Immaginiamo molto più di quello che troviamo scritto in un romanzo. Questo è il cuore di ciò che voglio dire in questo elaborato. Lo metto subito all’inizio per timore di scrivere questo articolo senza riuscire a cavar un ragno dal buco e fare, come si suol dire, un buco nell’acqua. È un timore molto persistente, quando si scrive qualcosa, anche in chi da parecchi anni pratica l’attività di scrivere romanzi, racconti, saggi… Nel testo Il gusto di saltare le pagine ho affrontato, sebbene in toni leggeri e con una prosa, benché piacevolissima, da letteratura di consumo (mi rammarica che – a causa del discorso sul ballo in maschera accennato nell’articolo La pelle originaria – i miei romanzi non sempre presentino uno stile così gradevole) il timore che da lettori si prova a smarrire il filo della narrazione mentre il libro è in corso di lettura, perdersi, non raccapezzarsi e finire per non capirci più un’acca; ma questo timore è poca cosa paragonato a ciò che si prova quando anziché leggere si cerca di buttar giù uno scritto di proprio pugno.

Bisogna avere ben chiaro che cosa si vuol dire, altrimenti si arriverà a un punto in cui tutti gli sforzi profusi per mettere nero su bianco qualcosa di decente, per comunicare, trasmettere, costruire un ponte con il lettore andranno a ramengo e semplicemente si dovrà buttare tutto quanto a mare: tempo sprecato, energie esaurite… Scrivere può essere un’attività parecchio frustrante quasi quanto concimare un terreno nella speranza che il maltempo non rovini i raccolti o ci sia la siccità o qualche nuovo, strano parassita quell’anno non si presenti all’appello.

Dunque, onde evitare di dimenticare per strada la cosa che mi preme realmente dire, al di là di tutti i giri su e giù che potremo fare insieme sulle montagne russe della mia immaginazione nel corso di questo bref essai – non dimenticando quanto detto nel lavoro La mia libreria ossia che l’immaginazione può essiccarsi molto più di quanto crediamo: ed è per questo che nei prossimi paragrafi si troverà sì un’immaginazione elastica ma senza dubbio omogenea - metto questa cosa subito in chiaro all’inizio: immaginiamo molto più di quello che troviamo scritto in un romanzo allorché lo leggiamo. L’immaginazione non è confinabile. Non è contenibile.

So quello che dico.

Al mattino sorseggiando un fumante caffelatte entro nella stanza dove stanno allineati sugli scaffali della mia personale libreria di casa i libri che ho letto in anni e anni. Non di rado sembra di entrare in una enorme voliera. I libri svolazzano da tutte le parti come una banda di pennuti impazziti. Usano la copertina e il retro-copertina come ali, sbattendole velocissime e le pagine girano in continuazione di qua e di là per via degli spostamenti d’aria.

Ecco il volume del Faust di Goethe scontrarsi davanti ai miei occhi stupefatti con Frankenstein di Mary Shelley. Non appena entrano in contatto i due libri spiraleggiando nell’aria cascano a terra. Poi sbatacchiano di nuovo le copertine e si rimettono in volo. 1984 di George Orwell si posa su un mobile. Sogni e discorsi di Quevedo si appiccica come un insetto all’anta di un mobiletto antico. Non so come accada che le copertine fungano da ventose permettendo al libro di vincere la forza di gravità, ma così vedo succedere con i miei stessi occhi.

Alcuni libri strisciano a terra con un movimento leggermente sussultorio come un’orda di esseri di forma parallelepipeda – e tra questi il volumetto Canti Pisani di Pound. L’opera omnia di Arthur Rimbaud mi svolazza attorno come un uccellino, mentre i libroni di Bibbia e Divina Commedia mietono vittime al loro passaggio scontrandosi e facendo precipitare sul pavimento altri libri più piccoli. Di solito, mi siedo alla scrivania e osservo la scena senza dire una parola sorseggiandomi il mio caffelatte. Sì, sono stupefatto, ma in fondo ci sono abituato. Non mi metterei mai a sbraitare ai libri volanti “Adesso baaaasta!” nella speranza di farli ritornare ognuno al proprio posto in uno schioccar di dita come farebbero Topolino, Mary Poppins, Harry Potter o Adriano Celentano. Persino il loro cinguettio non mi dà fastidio: è un brusio, un mormorio incomprensibile di parole più simile al ronzio di un insetto che al canto di un usignolo o di un colibrì; cionondimeno, non m’infastidisce. So convivere con la mia immaginazione e ormai so venire a patti con quella degli altri. A meno che non si arrivi a punti intollerabili, non m’infervoro praticamente mai per i discorsi altrui, per quello che immaginano. Anche quando vogliono essere creduti a tutti i costi, presi sul serio. Civiltà aliene sbarcate sulla Terra. Vite preesistenti. Società giuste ed eque. Tollero perché anch’io immagino in continuazione cose assurde.

