Alla fine del XII secolo Filippo d’Alsazia, conte di Fiandra e marito di Elisabetta di Vermandois, nobildonna discendente dalla stirpe dei Capetingi, commissiona al poeta francese Chrétien de Troyes un poema, rimasto incompiuto, dal titolo Le Roman de Perceval ou le conte du Graal. Il protagonista, Perceval, decide di andare alla ricerca del Graal, senza neppure sapere con precisione cosa sia. Il giovane ha un sogno: vuole diventare cavaliere, pur ignorando la propria stirpe.

Sull’onda del successo ottenuto dal romanzo, dalla fine del XII all’inizio del XIII secolo, nel contesto storico-politico della I Crociata (1096), della nascita dell’Ordine dei Templari (1119) e del papa teocratico Innocenzo III (1198-1216) sono redatti altri cinque importanti romanzi di formazione individuale sul tema del Graal.

Commissionati dalla più alta aristocrazia filoimperiale di Francia, Germania, Svizzera e Italia le sei opere, collegate all’epica religiosa cristiana e riunite nel ciclo del Graal, rappresentano uno degli ultimi segni di vitalità della cavalleria errante che, appannaggio di famiglie nobiliari accomunate da propri codici e da proprie ritualità, era già in crisi alla fine del XII secolo. Ciò contribuisce a motivare nelle vicende narrate la presenza di aspetti pedagogici e catechetici, che costituiscono una sorta di viaggio iniziatico, di percorso interiore indirizzato a cavalieri mistici e solitari, impegnati nella consapevole scelta fra bene e male.

I racconti sul mito del Graal per un secolo, pressappoco dal 1150 al 1250, catturano l’attenzione di nobili e cavalieri, molto probabilmente proprietari di presunte reliquie, tra le quali forse anche il Graal. Costoro ne leggono l’avvincente storia, si entusiasmano ascoltando le gesta dell’intraprendente eroe e decorano le stanze dei palazzi con affreschi, tratti da scene descritte nelle opere.

Ben presto i testi, considerati un unicum del panorama storico-letterario occidentale, si diffondono nell’area bizantina e vengono tradotti in varie lingue, tra cui l’ebraico.

Le Roman de Perceval ou le conte du Graal diviene così uno dei primi di una lunga serie di scritti e film sulla preziosa reliquia. Basti pensare al dramma musicale Parsifal di Richard Wagner (1877-1882), al libro Il pendolo di Foucault di Umberto Eco (1988) e ai successi cinematografici Excalibur del regista John Boorman (1981), La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam (1991) e Il primo cavaliere di Jerry Zucker (1995).

Il Sacro Graal, però, come si evince dal volume Il racconto del Graal. Un mito universale fra storia, culture e simboli (Editoriale Jouvence, Collana Sophia, 2021), curato da Giacomo Maria Prati e Alessandro Coscia, non è solo un fenomeno letterario e cinematografico. Quest’argomento, considerato una sorta di sintesi di più tradizioni cristiane, apocrife, cavalleresche, nobiliari e devozionali, sta appassionando gli studiosi italiani dagli anni ’90 del XX secolo.

Una domanda regna sovrana: cos’è davvero il Graal?

Un recipiente sacro, un oggetto vangelico, simile ai manufatti raffigurati nei preziosi mosaici del VI secolo che ornano la basilica di San Vitale a Ravenna? Oppure per Graal potrebbe intendersi un’entità immateriale, una luce soprannaturale, una sorgente di sapienza, un nutrimento spirituale o corporale? Di certo si tratta di una reliquia diversa dalle altre, una reliquia metamorfica, che appare e scompare come e quando vuole, a suo piacimento. Una reliquia che l’essere umano non riesce a controllare. Questa caratteristica, tra le sue peculiarità, è forse quella che da secoli attrae maggiormente studiosi specializzati, curiosi e appassionati che intravvedono nella ricerca del Graal sia una sfida intellettuale che la narrazione di un’evoluzione interiore.