Era così un tempo per
signori e signore, avendo
la stoffa d’Atlante,
vestendo la mappa del
mondo, un bellissimo
viaggiare.

(Angelo M. Piemontese, L’atlante di seta)

La potente idea già introdotta e sfruttata nell’antichità, che vesti, veli e mantelli si prestassero perfettamente a veicolare immagini didascaliche e metafore geografiche dell’“universo cosmo”, in qualche modo oggi curiosamente riaffiora con tratti prepotenti nei disegni e negli splendidi tessuti della stilista-artista contemporanea Elisabeth Lecourt. Questo è ovviamente solo un nome tra i tanti possibili. È istintiva la domanda: è semplicemente una “moda” effimera questa, oppure si è di fronte al prodotto di una potente reminiscenza ancestrale, l’inebriante essenza di una densa e antica visione intellettuale distillata dall’inesauribile creatività umana che si riattualizza? Semplici corsi e ricorsi storici? Può essere, anche se s’intuisce esistere qualcosa di più. Per cercare una risposta a queste domande, gli studi portati avanti in questi ultimi due decenni dagli scriventi sulla storia della cartografia antica, in una certa qual misura possono curiosamente tornare utili aiutando a capire un po’ di più i termini non sempre chiari della questione.

Per inquadrare il tutto iniziamo con un po’ di storia. L’utilizzo della materia tessile come supporto dove poter fissare in modo intelligibile su di un piano bidimensionale la complessità rappresentativa di uno spazio tridimensionale, il “cosmo terreno” in questo caso, attraverso le solide coordinate di una trama e di un ordito, è antico. Molto. Si trattava di una callida competenza governata da abili mani di donne che, applicate instancabilmente ai loro antichi telai verticali, con sapiente lavoro diuturno riuscivano a materializzare la configurazione del Mondo per come si conosceva1. Strabone d’Amasya (64 a.C. - 20 d.C.), storico e geografo tra i più importanti dell’Antichità nei diciassette libri della sua autorevole e vasta opera Geographia, descrive più volte il mondo conosciuto, asserendo che questo sia una grande isola e che:

… lo schema dell’ecumene abbia forma di clamide è assolutamente chiaro, dal momento che le estremità orientali e occidentali si rastremano a ugnatura, battute dall’Oceano, e diminuiscono di larghezza …

La configurazione di questa grande isola che è il mondo conosciuto è ben specifica e ben specificata. Strabone, nel passo citato estratto dal Libro II, utilizza un termine preciso per descriverne la sagoma. Il geografo amaseno adotta il vocabolo clamide. Il significato del vocabolo clamide, in greco “sopravveste”, equivale a pallio, mantello. Il capo d’abbigliamento in discorso in effetti era un corto mantello rettangolare con il lato minore semicircolare, indossato dagli antichi guerrieri greci tessalici. Dalla descrizione fatta da Strabone sembra potersi leggere in filigrana un modus pensandi ancorato ad una tradizione antica, dove l’elemento tissutale si combina e si fonde con il modulo geometrico utilizzato per rappresentare su un piano bidimensionale (la mappa mundi), le coordinate sferiche tridimensionali ricavate misurando in qualche modo il globo terrestre reale (il globus mundi)2.

Lo schema raffigurativo tanto preciso della clamide riferito alla sagoma dell’ecumene che Strabone riporta, si direbbe affiorare da un lessico simbolicamente visionario già ben codificato e quindi noto, anzi, addirittura usuale all’epoca. Non è affatto insensato ritenere questo lessico “pallioforme” una precisa koinè, un potente linguaggio comune legato ad un procedimento, un algoritmo geometrico vero e proprio, quasi l’applicazione di una prassi, giacché tramandata, di fatto si ritroverà utilizzata ancora nel XVI secolo per identificare precisi manufatti cartografici come, ad esempio, quelli realizzati basandosi sulla prima proiezione di Claudio Tolomeo. Tali peculiari rappresentazioni cartografiche saranno definite proprio come “appamondo a mantelino”.