Ogni giorno che passa ciò che immagino anziché affievolirsi diventa sempre più vivido e probabilmente una volta o l’altra una di queste fantasie che popola la mia mente mi inghiottirà facendomi perdere del tutto il senno. Se così fosse spero sia una fantasia gentile con nuvolette azzurre e case fatte di marzapane e zucchero filato o forse mi piacerebbe finire inghiottito da una fantasia a luci rosse: un postribolo con pavimento e arredo che ricorda il pianale multicolorato di un flipper e un mucchio di bellissime donne tutte per me.

I libri non sono oggetti inerti. Agiscono sul lettore a un livello molto profondo e vero.

Una volta stavo leggendo Massacro infernale di Shaun Hutson. Annovero Massacro infernale di Hutson tra quelli che tra me e me definisco da qualche tempo toy books. Ho già raccontato che cosa siano per me i toy books e rileggendolo mi rendo conto solo ora di essere partito da quel testo ed aver costruito una serie di brevi saggi alquanto sui generis, quasi a puntate, sullo stesso argomento, ossia sulla bellezza di leggere e scrivere. Lo rileggo e mi rendo conto che rispetto a quel primo elaborato in quelli successivi c’è una sorta di crescendo sia qualitativo che quantitativo: il che significa che man mano che le varie idee per i testi che desideravo scrivere mi si presentavano alla mente stava aumentando in me anche la convinzione dei miei mezzi: ero più consapevole del tipo di lingua che volevo adoperare per questi scritti e del genere di aneddoti e immagini che avevo in animo di trasmettere al lettore.

La convinzione: ecco un elemento importante, forse il più importante, in un autore. Lo stesso autore può scrivere un componimento buono, ma tutto sommato ancora un po’ contratto in alcuni punti e scrivere lavori sempre migliori, in un certo senso meravigliosi. Lo stesso autore. La stessa persona. Tutto per convinzione. Tutto per convinzione, ma anche grazie, ed ecco che anche in una così lunga digressione ritroviamo il topic del presente scritto, anche grazie all’immaginazione. Dentro a quel primo articolo (il cui germe vero e proprio è stato un altro saggio critico di vecchia data dal titolo Libri che si leggono con una mano sola) ho trovato il terreno fertile per immaginare un’opera più vasta, fatta di tanti capitoli, magari interconnessi, che si riprendessero e riepilogassero l’un l’altro. Immaginazione, insomma. In questo caso, immaginazione di un progetto, uno schema, una forma, nelle sue linee generali, simmetrica e razionale. Pur sempre, però, immaginazione.

Ma per tornare a Massacro infernale di Shaun Hutson e a quanto i libri non siano oggetti inerti ma possano, invece, agire a un livello assai profondo e reale sulla mente del lettore, lo strillo di copertina del tascabile della Sperling&Kupfer definisce addirittura Hutson il nuovo re dell’orrore. In effetti, ci sono scene parecchio d’impatto in questo romanzo del resto preannunciate oltre che dal titolo anche dalla copertina. Sullo sfondo rosso di fiamme infernali spicca il volto di un demone con occhi rossi e crudeli cerchiati di nero, le orecchie a punta, il naso schiacciato, con le narici molto larghe come miniature di manici di tazzine da caffè e una bocca aperta a mostrare denti affilatissimi.

L’illustratore ha immaginato per questo demone una chiostra interamente fatta di canini, ognuno dei quali particolarmente appuntito e dall’aspetto tagliente e a entrambe le estremità della chiostra una coppia di canini giganteschi, spropositatamente grandi, così lunghi e grossi da far pensare che per forza quel povero cristo di demone sia perennemente incazzato come una iena: con quei denti, come fa a chiudere la bocca? Deve starci attento ogni volta per non conficcarseli nel palato o nella lingua. In più, la chiostra di denti affilati come lame è bianchissima, il che conduce a ritenere che evidentemente i demoni dell’inferno concepito dall’illustratore della copertina del romanzo di Shaun Hutson pratichino parecchia igiene dentale al termine delle loro scorpacciate assai presumibilmente a base di carne umana. A sinistra della faccia del demone ci sono un uomo e una donna. Lei è sexy da morire con un braccio nudo e qualche muscoletto. Ha i capelli mossi e selvaggi. L’espressione è concentrata. Sta guardando attraverso il mirino di un bazooka che imbraccia con disinvoltura. L’uomo invece è piegato e sta puntando un fucile davanti a sé.

Mentre leggevo questo romanzo per stomaci forti è accaduto qualcosa che non dimenticherò mai. Le parole del libro sono scivolate fuori dalla pagina e hanno preso a marciarmi sulle braccia come tante formichine. Quando è successo ho lanciato via il libro in preda al panico prendendo a colpirmi le braccia e poi il collo. Alcune parole sono riuscite ad arrivarmi alla faccia e un paio mi sono entrate nelle orecchie e alcune negli occhi. Le parole che sono riuscito a scrollarmi di dosso sono finite a terra e le ho calpestate come tanti insetti schifosi. Gridavo anche, esasperato. Ho passato il pomeriggio a medicarmi gli occhi con il collirio e a pulirmi le orecchie con il cotton fioc tanto mi prudevano e bruciavano.

