Se avessi incontrato il tuo sguardo senza parole, se avessi camminato lungo quella via polverosa incurante del fastidio profondo che sentivano i miei occhi nel cercare di socchiudersi dietro le lenti scure.

Se non fossi stato avvolto dal profumo delle mele cotogne mentre procedevo sul sentiero che porta al piccolo corso d’acqua; se non mi fossi riparato sotto la quercia durante il temporale, se non fossi entrato in quella Biblioteca per lasciarmi inebriare dall’odore dei libri che si sprigionava da ogni pagina come per incantesimo.

Se avessi vissuto ogni istante, ogni giorno come uno splendido regalo della Sorte, se avessi accolto la vita come un fascinoso giro di danza.
Se fossi arrivato alla mia casa sulla collina e in quel luogo fossi rimasto per sempre a guardare il mare.

Se non ci fosse quel “se” a ricordarmi quante volte la mia risposta avrebbe potuto essere un’altra.

Non è proprio facile fare a meno delle piccole parole che, come minuscoli oggetti preziosi, costellano le frasi quasi senza che ci accorgiamo della loro presenza, del loro essere indispensabili alleati delle parole dal grande destino.

È incantevole lasciarsene ammaliare, seguirne il segno e immaginare una traiettoria che le unisce come stelle a tracciare un firmamento nel quale, per una volta, tutto lo spazio appartiene ai non protagonisti.

Osservo con tenerezza queste creaturine che si appoggiano con grazia e determinazione a parole ancor più piccole come quel “per-ché” che apre l’urna delle più sofisticate fantasie per inondare di risposte i tanti dubbi che tengono la nostra mente prigioniera della curiosità.

Come “ossia” che, con la sua nobile risonanza, sembra possedere la capacità di elargire precisione e chiarezza e di dare alle compagne di frase la certezza che tutto sarà detto al meglio, anche se la sua prestanza è messa a dura prova dall’”ovvero” che ostenta la sua modernità.

Eccolo il “” con il suo bell’accento, il sì che avrei voluto lasciarmi sfuggire con un suono acuto, con la voce tintinnante, con la certezza di aver detto molto più di ciò che tante frasi avrebbero potuto dire.
Un può spalancare un fantasmagorico universo di pensieri felici o confermare una notizia che non avremmo voluto ricevere.
Un cambia il corso degli eventi, un ha segnato per sempre il mio essere ciò che sono.

Mai” è intrigante, talora pericoloso, lascia spazio all’inganno, alla promessa non mantenuta. Può risuonare delicato e colmo di certezze come la frase pronunciata al momento di salutare chi non vorrebbe partire.
Sa rassicurare ma riserva sorprese, sa farsi notare: come se sapesse che nel suo piccolo corpo sta racchiuso il segreto del tempo.

Senza quel “qui” il mio ricordo avrebbe perduto lucentezza, non avrebbe conservato la visione intensa suggerita dalla piccola freccia, accanto ad un cuore, ad indicare un delizioso terrazzino ornato di gerani rossi affacciato sul lago nel quale nuotano bianchi ed eleganti cigni: una cartolina senza data.

È “” che ci siamo riconosciuti in quel tiepido settembre quando “già” le foglie accartocciavano i ricordi lasciando negli occhi i colori di altre stagioni.

È un bell’esercizio quello di inseguire congiunzioni, interiezioni, articoli, monosillabi, insomma i deliziosi punti che contribuiscono a formare le linee del dire; guardarli apparire come piccole luci ad illuminare un codice che descrive un’altra storia e sconfina in trame di significati che oltrepassano la comunicazione per entrare nel territorio del visionario.

Se in una pagina congiungiamo come a formare una costellazione tutte le parole di una o due sillabe faremo scoperte straordinarie su come i loro suoni giochino ad accoppiarsi, a congiungersi, ad inseguirsi.

Ci accorgeremo che sono loro a creare l’architettura che regge la costruzione di tutte le altre parole considerate più significanti.

Oh!” che gioia può catturare questa vocale quando s’accompagna al sospiro che attraversa la gola dopo aver percorso il cammino del cuore che ne sente l’emozione.