Ora, anche ad un livello di retroscena al momento originario dell’“atto divino creatore” vero e proprio, azione cosmica sovrannaturale che secondo il mito creato dal potente pensiero greco darà forma, plasmerà e ordinerà la matrice amorfa, indefinita e caotica del globo terracqueo primordiale, si ritrovano ben chiari gli stessi principi calibratori, si riconoscono le stesse identiche linee guida, peraltro governabili esclusivamente mediante il tessuto “pallioforme” ordinatore, che caratterizzano questo specifico modus pensandi. Il primigenio atto fondante in discorso è la conquista, è la scoperta, è l’agnizione, è il momento in cui il demiurgo manifesta a se stesso l’opera finita in ogni suo dettaglio. È il passaggio dall’amorfa Ctoniae, alla più ordinata ed armoniosa Gea: è la cosmogonia, la genesi della Terra che si posiziona nello spazio e nel tempo secondo l’ordine prestabilito dalla divinità suprema. È solo da questo punto, di qui in poi, che per l’Uomo la “materia terrestre” diventa riconoscibile e localizzabile fisicamente nello spazio e di conseguenza nel tempo. È il nomos, legge “relativa”, circoscritta creata dall’Uomo, che si contrappone alla physis, legge naturale “assoluta”, universale che accomuna e coinvolge ogni cosa. Disparate rappresentazioni catturano questo momento forgiante, che riporta ad antichi topoi. Sono luoghi, meglio, archetipi mentali presenti in quasi tutte le tradizioni arcaiche, da quell’egiziana a quella persiana fino a quella greca appunto.

A tal proposito l’episodio che più ha destato curiosità attirando la nostra attenzione, è l’elaborazione mitopoietica lasciataci dal filosofo presocratico Ferecide di Siro, pensatore greco attivo nel secolo VI a.C. Le sue peculiari riflessioni sono raccolte nell’opera cosmografica La caverna dei sette anfratti. Il racconto descrive l’azione sacrale molto suggestiva e particolare, tecnicamente una “ierogamia”, che sancisce la mistica unione nuziale tra Zeus e Ctoniae. È il potente avvenimento ierogamico ad originare, scandire e consacrare il necessario nuovo ordine cosmico. In sostanza la divinità suprema incontra Ctoniae, ossia la forma primordiale di quella che sarà la futura Terra. In questo primo momento Ctoniae è ancora un ingrediente del tutto informe e sconosciuto della realtà, è completamente da plasmare e da identificare. Zeus le depone quindi sulle spalle un mantello ricamato (la clamide appunto) coprendola (dal latino cooperire, ricoprire, velare, proteggere), conquistandola, meglio, acquisendola giuridicamente3.Il mantello impiegato da Zeus nel rito ierogamico è proprio il “tessuto del mondo”, è la mappa mundi originaria dove, per la prima volta compaiono, rappresentate nella loro esatta collocazione, le terre, i monti, i mari e le città:

…per lui fanno le case, molte e grandi. E dopo che le ebbero portate a termine, tutte, assieme ad arredi e a servitori maschi e femmine, e a tutte le altre cose necessarie, ecco, quando tutto risulta pronto, fanno le nozze. E quando giunge il terzo giorno delle nozze, allora Zas fa un manto grande e bello, e su di esso intesse in vari colori Terra e Ogeno e il palazzo di Ogeno … volendo invero che le nozze siano tue, con queste ti onoro. Ma a te salve da me, e tu con me congiungiti. Ecco come furono per la prima volta – dicono – i riti del disvelamento: da ciò prese poi origine la consuetudine, sia per gli dèi sia per gi uomini. Ed ella gli ribatte, ricevendo il manto da lui…

La sacralità del manto cosmico, giacché maneggiata dal dio supremo, che plasma la materia tridimensionale, abbinata al pragmatismo del ricamo geografico ovviamente bidimensionale, nella narrazione di Ferecide si carica di potenti quanto profondi significati cosmogonici. La funzione del pallium mundi qui è duplice. Permette sia di avvolgere la massa terrena informe di Ctoniae assegnandole una realtà immanente strutturata e distinta, sia di fissare certificandolo per sempre, il risultato del cruciale processo formativo ordinatore che Zeus ha materializzato. In questo modo la grezza e caotica spazialità sferoidale acquisirà, attraverso l’omaggio onorifico del pallium mundi ordinatore, le sembianze ben orchestrate, cosmiche (dal greco kosmos, ordine), di Gea, ossia della Madre Terra. Sono i tratti cosmogonici di una profonda metamorfosi, quelli che curiosamente ci accompagnano nel comprendere, ed è ciò che a noi interessa, l’origine del termine mappa mundi. In effetti, per “mappa” qui s’intende il concreto, solido supporto tissutale dove collocare il “mundi”, che per ovvie ragioni diviene imago, ossia l’immagine bidimensionale rappresentativa ideale del mondo tridimensionale che si conosce e che si vuol far conoscere. L’imago mundi tracciata sul manto avvolgente Ctoniae, diventa pertanto anche uno strumento pedagogico ideale. Diventa l’apparato illustrativo che collima perfettamente con la precedente struttura ancestrale proto – cosmica di Ctoniae, ormai ridotta a semplice intelaiatura sferoidale di supporto, ma che al contempo espone chiaramente anche la nuova realtà elargita e configurata dal manto che l’avvolge. L’imago mundi plasmata dal manto, dal pallium, per Ctoniae ha un’ulteriore duplicità funzionale.