Mentre leggevo Nella colonia penale di Franz Kafka le parole si sono staccate dalla pagina che stavo leggendo e hanno cominciato ad attaccarmi come uno sciame d’insetti. Ci possono essere un mucchio di parole in una pagina e se queste parole si trasformano in corpuscoli simili a moschini devi vedertela con una nuvolaglia mica da ridere. Queste parole erano anche aggressive. Un “nonostante” continuava ad avvicinarsi e ad allontanarsi dalla mia guancia ogni volta punzecchiandola. Un “sebbene” e un “pertanto” sembravano volermi scavare un buco nel cranio come una zecca farebbe a un cane. Ho lottato non so per quanto con le parole di Kafka cercando di sfuggirle, ma quelle mi circondavano e non potevo semplicemente svignarmela chiudendomi una porta alle spalle.

Stavo leggendo non so più quale libro ambientato nella giungla quando non appena l’ho riaperto alla pagina dove avevo fatto l’orecchia per continuare la lettura una serie di liane si sono srotolate di colpo verso di me attorcigliandosi attorno alla mia faccia, alla testa e alle spalle come tanti capelli di strega. Si sono stretti fortissimo tirandomi verso la pagina come volessero farmi inghiottire dal libro o farmi soffocare contro il materiale di cellulosa. Ho passato momenti infernali lottando, inarcando la schiena all’indietro, cercando di oppormi alla trazione esercitata dalle funi. Ho anche pensato di mollare la presa del libro, ficcarmi una mano in tasca e cavar fuori le chiavi, una delle quali particolarmente lunga e con quella forse avrei potuto sperare di… Ma alla fine ho fatto la cosa più semplice: ho chiuso il libro di botto e ha funzionato. Le liane si sono ritirate all’istante, velocissimamente e io ho potuto riprendere fiato massaggiandomi collo e parti lese. Che esperienza…

Quando qualche tempo dopo un amico mi ha regalato Tentacoli di Peter Benchley, memore di quanto avvenuto con questo romanzo (credo fosse un romanzo d’avventura di Henry Ridder Haggard), ho rifiutato il regalo in modo anche abbastanza scortese dicendo al mio amico: “Lo sai, amico, dove devi ficcartelo, questo libro?”.

Peraltro, lo squalo raffigurato sulla copertina del romanzo di Peter Benchley da cui è tratto il famoso film di Steven Spielberg è uscito diverse volte dalla sua cover proiettandosi all’esterno come un’immagine 3D e mordendomi il naso. E tuttavia, quel libro è talmente avvincente che non solo non me ne sono mai sbarazzato, ma ogni tanto lo riprendo e me lo rigiro tra le mani finendo presto o tardi per far animare l’immagine dello squalo bianco disegnato sul rivestimento esterno del volume tascabile. Un giorno entro nella sala dove sta il grosso dei libri che ho letto e su una delle due scrivanie vedo il modellino di un’automobile e la riproduzione di un cane. Sono entrambe riproduzioni abbastanza grosse e in proporzione l’una rispetto all’altra. L’automobile è grande come una macchinina telecomandata e il cane è un piccolo peluche, ma fedelmente riprodotto. Osservandolo meglio mi accorgo che è il peluche di un cane San Bernardo. Tempo di accorgermi che l’automobile è una Fury decapottabile rossa e i due ammennicoli si animano, saltano giù dalla scrivania e cominciano a muoversi per la sala l’uno girando e suonando il clacson di qua e di là e l’altro abbaiando e latrando e in qualche caso mandando uggiolii. Poi, l’automobile si ferma al centro della stanza e il cane San Bernardo (che nel frattempo mi sono reso conto non è affatto un peluche, ma è un can San Bernardo vero, solo grande come un peluche di piccole dimensioni) si avvicina all’automobile minacciosamente. Ha gli occhi rossi. Il tartufo del naso martoriato. Lunghi fili di bava gli colano dalla lingua a penzoloni. I denti giallastri sembrano sporgere ancora più del solito e sembrano essersi allungati. E poi c’è il ringhio. Basso, continuo. Mette i brividi, non lascia presagire nulla di buono. All’interno ci sono una donna e il suo bambino – solo che questi non si chiama Tad, ma Gage e lei non si chiama Donna Trenton ma Jessie Burlingame. Jessie e Gage sono del tutto terrorizzati da Cujo e sono bloccati all’interno di Christine, la macchina infernale. Christine sta facendo girare un vecchio successo di Little Richard a ritmo forsennato e a volume folle. Va già bene che a Jessie e al piccolo Gage non sanguinino gli orecchi.

