Provo sempre un qualche imbarazzo quando qualcuno mi chiede una definizione di complessità. Il problema è che ogni definizione ne coglie solo un aspetto parziale. Le definizioni sono tutte buone, e tutte insufficienti. Per la complessità vale quanto Sant’Agostino disse a proposito del tempo: “Che cosa è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so.”

Quando sono messo alle strette, me la cavo parlando dell’arte della tessitura. La tessitura è un’arte che risale alla notte dei tempi. Forse è la prima manifestazione della capacità dell’Homo Sapiens di progettare uno strumento complesso. Il telaio primitivo, visibile in un affresco egizio di 5000 anni fa, è un dispositivo ingegnoso nella sua essenzialità: solo quattro aste di circa un metro e mezzo. Due aste sono disposte parallelamente a terra a una distanza di circa due metri e fissate con quattro pioli. Tra esse sono tesi i fili paralleli dell’ordito. Le altre due aste servono per separare i fili pari da quelli dispari, e per alzarli e abbassarli alternativamente.

Il tessitore solleva i fili pari dell’ordito e nello spazio intermedio lancia un pezzo di legno a forma di navetta che trascina il filo della trama. Quindi solleva i fili dispari e rilancia indietro la navetta. Realizza così l’intreccio tra ordito e trama che forma il tessuto. In cinquemila anni i movimenti sono rimasti gli stessi: la differenza è che oggi sono automatizzati.

Questa descrizione dell’arte della tessitura non è un ozioso esercizio di stile, perché è da essa che ricaviamo la nostra idea della complessità. Il trait-d’union è la lingua latina. Il termine “ordito” deriva dal latino ordo, che significa “file parallele”. Da ordo deriva orditura col significato di struttura. Il termine trama deriva da trames, che, col significato di via traversa, designa il percorso oscillante del filo agganciato alla navetta. Il doppio movimento su e giù dell’ordito e verso destra e sinistra della trama è indicato dal verbo plecto, che si traduce intrecciare. Tenere insieme qualcosa mediante un intreccio (cioè col plecto) è indicato dal verbo complector, che vuol dire anche stringere, coinvolgere, comprendere, afferrare e abbracciare. Infine, il participio passato di complector è complexus, col doppio significato di tenuto insieme mediante un intreccio e abbraccio.

Dunque, da almeno duemilacinquecento anni, cioè da quando comincia a formarsi la lingua latina, il mondo occidentale utilizza il termine complexus, e uno dei suoi derivati nelle lingue moderne (complesso, complexe, complejo, complexs, complex, komplex, complexo), per indicare qualcosa che è tenuta insieme mediante un intreccio.

L’idea dell’intreccio tra un ordito (struttura) e una trama (percorso) implicita nel concetto di complessità è molto più che una semplice suggestione linguistica. Ordito e trama ci guidano, spesso inconsapevolmente, nel fare esperienza di una realtà complessa.

Consideriamo, ad esempio, il dipinto di Hieronimus Bosch, Il Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio del 1505. Qual è l’ordito (cioè la struttura) del dipinto? Chi ha un po’ di familiarità con i sistemi complessi sa che ogni sistema complesso è organizzato in livelli. Ad ogni livello appaiono nuove proprietà, non riconducibili in modo semplice alle proprietà dei livelli sottostanti. Nel caso del dipinto di Bosch riconosco almeno cinque livelli:

  • il primo livello è il trittico nel suo insieme, che rappresenta la lotta vittoriosa del santo con le forze del male;
  • il secondo livello è costituito dai singoli pannelli: nel pannello di sinistra il santo abbraccia la vita eremitica; nel pannello centrale il santo è assediato dalle forze del male; nel terzo pannello il santo raggiunge la pace spirituale;
  • al terzo livello vi sono vi sono gli episodi più significativi della vita del santo. Ad esempio, nel pannello di sinistra compaiono quattro scene. Nella prima in alto, il santo è trasportato in cielo dai diavoli. Al centro, il santo sfinito per gli attacchi dei demoni è sorretto dai confratelli. A destra un falso vescovo indica a dei viandanti l’ingresso di una grotta formata da un gigante accovacciato. Sotto al ponte vi è la quarta scena: diavoli che pretendono di giudicare il santo per i suoi peccati di gioventù;
  • al quarto livello vi sono i singoli personaggi, umani e demoniaci, ognuno con i propri tratti distintivi;
  • infine, al quinto livello l’abbigliamento, l’atteggiamento, le forme e i colori con cui sono rappresentati i personaggi.