In effetti, se il manto da un lato consente, guardandolo, l’esplicita divulgazione dell’informazione in esso contenuta, dall’altro lato permette con certezza l’identificazione, l’agnizione giuridica, sia di quanto rappresentato sia ovviamente del supporto stesso su cui poggia fisicamente la rappresentazione. È, in definitiva, solo mediante la complessa manovra di copertura da Zeus concretizzata, solo mediante il trasferimento materiale delle coordinate bidimensionali della trama e dell’ordito del manto, la mappa, sulla tridimensionalità del globo terracqueo, il mundi, che tutto questo può accadere. Ecco allora che il “manto del mondo”, il pallium mundi, con tutto il suo portato simbolico viene così ad assumere tecnicamente una configurazione prospettica tangente, se non proprio sovrapponibile, a quella proiezione geometrica di sviluppo cilindrico utilizzata dal Mercatore nel secolo XVI, per realizzare le sue magistrali opere geografiche. Le ricche visualizzazioni simboliche, cosmologiche e cosmogoniche contenute nella narrazione di Ferecide, però, non si esauriscono certo qui. Il fondante mito ierogamico delle nozze tra Zas e Ctoniae è, infatti, recuperato anche da Diogene Laerzio (ca.180 d.C.-240 d.C.):

Zas orbene e Tempo furono sempre, e Ctonie: ma a Ctonie toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono.

Clemente Alessandrino (150-215 d.C.), ecclesiastico greco profondamente intriso di pura spiritualità neoplatonica, substrato mistico-culturale questo, ripreso nel secolo XV proprio a Firenze da Argiropoulo, Cusano, Ficino, Pico della Mirandola, nei suoi Stromateis, curiosamente traducibile proprio con “tessuti”, riecheggia poi lo stesso mito:

…un pharos grande e bello, e in esso raffigura Ge e Ogeno e le case di Ogeno…4

Clemente inoltre, nello stesso passo, accenna alla figura di una sacra quercia alata, il terebinto, pianta simboleggiante la sapienza vergine, la “prisca sapientia”, e la misericordia5. È su questa pianta che, secondo Clemente, viene disteso il particolare mantello ricamato a tema cosmografico. L’indicativo accenno clementino sottolinea come il pallium mundi, il mantello cosmico del mondo, sia da un lato un dispositivo quasi tecnico che con la manovra del coprire conferisce legittimità giuridica all’acquisizione compiuta, ma per altro verso sia anche, questo mantello, ed ha certo maggior peso questa di riflessione, uno spazio sacro esso stesso. La dimensione del sacro, la “sacralità” spaziotemporale è conferita all’emblematico supporto tissutale cosmografico del mantello dal tocco del terebinto. È solo nel momento in cui viene deposto e disteso entrando in contatto con i rami della quercia alata che, infatti, il pallium mundi diventa ben altro accedendo ad una dimensione cultuale superiore, solenne, mistica, quasi divina. In sostanza con quest’ostensione rituale sacralizzante, per proprietà transitiva che muove dall’albero sacro al mantello, si passa da un semplice, se si può dir così, universalis pallium mundi al cospetto di un più articolato, elevato, mistico e ultraterreno universalis “sacrum” pallium mundi.

La condizione di sacralità mistica, si ribadisce, è ottenuta proprio solo grazie alle potenti valenze metafisiche, liturgicamente soprannaturali possedute dall’albero sacro, che le trasmette al tessuto consacrandolo con un semplice tocco. Ma c’è dell’altro. Il movimento “fisico” del pallio cosmografico che dalla raccolta posizione avvolgente sulle spalle di Gea, si apre passando alla sistemazione dispiegata, quasi vela di vascello, sui rami del sacro albero alato del terebinto, rimanda ad una peculiare configurazione, sempre contestualizzabile nell’ambito del sacro, riscontrabile però in epoca molto più tarda. Si tratta della stessa sagomatura dei manti osservabile in peculiari rappresentazioni cristiane medievali. Le rappresentazioni in discorso sono quelle inerenti alle Madonne misericordiose, che aprendo le loro braccia comunicano inequivocabilmente al fedele implorante un segno esclusivo di protettiva, materna e misericordiosa accoglienza. Questo segno inequivocabile è lo spazio consacrato ed inviolabile demarcato proprio dal sacro manto disteso. Si possono trovare così Madonne deputate ad indossare sulle proprie spalle sacri mantelli stellati semicircolari, i piviali, le cui valenze si trasformano e dall’essere “solo” requisiti misericordiosi, diventano poderosi principi cosmici universali.