Mentre queste cose vedo accaderle davanti ai miei occhi, mi viene in mente di prelevare dagli scaffali della libreria di casa il paperback di Cujo e l’hard-cover di Christine e come immaginavo dando un’occhiata alle copertine mi accorgo che le rappresentazioni di Cujo e Christine sono scomparse lasciando uno spazio vuoto sotto i titoli e il nome dell’autore del romanzo. I due mostri sono balzati fuori dalle copertine e sono finiti nel soggiorno di casa mia. Cujo spicca un balzo improvviso finendo con il muso contro il parabrezza di Christine. Jessie e Gage sussultano dal terrore. Christine suona il clacson allegramente e accende e spegne le luci mentre Little Richard canta a squarciagola: “Oh sì, baby! Oh sì! Che aspetti? Fallo! Finisci quello per cui sei venuta, baby! Dai! Dai!”. Cujo indietreggia di nuovo e sta di nuovo per caricare l’auto. Jessie e Gage urlano di terrore. Jessie sta ancora cercando disperatamente di aprire le portiere bloccate o di smuovere di un millimetro il volante di Christine. Il cane parte all’attacco. La Fury si muove all’improvviso, accelerando. L’impatto è inevitabile. Per quanto grande e grosso, Cujo finisce investito da Christine. Christine fa marcia indietro e passa sul cadavere del cane San Bernardo un’altra volta e poi innestata la prima, ci passa sopra un’altra volta ancora. Jessie, la moglie dell’avvocato Gerald Burlingame, all’interno dell’abitacolo copre gli occhi di Gage non sapendo se esultare o provare ancora più orrore. Quando Cujo è stecchito al suolo, Christine si ferma lì accanto, fa saltare le chiusure delle portiere e apre quella dalla parte del guidatore dove si trova Jessie. Sembra quasi un invito a scendere. Dopo un momento che pare interminabile Jessie Burlingame e il piccolo Gage Reed smontano da Christine e si portano da Cujo osservandolo. In un moto di pietà, decidono di toglierlo da lì – e lì sarebbe il pavimento della sala di casa mia, ma per loro è probabile sia il terrapieno erboso ormai trasformato in un parcheggio di qualche cascinale isolato situato chissà dove nel Maine. Lo caricano nel bagagliaio di Christine e Gage fa a Jessie: “Seppelliamolo nel cimitero degli animali degli indiani Micmac. Che ne dici?”. “Mi sembra un’idea che ci rende entrambi molto umani dopo tutto quello che ci è capitato” risponde Jessie con una certa solennità e Christine parte sgommando via e scomparendo nel nulla.

Queste fantasie così vivide (non arriverò mai ad ammettere che si tratti di allucinazioni) mi prendono anche quando vado alla ricerca di qualche libro da leggere. M’infilo in qualche remainder e comincio quella singolare attività che è la ricerca di un buon titolo da divorare in poche ore. A questo mondo ci sono un mucchio di attività bizzarre, ma quella di cercare libri dalle rastrelliere dei remainders quasi non ha eguali, sicuramente se la gioca per salire sul podio con le Altre Attività Stravaganti Di Questo Pazzo Mondo. Andare alla ricerca di videocassette o dvd è anche peggio; ma pure con i libri non si scherza. Ti metti lì dalle rastrelliere e cominci a far scorrere titoli, uno dopo l’altro. Vedi un titolo che ti interessa o che potrebbe interessarti e allora lo tiri su per metà. Poi, ti accorgi che non ti interessa così tanto anche se lo puoi acquistare a un euro o poco più e lo lasci ricadere al suo posto e ricominci a far scorrere titoli.

Con videocassette e dvd va anche peggio per via del rumore che fa la plastica delle custodie mentre fai scorrere i titoli alla ricerca di quello giusto. Tac-tac-tac-tac-… C’è da tirarsi stupidi. Sembra di essere uno scarabeo stercoraro che arrotola la sua palla di sterco o qualcosa di simile. Sei lì che frughi e leggi e frughi.

Ricordo anni fa che in certi supermercati mettevano le videocassette in cestoni e così ci si metteva in tre o quattro attorno a questi cestoni e si cominciava a frugare. Naturalmente, all’interno di queste rastrelliere c’erano anche videocassette per soli adulti. Così non era infrequente il caso in cui potevi sentire una coppia di bricconcelli che andava alla ricerca, ravanando nei cestoni, di film a luci rosse di un qualche genere preciso, tipo quelli dove ci sono solo donne, giusto per non dar di sé un’idea poco virile. Momenti di degrado esistenziale impagabili che fanno a gara solo con il momento in cui ti capita di leggere le scritte oscene nei bagni pubblici (dove stanno scritte cose che non si troveranno mai nemmeno nel libro più spregiudicato scritto anche dall’autore con l’immaginazione più fervida al mondo; a testimonianza del fatto che gli uomini hanno un certo talento naturale per le oscenità) oppure quando trovi i giornaletti di annunci d’incontri nel reparto riviste vietate negli autogrill. Ricordo di aver aperto una di queste riviste d’annunci e di averne letto uno a diciotto, diciannove anni… Diceva qualcosa a proposito di una casalinga di Pordenone e dopo quella volta nella mia testa Pordenone è diventato il luogo più turpe del pianeta se una donna poteva definire se stessa nel modo in cui si definiva in quell’annuncio… Pordenone. Per me diventò un luogo mitico, in un certo senso, molto scabroso. Pordenone. Le casalinghe di Pordenone.

