Dopo la laurea in Antropologia, ho svolto un anno di Servizio Civile presso Casa per la Pace, un'associazione di Milano che utilizza la nonviolenza come pratica principale e quotidiana per capovolgere la violenza strutturale della realtà, attraverso la facilitazione, la formazione, il teatro sociale, l’azione nel territorio con iniziative in rete locali e globali.

Dal 2018 lavoro nell'ambito Comunicazione e Marketing di Italianway, società milanese che si occupa di property management e ospitalità in ambito turistico.

Dal 2012 faccio parte dell'associazione Naga dove nel corso degli anni ho dato il mio tempo e il mio contributo su diversi ambiti: attività di sportello presso il Centro Naga Har per richiedenti asilo, rifugiati politici e vittime della tortura per offrire assistenza legale e sociale; organizzazione e gestione del corso di formazione per l'ingresso di nuovi soci. Dal 2018 sono parte del consiglio direttivo e presidente dell'associazione.

Un autoritratto che parli di lei.

Difficile autodefinirsi. Sono nata in Argentina e sono arrivata in Italia, precisamente a Milano, quando avevo tre anni. Ho seguito un percorso di studi umanistico e mi sono laureata in Antropologia Culturale con una tesi sul concetto di straniero e di come questa sia una categoria che viene costruita e cambia nel tempo.

Quali incontri ed esperienze l’hanno spinta ad appassionarsi alla tutela dei diritti umani?

Credo un punto di partenza sia stato proprio l’essere italo-argentina, l’appartenere contemporaneamente a due mondi. Questa mia doppia appartenenza, questa mia doppia identità, mi ha naturalmente spinto, da un lato ad appassionarmi di mondi diversi conviventi sullo stesso territorio e, dall’altro lato, a sentire come infondata la parola straniero e a battermi per le ingiustizie su di essa basate.

Perché ha scelto di impegnarsi proprio nel “Naga”?

Durante gli anni dell’università, cercavo un posto laico e che mettesse insieme ideologia, pensiero, riflessioni e l’agire quotidiano. L’ho trovato al Naga.

Che significa Naga?

Naga, serpente a sette teste della mitologia indiana, simbolicamente arrotolato intorno al monte sacro e trattenuto alle due estremità dagli dei della porta del Sud e dai demoni della porta del Nord, in modo da far ruotare il mondo frullando il mare fino ad ottenere l’ambrosia, alimento dell’immortalità. Il serpente, il principio stesso della vita; colui che anima e che conserva; che non cessa di srotolarsi di sparire e di rinascere; che è veleno e cura; che è maschio e femmina; che sostiene e avvolge la creazione in un cerchio continuo che ne impedisce la sua distruzione. Archetipo fondamentale legato alle origini della vita e dell’immaginazione, il serpente conserva in tutto il mondo le valenze simboliche apparentemente più contraddittorie. Le più positive di esse, anche se accantonate in un momento della nostra storia, ricominciano ad uscire dalla dimenticanza e riguardano l’invito del serpente a ridare armonia e libertà a tutti gli uomini, soprattutto a quelli a cui sono negati i diritti fondamentali.

Può sintetizzare la storia e le finalità dell’associazione?

Le parole del nostro fondatore Italo Siena sintetizzano le nostre finalità e il nostro agire: “Un’associazione fa delle cose concrete, non siamo né un partito né un sindacato e non dobbiamo sostituire pezzi di Stato mancante… Il volontariato deve trovare nuove ricette, coprire zone d’ombra, sperimentare, praticare e fare luce su fenomeni nascosti…”. Da più di 30 anni l’associazione si occupa infatti di assistenza socio-sanitaria e legale di cittadini stranieri e si batte per l’emersione di nuovi diritti e la difesa di quelli già esistenti.

“Idealismo radicale e pratiche quotidiane” è la filosofia dell’associazione.

Sì, è esattamente questo. Tutti i giorni dal 1987. Le nostre attività, infatti, non hanno mai solo una finalità di agire concreto ma sono spesso il punto di partenza, un osservatorio privilegiato, per elaborare riflessioni e nuove pratiche rimanendo sempre indipendenti e coerenti con i nostri principi.

È stata scelta come presidente del “Naga”: cosa si aspettano da lei?

Al Naga sono tutte le volontarie e tutti i volontari, attraverso la nostra assemblea, a determinare le nostre scelte di principio che, poi, prendono vita, nelle nostre attività quotidiane. Come presidente e come consiglio direttivo non abbiamo un ruolo esecutivo, ma più di “guardiani del recinto”, ovvero di tutela e protezione dei valori fondativi dell’associazione.

Naga è costituita soprattutto di volontari: che cosa li spinge a fare questa scelta?

Ogni volontaria e ogni volontario ha le sue motivazioni e sono le più diverse. Ciò che ci accomuna, tutte e tutti, è un forte senso di giustizia e una forte volontà di autonomia e indipendenza.

Il volontariato femminile ha sue specifiche connotazioni?

Non credo proprio! Ogni volontario e ogni volontaria ha le sue motivazioni, la sua disponibilità, il suo modo di entrare in relazione e il suo modo di farsi contaminare dalle storie che incontra. E questo ciò che connota ogni esperienza, indipendentemente dal genere.

Come la pandemia ha inciso sul vostro progetto?

Come Naga abbiamo dovuto gestire diversamente i nostri spazi e sviluppare nuove procedure. È stato complesso, a tratti difficile, ma l’impegno e la determinazione delle volontarie e dei volontari ha permesso al Naga di esserci sempre.

Qual è il vostro rapporto con le istituzioni?

In primis di indipendenza e poi di dialogo o di contrapposizione a seconda degli obiettivi specifici che portiamo avanti.

Come giudica la sensibilità del “milanese medio” verso i problemi dell’immigrazione?

Sicuramente viviamo in una società all’interno della quale il fenomeno migratorio, invece che essere approcciato come un fenomeno naturale della storia dell’umanità è stato affrontato come un’emergenza ed ha subito un processo di criminalizzazione devastante sia a livello istituzionale che di opinione pubblica. Anzi, proprio la criminalizzazione istituzionale ha portato alla creazione di sentimenti discriminatori e razzisti nella società. Come Naga però riceviamo spesso attestazioni di stima e un forte sostegno e questo ci fa pensare che oltre al razzismo diffuso esista anche un’umanità diffusa…

Quale itinerario consiglierebbe per visitare luoghi e istituzioni che, nel bene o nel male ci diano un’idea di chi vive ancora ai margini della città?

Sconsiglierei un itinerario, un turismo, della-marginalità! Ne consiglierei, invece, uno dentro sé stessi per interrogarsi su che cosa suscita, dentro di noi, l’incontro con “la differenza” per provare poi a decostruire i pregiudizi e le paure con i quali tutte e tutti noi cresciamo.