Se ogni obiettivo fosse centrato, se ogni desiderio venisse esaudito, se ogni affinché ottenesse un giorno la ricompensa di una corona dorata, non saremmo esseri umani. La vita è alternanza e dondolamento, la vita è la terra di mezzo tra l’ordine e il caos, la vita è insieme centro e circonferenza, mappa e labirinto.

Anche Ulisse, di fronte alla promessa di eternità che gli aveva rivolto Calipso, ha preferito volgere le spalle all’isola di Ogigia: pronunciando molti ahimè, si è diretto verso il mare, consapevole delle turbolenze che lo attendevano. Lì, proprio lì, tra i flutti, tra le altezze delle onde e le profondità dei gorghi, si dispiega la nostra umanità: un po’ sorrisi, un po’ ferite, qualche scoppio di entusiasmo, qualche frustrazione che in primo luogo è afflizione per le speranze andate deluse.

Invano, a vuoto, frustrato

Come l’otre che potrebbe contenere l’olio e invece si scopre vuoto. Come il forziere che avrebbe dovuto essere ricolmo del tesoro e invece è gravido d’aria. Così è il sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia vano. Aspirazioni o buoni propositi finiti alle ortiche, questa la premessa della sensazione di frustrazione.

Frustrazione è delusione ma è in primo luogo percezione di inanità, un vuoto che non riempie, una mancanza. Empty, dicono gli inglesi per esprimere la vuotezza, cioè, in origine, privo di piacere. Fiasco nell’ambiente dello spettacolo ha il significato di ‘insuccesso’ ma il fiasco è in prima istanza un recipiente in vetro di forma ovale. Esibire quel recipiente vuoto simboleggia lo smacco subito, la disfatta, il fallimento e la successiva frustrazione.

La speranza frustrata è proprio così: manchevole, svuotata, scarica, priva del suo compimento. Il verbo latino frustrāre voleva dire ‘mandare a vuoto’, ‘rendere vano’, propriamente ‘illudere’, ‘ingannare’. Suo progenitore è l’avverbio frūstrā, che significava ‘invano’ e più esattamente ‘in errore’, ‘senza fondamento’, ‘senza ragione’, ‘senza motivo’, ‘senza un perché’. I tanti “senza” ripetuti come mantra restituiscono l’idea del vuoto, della mancanza, della carenza, di qualcosa che non c’è.

L’avverbio frūstrā ha la stessa radice del sostantivo femminile fraus che sempre in latino voleva dire ‘inganno’, ‘truffa’, ‘insidia’. Per gli antichi romani questa Fraus era diventata una dea, la Frode, la stessa dea che per gli abitanti di Atene si chiamava Apátē, figlia della Notte e di Erebo, l’Oscuro, il dio degli inferi.

Ecco, la frustrazione è un sentimento notturno che esprime una mancanza e che è connesso con l’idea dell’oscurità e dell’inganno. Le persone si sentono frustrate perché la loro mente era stata prima ingannata, portata con la frode a pensare che quel progetto fosse realizzabile, che quell’obiettivo fosse raggiungibile, che quelle tenebre potessero essere scacciate dalla luce. La frustrazione è vuoto e buio quanto più la pienezza e la luce si erano espanse.

“Non ci può essere profonda delusione dove non c’è un amore profondo”, era il pensiero di Martin Luther King, premio Nobel per la pace nel 1964 e leader del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

“Beato chi non si aspetta nulla, perché non sarà mai deluso”, argomenta prudente Alexander Pope, poeta del primo Settecento inglese.

La frustrazione subentra nel momento in cui la mente si rende conto di essere stata raggirata, comprende il passo falso compiuto, diventa consapevole della frode subita e del vuoto che si è squadernato in seguito a ciò. In questo, la frustrazione è un sentimento umano. Ha scritto Anna Freud, psicanalista e figlia del padre della psicanalisi Sigmund: “Se qualche desiderio non viene esaudito, non stupirti. Si chiama vita”.

Delusioni, speranze tradite senza più giochi

Le delusioni aprono i nostri occhi e chiudono i nostri cuori. Agiscono così, lasciando qualche ferita sulla superficie dell’anima, mentre gareggiano per farci crescere in consapevolezza. Le delusioni, insieme beffarde e scherzose, si divertono a correre veloci sui prati della nostra maturità. Le delusioni sono il modo con il quale le situazioni concrete del nostro instabile transito terrestre giocano a scacchi con le nostre ambizioni eccessive. Le delusioni sono il modo in cui la vita stessa si prende gioco di noi.

La parola delusione è intrisa di scherno e intrattenimento. In delusione fa capolino il lūdus, cioè il ‘gioco’ dei romani. Deludere e illudere conservano la struttura di quel lūdus nel loro corpo atletico: sono due coppie di opposti che si respingono sul piano della vita.

L’illusione, ossia l’effetto dell’in- ludere, cioè del portare dentro il gioco, viene temporalmente prima. In un momento antecedente, veniamo chiamati a fare la nostra puntata, a lanciarci nell’esercizio, a scommettere sul divertimento e sul premio collegato al giocare.