A ogni modo, mentre ero impegnato a rovistare nelle rastrelliere di un remainders alla ricerca di un buon libro da leggere, Sogni di resurrezione di Richard Laymon posato lì, sopra gli altri libri, si è aperto di colpo, magari per un colpo di vento o a causa di uno spostamento d’aria, io ho fatto per richiuderlo mettendoci una mano sopra e subito una forza potentissima mi ha risucchiato il pollice e la mano facendomi sprofondare l’intero braccio fino alla spalla nel giro di una decina di secondi dentro al libro. Se mi fossi alzato e mi fossi allontanato, me ne sarei andato via con il volumetto di Sogni di resurrezione di Richard Laymon attaccato alla spalla al posto del braccio - e probabilmente il proprietario della bancarella di remainders mi sarebbe corso dietro accusandomi di avergli rubato un libro! Così lottai per tirare fuori il braccio da quella polpa di cellulosa così densa cercando di farmi notare il meno possibile e siccome gli altri astanti erano intenti a frugare nelle rastrelliere facendo scorrere titoli di libri su titoli di libri come tanti scarabei stercorari non fu difficilissimo non farsi scoprire. Alla fine, tirai fuori il braccio e mi allontanai il più in fretta possibile. Alla manica del giubbotto era rimasta incollata la cellulosa come pasta di dentifricio e in tintoria mi fecero una ramanzina memorabile e mi svuotarono il portafogli.

Ma le prime avvisaglie di esperienze del genere le avevo già avute da molto giovane. Mi ricordo mi capitò un evento surreale anche con mio nonno. Mio nonno si leggeva il giornale da cima e fondo. Andava a comprarsi La Stampa all’edicola e poi lo dispiegava sul tavolo davanti alla televisione e lo leggeva. Spesso stavo lì a osservarlo. In particolare, mi colpiva il fatto che la pelle grigiastra e macchiata del viso e delle mani a causa dell’età avanzata facesse così pendant con il colore dei fogli del giornale pieni di parole da renderli quasi indistinguibili l’uno dall’altro, quasi un tutt’uno. Forse per questo mi piace leggere così tanto: le pagine di un libro mi ricordano in qualche modo il mio nonnino. Una volta dopo aver letto La Stampa non so per quanto tempo, so solo che mi sembrò un’eternità, mio nonno richiuse il tabloid, si alzò dalla sedia, si voltò e muovendosi molto lentamente disse: “Credo di non sentirmi troppo bene”.

Sulla faccia e sulla pelle delle mani aveva più macchie della vecchiaia del solito, mi parve. Mi parve anche che la pelle fosse più grigiastra del solito, ma guardandolo meglio mi resi conto che quelle sulle mani e sul viso non erano macchie: erano parole. Mio nonno era rimasto così impressionato da ciò che aveva letto quel giorno sul giornale che le parole gli si erano impresse sul volto, sulla pelle delle mani, probabilmente su tutto il corpo. Dico impresse perché quando controllai la copia della Stampa che stava mollemente ripiegata sul tavolo della saletta della televisione le pagine non erano vuote, erano ancora tutte lì, forse solo leggermente più sbiadite. Mio nonno in bagno vomitò e più tardi raccontò di aver rovesciato nella tazza del bagno una sostanza nera e che gli sembrava di essere un calamaro gigante. Chissà cosa doveva avergli dato da mangiare nonna.

Non parliamo poi del numero di volte in cui sono stato io a finire all’interno della copertina di un romanzo. L’esperienza più pericolosa mi capitò quando finii in una copertina di un paperback della Sperling&Kupfer dove sta raffigurata una stanza spoglia con un letto dalle lenzuola azzurre e la coperta color verdone, un tappeto scendiletto di forma ellittica e con elissi disegnate all’interno dai colori pastello scuro. Il pavimento è fatto di assi di legno e al centro si riflette il rettangolo quadrettato di una finestra. La finestra ha un’intelaiatura di legno a maglie quadrate e gli infissi verde scuro. Fuori c’è quello che sembra un granaio, come si vedono nei film americani, fatto di assi di legno rosse, e il tetto è totalmente imbiancato di neve. Lì vicino c’è anche un pino innevato e sullo sfondo cime di montagne e cielo azzurro. A un lato della finestra sta parcheggiato un uomo in carrozzina. La sua immagine è in penombra. Indossa una maglietta azzurrina, un paio di jeans e scarpe da ginnastica bianca. Il volto è reclinato. Se lo regge con una mano, sembra affranto, disperato. Ne ha ben donde. Si proietta su di lui, infatti, l’ombra di una figura minacciosa i cui contorni si riconoscono perfettamente osservando il muro grigio e spoglio della stanza. La figura è quella di una donna, una donna di stazza molto imponente, con un vestito che la gonfia ancora di più, e una lunga gonna. Tra le mani la donna tiene un’ascia. Finii dentro questa copertina e potei così vedere tridimensionalmente il letto e l’uomo, ma ero dentro a un’illustrazione come quella ragazzina che finisce in un cartone animato nel film Ai confini della realtà e perciò benché a tre dimensioni quelli che avevo davanti agli occhi rimanevano pur sempre disegni.