Poi” accadrà di nuovo, poi ci sarà ancora tempo per essere felici, poi ritroverò il luogo della mia storia che porto stampato dentro di me. Il poi è ascolto del divenire, il poi sospende il reale: per un istante il futuro pare presente e restiamo aggrappati a quella possibilità, poi tutto muterà e sarà di nuovo primavera, poi incontreremo il nostro sogno ma sarà già passato.

Così” ho potuto comprendere una verità rimasta sconosciuta, così ho intrapreso il mio viaggio senza darmi una meta “” un ritorno, così ti ho visto in quel caldo pomeriggio senza sole ed abbiamo oltrepassato il confine dei ricordi, così ora so quale sia il cammino.

Prendersi il tempo di osservare queste esili figure sistemate e protette nelle pagine di un libro è come gustare il piacere di guardare e scoprire gli oggetti esposti in una vetrina di cose preziose tra i quali si possono trovare meraviglie di ogni tipo che hanno bisogno di essere estratte dallo spazio che le racchiude per poterne avere visione, percezione, per toccarne la raffinata corporatura, quasi in una carezza che ne percorre i contorni e ne evoca il passato.

È un modo per riscoprire come l’infinitesimo, l’invisibile entrino nel ritmo della nostra vita senza che ci soffermiamo a coglierne l’esistenza.

Mi tornano alla mente le suggestioni tratteggiate da Edmund De Waal nel suo bellissimo libro intitolato Un’eredità di avorio e ambra che ho da poco ricevuto in dono.
Ne è stata la lettura appassionata a suggerirmi questa analogia tra le piccole parole e i piccoli oggetti d’arte che a fine Ottocento, durante la grande stagione del Japonisme, abbellivano le case dei parigini amanti della raffinatezza e del lusso.

In apposite, sofisticate vetrine si conservano objets di ogni dimensione e foggia: piccole tabacchiere smaltate, scatole di lacca, ma anche “minuscoli ninnoli di avorio, di lacca, di madreperla che rivelano negli artisti giapponesi una fantasia portata alla creazione di bijoux-joujoux lilliputiens gioielli-giocattolo lillipuziani” e soprattutto netsuke, i piccoli talismani di legno, osso, corno e avorio, vere e proprie opere d’arte in miniatura.

Si afferma un nuovo modo di rapportarsi agli oggetti:
“… la vetrina è fatta per essere aperta e quell’anta di vetro che si apre, il momento dello sguardo e poi della scelta, della mano che affonda e delle dita che stringono … be’ è un momento di seduzione, un incontro elettrico fra mano e soggetto”.

E non è forse questa ebbrezza sospesa, questo desiderio pulsante che ci prende quando voltando la pagina di un libro cerchiamo di vedere ciò che vogliamo sapere, sentire, le parole che ci vengono incontro per farsi scegliere e magari sottolineare o annotare?

Anche in un libro, se estraiamo dalla pagina-vetrina le sillabe che attraggono il nostro sguardo potremmo provare sensazioni simili a quelle suscitate dal tocco dei netsuke.

“… le cose hanno bisogno di uscire, correre i propri rischi senza lo scudo protettivo dell’esposizione formale, hanno bisogno di essere liberate“.

Come, dietro il vetro, le cose rischiano di soffocare, di morire, così anche le parole hanno bisogno di essere guardate, toccate, ritrovate, scoperte, girate e rigirate tra le mani per osservarne i più intimi particolari, per assaporarne la scrittura, per farle nostre e creare con loro un legame.

Rovistiamo anche noi tra pensieri, ricordi, suggestioni, accenti per trovare le forme capaci di dar loro voce, di entrare in confidenza, di conoscersi e riconoscersi.

Liberiamo anche le parole, portiamole fuori da schemi e schermi che le tengono prigioniere, private del rapporto con i sensi, come il tatto, quando scorriamo con il dito la riga che ci attrae o ne segnaliamo l’importanza con un segno, diverso pe ognuno, o la lasciamo in compagnia di un segnalibro che ci sta molto a cuore.

Leggiamole ad alta voce per udirne le vibrazioni, condividiamole, guardiamole nel loro manifestarsi come creature magiche di cui salvare la forza e la bellezza.

A cura di Save the Words®