione e ricerca nuove forme di comunicazione ed espressione, con la quale condivido la grande passione per gli alberi.