Ricordo infatti un gran odore dolciastro di carta, come se nelle vicinanze ci fosse una cartiera che spandesse gli effluvi dei suoi prodotti nell’ambiente circostante. L’uomo sulla sedia a rotelle rimase immobile. Anche l’ombra minacciosa era immobile. Girai lo sguardo per vedere da dove provenisse l’ombra, ma quando guardai da quella parte vidi solo il soffitto della sala di casa mia. Quando ero entrato nella copertina il libro doveva essere cascato a terra o sul divano nel quale mi siedo di solito per leggere. Se fosse cascato con la copertina rivolta verso il pavimento non avrei visto nulla, ma la copertina era puntata verso l’alto e così potevo scorgere il soffitto. Mi alzai a fatica, boccheggiando per il panico. Posai una mano su uno dei pomelli della testiera del letto avvertendo il contatto non con il legno, ma con la carta. Sapevo che alla minima pressione avrei potuto sbriciolare quel pomello come cartapesta. Poi senza preavviso, l’ombra sul muro si mosse. Si mosse velocissima riempiendomi di terrore e sollevando l’ascia e colpendo ripetutamente. Mi mossi per tutta l’ampiezza dell’immagine della copertina, mentre l’ombra mi spaventava alzando e abbassando la sua scure, muovendosi in modo meccanico, come se fosse l’ombra di un pupazzo meccanico di un Luna Park e non quello di una donna in carne e ossa. Poi, mi avvicinai alla parete dove potevo vedere il soffitto di casa e uscii dalla copertina tornando alla realtà. Per l’età che ho sono ancora abbastanza magro, ma come riuscì un uomo di sessantasette chili alto un metro e ottantatré a passare attraverso una copertina di sedici centimetri per dieci è parte del mistero che avvolge l’evento soprannaturale che ho appena descritto.

Altre volte il libro che stavo leggendo mi ha così catturato da catapultarmi nel mezzo della scena che stava così vividamente raccontando ma la cosa che mi impressiona più di tutte è quando trovi pezzi della narrazione per casa. Oggetti. Oggetti della narrazione. Una volta dopo aver letto un racconto di H.P. Lovecraft mi sono messo sul terrazzo a prendere un po’ d’aria e a meditare. Mi trovavo sul terrazzo che dà sul retro del condominio. Non è un semplice balcone, ma una terrazza, molto spaziosa. Uno dei vasi con piante e fiori che la adornano ha cominciato all’improvviso a traballare. Una palma mi è letteralmente esplosa davanti agli occhi. Non nel senso che si è disintegrata, tutt’altro. È esplosa eruttando terra, ma è cresciuta. Si è ingigantita di colpo. Poi c’è stata un’altra esplosione e le sue foglie appuntite (con le quali da piccolo mi sono punto decine di volte mentre scorrazzavo sul terrazzo per i fatti miei) si sono allungate a dismisura, e il casco di foglie della palma è diventato enorme, trasformandosi in qualcosa di molto simile a un reperto vegetale alieno o proveniente da una foresta impenetrabile in qualche punto inesplorato del pianeta. Con il cuore in gola e mandando gemiti di autentica strizza, sono rientrato in casa mentre quel coso continuava a esplodere e a crescere. Ho freneticamente chiuso le persiane della portafinestra che dalla sala dà sul terrazzo (ce n’è un’altra in cucina) e poi ho chiuso la portafinestra. Ho chiuso le imposte di ogni finestra di quel lato di casa, mentre sentivo le esplosioni e quel rumore di crescita innaturale fino a quando non ho cominciato a udire il frusciare delle foglie appuntite sulle persiane chiuse, un frusciare che non ci misi molto a capire si stesse trasformando molto rapidamente in un raschiare. Scappai nell’appartamento di sopra. Dopo un po’ ricontrollai dal balcone di sopra la terrazza di sotto e mi accorsi che la pianta era tornata delle sue dimensioni.