Un esempio chiarificatore è la Madonna effigiata per la famiglia Vespucci nella chiesa d’Ognissanti a Firenze, dal pittore fiorentino Domenico Bigordi (Firenze, 1448-1494), più conosciuto come Ghirlandaio. Il profilo del sacro manto tracciato dal Ghirlandaio per Maria è chiaramente, infatti, come abbiamo ampiamente dimostrato nei nostri studi, lo stesso profilo stabilito dal Waldseemüller per la famosa carta del mondo redatta a Saint-Diè-des Vosges Domenica 25 Aprile 1507, dove per la prima volta compare il nome A.M.E.R.I.C.A. Ora meglio si comprende il portato, il denso valore mistico e misericordioso attribuito dai cristiani cattolici al sacro mantello mariano dispiegato. Nel caso specifico diventa la cornice, lo spazio sacro, meglio, il contenitore sacro e sacralizzante ideale entro cui collocare a protezione e dedica il contenuto, ossia il Nuovo Mondo, risultato dell’evento epocale e universale qual è stata la sua scoperta. È il misericordioso disegno provvidenziale di Dio che ha consentito che ciò accadesse, poiché: “È Gloria di Dio nascondere la cose, è gloria dei Re investigarle e scoprirle”, come scritto in Proverbi 25-2. A questo punto è evidente che il ruolo di cornice, di spazio sacro assunto dal manto mariano, alluda anche al verosimile movimento meccanico del velamento e del disvelamento, che questo consente. Detto questo è opportuno, ora, riprendere il filo… del discorso precedente sul significato etimologico del termine mappamondo. Un significato come si avrà cura di leggere tutt’altro che scontato. Quando per un qualche svariato motivo ci troviamo di fronte ad un oggetto sferico, un globo per essere chiari, sul quale vi siano rappresentante delle terre emerse e delle distese d’acqua, ecco che subito scatta in ognuno di noi, dal bambino all’adulto, quel curioso meccanismo mentale, del tutto errato, che ci fa immediatamente ed immancabilmente denominare l’oggetto tridimensionale sferico in questione, mappamondo. Niente di più sbagliato. Niente di più scorretto. Niente di più abusato. Niente di più lontano dalla precisa realtà semantica che il termine mappamondo sottende ed identifica. In effetti, il vocabolo da utilizzare correttamente in questo caso, come il pragmatismo anglosassone insegna, è proprio solo quello di “globe”, “globo”. Il lemma giunge a noi direttamente dal latino: globus ovvero grumo, accumulo, ammasso tondeggiante, zolla da cui “gleba”, termine con cui si indica anche il glomus ossia il gomitolo, quindi una palla, una sfera. Poiché, sarà banale a dirsi, pleonastico fin che si vuole, ma è proprio di sfera tridimensionale che si tratta quando si ha per le mani una rappresentazione in scala della Terra. Crediamo che almeno su questo si sia tutti d’accordo.

Ripartiamo dunque dal vocabolo in questione, ossia mappamondo. Il termine innanzitutto andrebbe scomposto nelle sue due componenti fondamentali: mappa, che da sempre significa tessuto, tela, tenda, fazzoletto, mantella, tovaglia, e mondo, locuzione che veicola l’idea di visione, di raffigurazione dello spazio dove la Natura ha prodotto cause ed effetti e dove la storia dell’Umanità ha potuto snodarsi. Cerchiamo quindi l’origine semantica di questo vocabolo. Orbene, un primo riferimento ci giunge da Marco Fabio Quintiliano, oratore, maestro di retorica, mecenate di Plinio il Giovane, di Giovenale, di Tacito e di Svetonio. Non uno qualunque insomma. Quintiliano, in effetti, compose trattati che influenzarono profondamente i letterati e i pensatori medievali. Nei suoi scritti, Quintiliano sottolinea che: “…mappam circo quoque usitatum nomen Poeni sibi vindicant…”6.