Questo è l’ordito. E la trama?

La trama è una delle possibili narrazioni che potrei sviluppare girovagando tra i cinque livelli. Ad esempio, potrei cominciare la mia narrazione dal diavolo accusatore cha appare in basso nel primo pannello: un messaggero gobbo che porta infilato nel becco d’uccello un documento, su cui si legge protio abbreviativo di protestatio, atto di accusa. Questa figura-diavolo è un concentrato di simboli che ci precipitano direttamente nella mentalità medievale, dove credenze popolari, immagini metaforiche e modi di dire proverbiali rendono eloquenti le immagini.

Il diavolo è colui che divide, dal verbo greco diaballò, dividere e anche calunniare. Il diavolo calunniatore cammina sul ghiaccio, quindi, in accordo col significato popolare di “camminare sul ghiaccio”, si tratta di un’accusa inconsistente e fragile. Il rametto secco che spunta dall’imbuto-cappello ci dice che il diavolo opera dove la grazia è prosciugata e non fa più fiorire la vita (è la traduzione visiva del modo di dire “essere un ramo secco”). L’immagine ci dice anche quali sono le cause dell’inaridimento della spirituale del santo. È il desiderio della carne, segnalato dalla pallina rossa che, oscillando appesa al rametto, agisce come un richiamo senuale alla voluttà e al piacere. È l’incontinenza, che riduce il corpo e la mente a un imbuto che voracemente ingoia tutto senza alcuna discriminazione.

Potrei continuare la trama citando i passi della Bibbia da dove sono tratte le immagini metaforiche, oppure potrei raccontarvi di quelle orecchie da bassotto del diavolo, o del significato dello stemma con l’immagine di un compasso, che sembra alludere a una corporazione che complotta contro il santo? Ancora, potrei chiedermi del perché il diavolo è gobbo, o del perché la sua giubba è di colore rosso.

Ma mi fermo qui, perché avete compreso che molte trame sono possibili. Nessuna trama esaurirà la descrizione del dipinto. La possibilità di una molteplicità di narrazioni è la ricchezza segreta di una esperienza complessa.

Ma è una ricchezza in cui potrei perdermi. Quale narrazione scegliere? Come orientarmi in questa selva di storie possibili?

Ce lo svela un secondo dipinto, La Merlettaia di Jan Vermeer, del 1669-70. Una scena di una semplicità disarmante. Una giovane donna concentrata sul proprio lavoro. Non c’è niente di grandioso, solo un piccolo gesto perfetto, in cui riconosciamo attenzione, cura, intimità, calore.

Vermeer usa la luce per costruire l’emozionante unità della scena. Un identico chiarore caldo e diffuso illumina il volto, le mani e la stoffa: una luce senza un’origine precisa, che assorbe e trasfigura.

Il dipinto ci invita a condividere il tranquillo piacere che la giovane ricamatrice prova nel gesto che fluisce senza intoppi, abbracciando con la propria opera il mondo esterno delle cose. E ci avverte: la ragione, di cui siamo tanto orgogliosi, ci fa credere che possiamo scrivere trame nel mondo evitando di abbracciarlo. Ci fa credere che possiamo continuare a tormentare il mondo chiamandoci fuori, estranei, padroni, tiranni. Ma è follia. Le trame che hanno veramente senso sono quelle che tengono conto del secondo significato di complexus, quello di abbraccio. Ciò che dobbiamo imparare a fare in questi tempi complessi è imparare, con l’aiuto della ragione, a costruire un mondo che si tiene insieme mediante abbracci.