La delusione, ossia l’effetto del de- ludere, si appalesa quando da quel gioco siamo allontanati, quando veniamo condotti fuori dall’arena, quando mastichiamo la polvere della terra avendo letto la grande scritta game over sullo schermo delle nostre illusioni.

Prima in-, poi – talvolta – de-. Prima la vita ci lusinga con il gioco delle tre carte portandoci dentro, poi (non sempre, grazie agli dei) ci respinge con il supporto di uno o più compari collusi facendoci capire che abbiamo scommesso sulla carta sbagliata. È troppo tardi per non avvertire il bruciore del gioco finito male, della delusione che ci devasta le viscere e del ludibrio a cui ci sottoponiamo.

Del resto, quell’antico gioco, quel lūdus che germoglia nella lingua italiana, oltre che in deludere e illudere, lo rinveniamo proprio nella collusione che è intesa clandestina e fraudolenta, nel ludibrio che è ‘scherno’ e ‘derisione’, nella disillusione che della delusione è davvero sorella.

Il latino lūdus a sua volta ha parenti arcaici: lo possiamo confrontare con il verbo greco antico loidoréō, che significava ‘insultare’. Proprio questo confronto tra il gioco e l’insulto, tra il giocare e il divertimento con l’uso del linguaggio indica che la motivazione originaria del ludere era il ‘gioco verbale’. Con le parole giochiamo, qualche volta illudendoci di averle capite, qualche altra patendo la delusione di non averle comprese ancora abbastanza.

Diceva Jane Austen, l’autrice inglese di Orgoglio e pregiudizio e di Ragione e sentimento: “È comunque una vera fortuna avere qualcosa ancora da desiderare. Se tutto fosse perfetto dovrei aspettarmi sicuramente qualche delusione”.

Quando la frustrazione nasce dal disincanto

La frustrazione spesso trae origine dal disincanto. Che non è solo disillusione. Né solo delusione. Nel disincanto sopravviene il silenzio, tutto tace, l’assenza di voce tronca le comunicazioni. Il disincanto è la cessazione di uno stato d’incantesimo. Le persone disincantate sono ormai prive d’illusioni sonore. Il disincanto è l’opposto dell’incanto, come la delusione è l’opposto dell’illusione.

Chi affascina incanta. Chi sa cantare il canto della vita possiede il segreto dell’armonia delle note che rendono gradevoli l’esistenza. In latino incantāre voleva dire ‘recitare formule magiche’, da cantāre, verbo che indicava la ripetizione di canĕre, ‘cantare’, con il prefisso di luogo in-. Quando siamo disincantati, non ascoltiamo più la melodia della vita, le nostre orecchie non sono predisposte ai suoni. Al contrario, quando ascoltiamo la canzone che ci fa battere il cuore, proprio quella che sai, il disincanto cessa, l’incanto si riappropria di noi, riaffiora l’illusione di nuove melodie esistenziali. Sul pentagramma delle nostre esistenze si alternano sempre il sommo incanto e l’infimo disincanto, canzoni e silenzi, note tintinnanti e strappi lungo i bordi disegnati a matita dal compositore più alto.

Insoddisfatti e inappagati, senza pace

Le persone che vivono nella frustrazione sono insoddisfatte e inappagate. Insoddisfazione è sentimento di intima scontentezza, profonda, interiore, un sentimento dovuto talvolta a cause provenienti dal proprio comportamento e talvolta vago e indefinito, perché senza cause apparenti. Insoddisfazione è mancanza di soddisfazione, la percezione che manchi sempre qualcosa, la convinzione che non ce ne sia abbastanza.

Al tempo dei romani antichi, uno dei modi di dire abbastanza era satis. Questo avverbio ha lasciato la sua traccia in alcune parole italiane: lo troviamo in assai, in saturo, in saziare e anche in soddisfare che è composto di satis, ‘abbastanza’ appunto, e făcĕre, ‘fare’. L’insoddisfazione è non averne abbastanza, non essere sazi, avere ancora piacere nel ricevere dell’altro.

L’essere inappagati significa essere in qualche misura tormentati, agitati, non aver pace. L’appagamento è figlio di appagare a sua volta discendente di pagare. Il nonno di pagare era il verbo latino pacāre, che significava ‘pacificare’, ‘rendere quieto’, ‘portare la pace’, verbo derivato appunto da pāx, pācis che per i romani era la ‘pace’. Pagare ha acquisito il significato di ‘pacificare col denaro’, ‘rendere quieti i creditori’ e quindi ‘pagare’. Quando paghiamo qualcuno, diamo del denaro in cambio di una prestazione o di una merce ma in primo luogo scambiamo un gesto di pace. Quando siamo appagati, questo gesto di pace lo scambiamo con noi stessi.

Nel Convivio, Dante Alighieri (III-XIII-5) ci spiega: “L’umana natura, fuori de la speculazione de la quale s’appaga lo ’ntelletto e la ragione, abbisogna di molte cose a suo sustentamento”. Petrarca aggiungeva: “Un sol dolce penser l’anima appaga”.