Si deve assolutamente ricordare che i Fenici, o Punici che dir si voglia, antica popolazione semitica canaitica, erano rinomati per la produzione e la lavorazione di stoffe pregiate, oltreché essere considerati esperti navigatori. Dunque Quintiliano considera il termine mappae una voce lessicale punica, mph. Il vocabolo cananaico, i fenici in effetti erano di lingua semitica cananaica, si sostantiverà nel mondo latino con lo sventolare un fazzoletto, mappae ossia tovagliolo appunto, come segnale d’avvio dei giochi circensi tanto cari ai romani. Si tratta pertanto di un semitismo linguistico che poi Catone rimanda a Mapalia, antico quartiere di Cartagine, citato anche da Agostino. Nel medioevo dunque questo genere di contaminazioni lessicali semitiche arcaiche e arcaicizzanti, entrano a far parte stabilmente del repertorio idiomatico di estrazione latina. Si tratta di parole che in genere si ricavano proprio da neologismi tecnici genuinamente marinareschi. Questa in estrema sintesi è l’origine del vocabolo mappamundi, ossia mappamondo, e di come è giunto fino a noi. Da evidenziare che in passato questa voce non era di sicuro stravolta nel suo significato originario. Oggi però non è più così. Soprattutto perché in passato i valori semantici trasmessi dalla lingua latina erano ben chiari, scanditi, limpidi. Vincolanti. Siamo noi, oggi, che probabilmente abbiamo perso l’abitudine di considerare importante il significato originale delle parole, quel significato pregnante attribuito dall’esperienza degli antichi ad ogni parola coniata. Il più delle volte dunque i concetti semantici sottesi a lemmi particolari vengono indebitamente, proditoriamente, stravolti da una sorta di arroganza o convenienza (che non è meno deleteria), o superficialità intellettuale del tutto moderna. Questa breve disamina del vocabolo mappamondo, ci riporta quindi ad una sua più reale, semplice e consona lettura: il mappamondo è esclusivamente la rappresentazione su tessuto, ossia su un supporto piano bidimensionale originato da una trama e da un ordito, dell’immagine tridimensionale del mondo.

Per estensione, quindi, il mappamondo è la raffigurazione della trama e dell’ordito del Mondo. Meglio ancora, il mappamondo è la rappresentazione dell’ordinamento del Mondo su di un materiale, il tessuto, che esiste poiché la sua struttura è realizzata proprio da un reticolo ordinatore prodotto dalla trama e dall’ordito dei fili che lo compongono. È logico ritenere che prima di concepire e mettere in atto un simile quadro concettuale, gli antichi sapienti dovettero gioco forza rifarsi ad un linguaggio metonimico già sperimentato e comprensibile. È linguaggio antico sì, ma efficace e perfettamente in grado di legittimare il modo per ancorare e ordinare la narrazione didascalica da preservare e trasmettere, in questo caso il disegno stesso del Mondo, ossia l’oggetto della descrizione, ad una sola parola. È l’esaltazione della sintesi. Per far ciò i pensatori antichi dovettero individuare anche il supporto fisico migliore che consentisse la riuscita, vuoi per le fattezze, vuoi per la versatilità, vuoi per l’utilizzo, di questi specifici intenti. Per far in modo che la rappresentazione di questa visione cosmica funzionasse, il supporto scelto doveva possedere una griglia, una trama, una rete ben definita dove poter ancorare graficamente il contenuto della narrazione della “Storia del Mondo”. Questa operazione quasi demiurgica era possibile mediante il reticolo tissutale. Il tessuto, dopo diversi tentativi realizzati prima con l’argilla e poi col papiro e poi con altri materiali, si rivelò il mezzo più idoneo su cui ricamare, è il caso di dire, tale complessa espressione intellettuale. Ora, nel cercare un percorso il più lineare possibile al fine d’individuare le reali ragioni sia semantiche sia semiotiche della coesistenza dei due vocaboli utilizzati nel medioevo come quelli appunto di mappa e mappa mundi, si deve tener presente che:

…la mappa mundi medievale di tradizione europea consegnava all’osservatore un sapere geografico e cosmografico codificato, preciso. Il termine stesso mappa doveva significare in origine una copertura per celare con una superficie l’imperscrutabile segreto della creazione. Forse è proprio per questo che alcune delle più antiche mappae vennero dipinte su pezzi di stoffa, o di vello tosato di pecora per poi essere appese come drappi nelle chiese. A tale proposito la filologia può aiutare la geografia nella comprensione dei meccanismi percettivi che possono aver portato ad uno slittamento semantico del termine latino mappa, ovvero Tovaglia, parola d’origine mediterranea, inizialmente usata per designare un panno anch’esso per ricoprire la nuda tavola. Un nesso semplice e profondo allo stesso tempo, ricodificato in un messaggio geografico forte che andava simbolicamente scandendo la vita umana sulla Terra: dai mappamondi micronizzati nei capilettera dei salteri a quello, gigantesco, appeso nella cattedrale di Hereford sopra l’altare orientato ad est, spazi condensati da cui partire per identificare e collocare anche se stessi rispetto all’intricato e complesso mondo circostante7.