Certo. Mi capitano queste immagini in continuazione dopo la lettura di un libro. Vedo il mondo con occhi molto diversi e mi ci vuole un po’ prima che l’effetto di certi libri passi. Forse anche per questo leggo in continuazione. Per cancellare l’effetto di un libro annullandolo con un altro. In parte funziona. Di sicuro i libri servono a vedere la realtà con occhi differenti. Un esempio concreto? Da quando Quentin Tarantino ha girato i suoi film, non guardiamo forse tutti quanti i film blaxploitation o che so io con gli occhi di Tarantino stesso? Guardiamo quei film, come se fossero film vintage girati da Tarantino. È incredibile. Ma è così. E che dire di Cantando sotto la pioggia, il film in bianco e nero con Gene Kelly? Non lo guardiamo forse pensando ormai ad Arancia Meccanica di Stanley Kubrik? Questa specifica ipnosi di massa operata dall’arte mi sembra assai più stupefacente rispetto a una palma che cresce a dismisura sul terrazzo di un appartamento in una cittadina di provincia del Piemonte a seguito della lettura di un romanzo di H.P. Lovecraft.

L’immaginazione non è confinabile. Per quanti dettagli ed elementi tu possa fornire al lettore per fargli raffigurare al meglio la scena che hai in mente e che vuoi raccontargli, per ogni singolo lettore sarà sempre un punto d’inizio dal quale partire al fine di immaginare qualcosa di più vasto. Questo lo si vede bene nei cosiddetti scrittori intellettuali. Gli scrittori intellettuali si distinguono da qualsiasi altro tipo di scrittore per il genere di pubblico al quale si rivolgono: appunto agli intellettuali. Lo scrittore intellettuale non è uno scrittore intellettuale in quanto a sua volta intellettuale: ma solo per il fatto di rivolgersi agli intellettuali. Questo tipo di pubblico sa già moltissime cose sulle narrazioni: ne ha lette di cotte e di crude, veramente di tutte. Conosce i trucchi e i modi per evitarli. Sa. Il pubblico intellettuale sa. Il pubblico intellettuale vuole essere stupito perché in quanto intellettuale è anche intelligente, capisce all’istante, capta al volo, comprende in un momento e si annoia in modo bruciante alla velocità della luce.

Dunque, al pubblico intellettuale lo scrittore intellettuale fa leggere opere nelle quali l’ingrediente fondamentale sia l’allusione leggera, il cenno, il suggerimento, il sospiro. Il pubblico intellettuale fa tutta la fatica, suturerà lui di persona, ben felicemente, ogni parte all’apparenza scollegata. Come? Con la sua immaginazione. Dai in pasto un romanzo a un pubblico intellettuale (di scrittori e di gran lettori, di critici e di recensori) e il romanzo lo riscriveranno loro: anzi, lo inventeranno loro. Se gli dai un’opera compiuta, questa masnada di bastardi lo demolirà senza pensarci due volte. Ma se gli dai in pasto un’opera incompiuta, incompleta, sganghera e tutto sommato scema e insensata… ci andranno a nozze. Ci sono anche altre ragioni, più meschine, che determinano questo rovesciamento di valori, ma la cosa che ci interessa è che tutto questo ha bisogno di… immaginazione. Il pubblico intellettuale ha moltissima immaginazione. Gronda d’immaginazione. Trasuda da ogni poro d’immaginazione. Basta poco, ben poco per stimolarla… anzi, provocarla. Invece l’autore di opere di consumo cerca di saziare l’immaginazione dei suoi lettori.

L’immaginazione, tuttavia, è insaziabile. Non è confinabile.

Questo spiega anche come mai la mente riesca a liberarsi dalle più immaginifiche utopie elaborate nel corso dei secoli dai più grandi pensatori. Certo ci sono molte altre ragioni, ma tra queste non è da sottovalutare il fatto che non puoi costruire delle sbarre e una gabbia per contenere l’immaginazione di nessuno. Dura per un po’, ma poi l’immaginazione travolge qualunque argine. Un giorno i più grandi narratori ci sembreranno parchi di dettagli nelle loro storie: Tolstoj, Dickens, Dumas… Ci sembrerà che abbiano messo troppo poco nelle loro narrazioni per fornire immagini complete delle storie che volevano raccontarci. Guerra e Pace ci sembrerà troppo breve. Grandi Speranze o Davide Copperfield troppo stringato e in quanto ai Tre Moschettieri e al Conte di Montecristo all’equivalente narrativo di quattro madrigali e due sonetti. Questi autori, un giorno, ci appariranno autori ermetici. Viceversa, Stephane Mallarmé ci parrà un autore prolisso. Giuseppe Ungaretti verrà pesantemente rieditato. Gli eredi del movimento ermetico scriveranno a lettere e monosillabi: “p”, “b”, “e”, “tric”, “ruc”, “bac”.