La definizione corrente del termine “mappa” tratta dalla più autorevole enciclopedia italiana, la Treccani, riporta poi, che:

Mappa: sinonimo generalmente di panno o di tovagliolo, spesso confuso con il mantele, tovaglia con cui, finito di mangiare, si asciugavano le mani lavate, il mantele col tempo andò a confondersi con la mappa. Dalla metà circa del I secolo dopo Cristo, le mappae saranno di colore purpureo o dorato con ricami riproducenti cibi e vivande; saranno rappresentate anche in alcuni affreschi pompeiani. Le case degli antichi Romani erano ben fornite di tovaglioli; nei palazzi imperiali esisteva uno speciale servizio, a mapis, per la loro confezione e custodia. La mappa era anche utilizzata negli spettacoli circensi: era di colore porpora, con lo scopo di eccitare gli animali. Era l’imperatore stesso a dare il segnale dell’inizio dei giochi col gesto di gettare un panno nell’arena. L’atto era sottolineato con l’espressione mittere signum, ma da Nerone in poi si disse anche mittere mappam. Con il cristianesimo la mappa entra a far parte delle complesse e teatrali funzioni liturgiche. La tovaglia e il tovagliolo sono utilizzati come elemento di purezza nella liturgia cristiana, sia per avvolgere le mani che devono toccare oggetti sacri, sia per ricoprire l’altare e gli oggetti riposti sopra. La parola mappa, infine la troviamo usata dagli antichi agrimensori romani, proprio per designare ogni rappresentazione grafica di una qualsiasi zona di terreno comunque vasta8. È proprio da questo utilizzo che nella bassa latinità viene coniato il termine mappamundi. Il termine richiama quella peculiare iconografia didascalica atta, grazie alla sua forza giuridica persuasiva e educativa, a mostrare all’impero e ai suoi sudditi quale fosse l’assetto vigente dell’orbis terrarum a cui all’epoca tutti si dovevano scrupolosamente attenere. Anche nell’antica cultura cinese troviamo l’usanza altrettanto antica di riportare su tessuto le raffigurazioni geografiche. È del III secolo a.C., in effetti, la prima indicazione di una rappresentazione geografica cinese. Il manufatto descrive la topografia del distretto di Tu – Khang. La mappa geografica è dipinta su di un rotolo di seta. È qui del tutto evidente come il disegno topografico si connetta sinergicamente alla trama e all’ordito del supporto, facilitando così la lettura del territorio. L’espediente consente di sfruttare al meglio quella che è una vera e propria rete di coordinate di latitudine e longitudine di riferimento create dal tessuto serico stesso. Queste direzioni denominate in cinese ching per il Nord – Sud e wei per Est – Ovest, originariamente significavano proprio rispettivamente la trama, ching, e l’ordito, wei, di un tessuto.

Grazie agli esempi fin qui riportati, si comprendono forse un po’ meglio le reali ragioni d’interconnessione tra i due termini mappa e mondo esaminati, all’apparenza tanto distanti semanticamente tra loro. In questa prospettiva, si deve considerare il curioso cambio di paradigma che ha coinvolto il termine mappa. Questa parola, come si è visto, in origine indicava domini semantici di natura, per così dire, schiettamente tessili. Con una metamorfosi kafkiana inaspettata si è nondimeno passati dal parlare di seta alle carte geografiche. Ora, la seta è materia tissutale lucida e morbida esattamente come l’atlas, ovvero il raso, tessuto di cui abbiamo già trattato nei nostri studi9. Atlas è un termine, anche questo, legato ad un’antica tradizione artigianale tessile turco-araba, che gioca con espressioni come stirare ovvero lisciare che in arabo suona shaftlan. Altre indicazioni ci giungono poi dal turco antico, lingua che per indicare il verbo cavalcare utilizza il termine atlan. Scomposto si ottiene: at (cavallo), e ala (manto pezzato). Si tratta di suoni di linguaggi antichi che seppur modificandosi nel tempo, hanno mantenuto tuttavia la ratio del significato originario, ossia tessuto, tessuto liscio, pelle.

Esattamente come per il termine mappa, anche atlas può cambiare contesto. Ecco allora che il lemma identificativo dei trattati rinascimentali di geografia, di astronomia, di anatomia, diventa atlas, l’atlante, il sussidio per la raccolta sistematica di carte inerenti a diverse discipline. Invero il temine atlas ha origine proprio dalla lingua greca, e non turco-araba, legato com’è al mitico re titano della Mauritania appunto Atlas. Di riflesso atlas lo ritroviamo nella parola Atlantide e in quella di Atlantico, tutti elementi questi che trovano uno stringente collegamento con l’acqua o con il mare, superficie a volte liscia e riflettente i raggi solari e lunari.

Non è un caso, pertanto, che la parola mare in greco si traduca proprio con thalassa, che richiama fortemente il suono del termine atlas essendone quasi l’anagramma perfetto. Ora ritornando al mondo arabo scopriamo che il termine simile a thalassa, ossia taylas, è utilizzato per identificare un tessuto, una tenda. È nuovamente termine omografo del greco thalassa, la parola araba taylasân che però anche in questo caso sembra non aver nulla a che fare con riferimenti marini. La parola in discorso indica, ancora una volta, un manufatto tessile, più precisamente si tratta di un cappuccio di tessuto nero (il colore dinastico abbaside) lungo fino alle spalle distintivo degli oratori e dei giudici arabi. Il termine taylasân è riconducibile poi al nome dell’antica provincia persiana di Talishan, nella regione del Ghilan, dove nel medioevo si sviluppa un’eccelsa produzione di manufatti serici. Non basta giacché taylasân torna a richiamare il mondo della cartografia e quindi anche del mare, come segnalato dallo studioso Angelo Michele Piemontese10, perché in ambito geografico arabo s’intendeva, proprio con questo termine, la raffigurazione di profili cartografici delle coste marine. Ora, tornando all’uso dei geografi cinesi di realizzare mappe topografiche su un supporto di mappe tissutali di seta, abbiamo l’esempio del geografo Phei Hsiu (267 a.C) che per tracciare le sue mappe topografiche ricorre ad un’ottantina di rotoli di seta bianca e liscia. Sotto questa luce la mappa si può semplicemente intendere dunque come tessuto, ma anche, ad un livello di lettura più profondo, come descrizione e ordinamento del mondo. Secondo le ricerche e gli studi di Patrizia Licini de Romagnoli, professoressa, ricercatrice e storica, questi concetti andavano a ricadere sulla stessa figura dell’imperatore cinese attraverso il suo abito che agiva da elemento di connessione e allo stesso tempo di separazione tra cosmo celeste (orbis) e cosmo sub-lunare terrestre (orbis terrarum). Era un vero e proprio portale d’accesso o d’uscita per diversi livelli dimensionali sia terreni sia ultraterreni:

Anche l’abito imperiale giallo dei draghi (long pao), con il suo repertorio decorativo, è una completa rappresentazione del cosmo. Nella parte inferiore si vedono le onde dell’acqua, dalle quali emergono le montagne Kunlun, centro dell’intero universo nella cosmologia cinese, la parte superiore dell’abito rappresenta invece lo spazio celeste cosparso di nuvole variopinte. Questa veste dei draghi manifesta pienamente il suo significato nel momento in cui viene indossata: il corpo umano incarna infatti l’axis mundi, mentre l’apertura superiore dello scollo e la testa rappresentano rispettivamente la porta celeste, estremo limite del corpo fisico, e il dominio spirituale al di là di esso12.

Questo straordinario quanto rivoluzionario ribaltamento concettuale, tuttavia, non è esclusivo della sola cultura cinese. Si può ancora individuare, infatti, a fondamento di una parte sostanziale della tradizione culturale greca, non fosse altro per il fatto che Atena/Minerva è il nume tutelare della tessitura. È proprio Atena, di fatto, almeno secondo il mito greco, la creatrice dell’attività tessile. Testimonianza ci giunge così da Sibari, una tra le più fiorenti delle antiche colonie della Magna Grecia. Sybaris, città fondata intorno alla fine del secolo VIII a.C. in Calabria, si affaccia sull’attuale Golfo di Taranto. Dalla sua lunga storia emergono possibili contatti con la Persia, all’epoca sinonimo di lusso, attraverso il monumentale himation, mantello purpureo realizzato con molta probabilità in lino e seta su richiesta del dignitario Alcistene, che lo dedicò ad Hera, per le celebrazioni annuali della stessa. La più che generosa lunghezza di questo manto, raggiungeva i sei metri e mezzo, la tintura integrale in porpora genuina, l’inserimento di pietre preziose e perle per la sua decorazione, frutto di un programma decorativo straordinariamente ricco ed elaborato, hanno consentito di conservare memoria dell’eccezionale manufatto tessile13. È proprio la decorazione di questo mantello straordinario ad essere per noi interessante, giacché su di esso erano ricamate, oltre alle divinità in consesso, le capitali di Susa e Persepoli, insieme alla città di Sibari. Si trattava, invero, di un mantello geografico, di un atlas, a tutti gli effetti. Giungiamo infine a parlare della tradizione latina, di un mito molto noto per molti aspetti. Si tratta della narrazione che ha per protagonista Proserpina, la versione latina appunto di Persefone. Tralasciando il suo rapimento e tutto quello che ne consegue, è interessante soffermarsi su di un aspetto forse poco focalizzato, ma per noi importante in questo studio. Il mito narra che Venere, accompagnata da Minerva e Diana, per ubbidire alla volontà di Giove che a sua volta cede alle pressanti richieste del fratello Plutone di avere una sposa, si reca nella reggia di Cerere, dove trova la figlia di questa, Proserpina, intenta a tessere un peplo, dono per la madre. Le scene che Proserpina ricama con perizia sul peplo sono proprio raffigurazioni di soggetto geografico - cosmologiche. Il peplo, abito unicamente femminile, in questo caso è divino non solo perché tessuto da una dea, ma anche, se non soprattutto perché, in quella rappresentazione tessile l’intenzione espressiva di Proserpina manifesta in tutta la sua potente evidenza la celebrazione ideologica della teodicea garante dell’ordine del mondo, del kosmos, così come stabilito dalla volontà degli Dei14. Sono, questi, i criteri estetici di armonia, ordine e ideologia “classici”, condivisi da Proserpina e di riflesso dall’autore della narrazione, Claudio Claudiano, poeta e senatore romano (ca. 370-404 d.C.)15. Con questo accenno il cerchio, o meglio, il manto si chiude. Il supporto tissutale, veste o mantello che sia, diviene pertanto anche lo strumento, il portavoce di quei complessi significati cosmologici elaborati dall’Umanità nel tentativo altrettanto complesso di razionalizzare l’atto primordiale del passaggio dal disordine pre - cosmico, all’ordine cosmico. Il supporto tissutale segnala e rende sacro il passaggio dal kaos al kosmos. Il profondo intento didascalico donatoci da Ferecide di Siro attraverso la sua mitografia pallioforme, mette in evidenza questi imprescindibili presupposti che da sempre sono parte integrante di una ratio, di una ideologia che struttura la simbologia e l’iconografica di tutte quelle mappae mundi medioevali giunte fino a noi, e forse non ancora del tutto comprese nella pienezza della loro straordinaria complessità.