Un giorno qualcuno compirà per davvero l’operazione tentata dallo scrittore italiano Dario Voltolini (uno dei top writers della narrativa italiana, peraltro) nel corso di un incontro nel quale egli ha cercato di fare qualcosa di apparentemente impossibile: immaginare l’immaginazione. Riusciremo a immaginare l’immaginazione stessa e a quel punto ad averne pieno possesso e controllo. Ciò che ha fatto Voltolini desta interesse perché Voltolini ha mostrato una delle principali funzioni dell’immaginazione: l’immaginazione si mette in moto, infatti, posta difronte a domande del tutto assurde e senza senso. Come immaginare l’immaginazione? È quel genere di domanda alla quale a un filosofo non verrebbe mai in mente di rispondere, che probabilmente non prenderebbe mai nemmeno in considerazione. Ma un poeta, uno scrittore, un uomo o una donna che nutre ogni giorno la sua immaginazione, e riconosce all’immaginazione un ruolo fondamentale, subito si butta a pesce su una questione del genere. Voltolini nel suo intervento (la cui registrazione credo sia disponibile sul portale della Fiera Internazionale del Libro di Torino, se non su quello della Fiera del Libro di Pordenone: Pordenonelegge) costruisce tutta una balzana allegoria botanica producendosi in ampi movimenti delle braccia per illustrarla al meglio, ma di per sé il tentativo conta quel che conta: ciò che conta è aver affrontata la questione. Arriverà qualcuno che fornirà un giorno la chiave per avere il dominio sull’immaginazione e saper distinguere, subito, al volo, in un batter di ciglia cosa è immaginazione e cosa invece ragione, raziocinio, razionalità. Ponendo così fine per sempre al commercio disonesto di leggende spacciate per verità e di verità presentate come leggende. Ponendo termine all’inseguimento, esclusivamente, di fantasmi percependo cose che sono solo nella nostra testa e non nel testo né tantomeno nelle intenzioni dell’autore.

Di fatti, nei romanzi si avverte, prima di cominciare, che i fatti e i luoghi e i personaggi sono immaginari e che si tratta solo di una coincidenza se leggendo si pensi che l’autore si sia servito di eventi realmente accaduti per raccontare la sua storia. Già solo questo dettaglio mostra quanto il pericolo di mettersi a inseguire fantasmi leggendo un libro (di lavorare troppo d’immaginazione, come suol dirsi) possa essere assai reale, non sia un’esagerazione detta qui al solo scopo di intrattenere il lettore. A volte, anzi, ho il sospetto che questa formula andrebbe estesa a ogni genere di libro e non solo, ma, sentitemi bene, a ogni espressione e parola presente in un testo. Perché a volte può succedere che certi temperamenti possano vedere se stessi ovunque, anche in un’espressione, anche in una sola parola.

Se scrivo “la gioia di leggere” intendo solo avvalermi di un’espressione di uso comune. Se scrivo “romanzo mozzafiato” intendo solo dare al lettore un’idea sommaria di quel che entrambi intendiamo: gli sto dicendo “Su questo capiamoci alla svelta, senza stare a spaccar il capello in quattro”. Non sto alludendo a persone realmente esistenti. Così come quando scrivo “candido lettore” non sto cercando di inventarmi forme sofisticate di autobiografismo. Immaginazione. Ancora una volta immaginazione. L’immaginazione può essere un cavallo imbizzarrito difficile da gestire. Dominare l’immaginazione una cosa appunto pressoché impossibile, quasi una questione assurda. Eppure, su questa questione si gioca moltissimo, se ci riflettiamo, quasi tutto. Stiamo descrivendo o stiamo immaginando?

I libri hanno forma rettangolare come le porte. Forse a livello inconscio i libri hanno forma rettangolare come le porte perché i libri sono porte. Sulla copertina trovi il nome dell’autore e il titolo dell’opera così come su una porta trovi il nome del proprietario di casa e anche il nome della casa stessa (ogni casa o condominio in genere ha un nome). E poi c’è l’immagine di copertina che è un simbolo non molto dissimile da uno stemma di famiglia. Le copertine dei libri sono porte che introducono all’interno di qualcosa d’altro. Dietro alla porta c’è (per riprendere una ormai celeberrima allegoria di Stephen King in Danse Macabre, rielaborata nel film It – Capitolo 2 quando Eddie e Richie trovano tre porte, ne aprono una e s’imbattono in un cagnetto innocuo, fino a quando il cagnetto non si tramuta di colpo in un essere mostruoso… e questo elemento manca nell’allegoria di Danse Macabre) un mondo immaginario ed è sempre una particolare emozione aprire la copertina di un libro ed entrare in contatto con questo mondo. Si prova sempre un’emozione particolare. C’è sempre un po’ di timore. Mah, chissà cosa incontrerò, incontrerò davvero, leggendo questo libro, pensiamo. Alla fine dietro la copertina c’è un mondo immaginario con il quale poco per volta scenderemo a patti (e ognuno ci scenderà a modo suo) e che in qualche modo addomesticheremo e sul quale, per quanto possa essere stata un’esperienza estrema e straniante, monteremo sopra per guardare avanti, costruire ancora.