Ci piace chiudere lo studio con quanto riportato nella Bibbia, a conferma della pervasività concettuale della stoffa in genere come tessuto dell’Universo Mondo:

Anima mia, benedici il Signore. Signore, mio Dio, tu sei veramente grande; sei vestito di splendore e di maestà. Egli si avvolge di luce come di una veste; stende i cieli come una tenda.

(Salmi, 104: 1-2)

Note

1 Miti costruiti sull’argomento sono innumerevoli e di origini antichissime. Basti pensare all’Egitto Antico, all’importante figura costruita intorno alla primordiale dea tessitrice Neith, passando per la dea Atena per arrivare ai miti di Aracne, Proserpina di cui ci occuperemo diffusamente più oltre nello scritto, fino all’omerica Penelope, per approdare nei territori della cristianità con Maria “la tessitrice”, titolo molto caro alla tradizione delle Chiese orientali, con Efrem, diacono siriano attivo nel IV secolo, che esalta proprio questa peculiarità mariana.
2 Di queste terminologie, ossia “mappa mundi” e “globus mundi”, ci occuperemo dettagliatamente più avanti nello studio.
3 Si deve necessariamente qui richiamare a proposito di mantelli che ricoprono e che giuridicamente acquisiscono, sia per contesto sia per significati sottesi, su tutte la straordinaria opera del Botticelli nota erroneamente come Nascita di Venere, già da noi ampiamente trattata in altri studi cui si rimanda per completezza d’informazione.
4 Propriamente come il krēdemnon, il pharos, nella Grecia Antica è un ampio telo di rivestimento che ricopre integralmente qualcosa o qualcuno, come affermato nei testi classici di carattere mistico o iniziatico.
Da ricordare senza dubbio in simile contesto il mitico “Vello d’oro”, conquistato da Giasone e dagli Argonauti, anche questo dispiegato su di una quercia sacra.
6 “…I Fenici rivendicano anche il nome di una mappa del circo in uso (presso di loro)…”.
7 Patrizia Licini, “Una via del tappeto come motivazione al viaggio in Oriente”, in Momenti e problemi della geografia contemporanea, pp. 377-378, Roma, 1993. È banale ricordare che ancora oggi si parla di “mappe catastali” per indicare porzioni di terreni o immobili, senza dimenticare la più recente “mappatura” genetica.
9 Per i nostri studi, oltre ai numerosi articoli di carattere divulgativo, si consigliano i testi: A.M.E.R.I.C.A. 1507. La genesi del Nuovo Mondo, LiberFaber, Monaco, 2014; Speciale America, L’Universo, maggio-giugno, n° 3/2016, Istituto Geografico Militare, Firenze. Si consiglia inoltre il sito di divulgazione scientifica: Academia.edu, dove sono riportati tutti gli articoli da noi scritti sull’argomento.
10 Piemontese, A, M. (2019). L’atlante di seta, L’uomo; società tradizione sviluppo 3.
11 Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina: la matematica e le scienze del cielo e della terra, vol. II, Meteorologia e Scienze della Terra, Torino 1986.
12 Patrizia Licini, Op. cit., p. 380.
13 Aristotele nei Mirabilia ne fa una descrizione dettagliata.
14 Con il termine “teodicea” s’intende la giustizia di Dio, degli Dei in questo caso, che interviene per stabilire l’ordine corretto delle cose.
15 Il mito di Proserpina è riportato da Claudiano nel suo poema incompiuto De raptu Proserpinae.