Si chiama Madiba ed è dedicato alla figura di un gigante dell'umanità come Nelson Mandela, il nuovo lavoro che Sade Mangiaracina ha inciso per la Tuk Music, la coraggiosa label indipendente diretta da Paolo Fresu.

Siciliana, pianista dall'eloquio fluido e personale, Sade arriva così alla sua piena maturità espressiva del trio da lei formato da almeno un lustro. Molto stimolante in fase di appoggio con i suoi partners, è anche un'abilissima ed originale pianista nei suoi interventi solistici.

"Questo è un disco che è arrivato con una naturalezza quasi inaspettata - ribadisce pronta - dopo la pubblicazione de Le mie Donne nel 2018, sempre per Tuk Music, ho iniziato a scrivere i brani nuovi e quasi contemporaneamente con l'inizio della scrittura ho deciso di concentrarmi sulla figura di Nelson Mandela. In meno di un anno avevo tutta la scrittura pronta, siamo andati in studio a registrarlo e dopo due giorni avevamo il disco finito. Mentre lo riascoltavo l'ultimo giorno di registrazione nell'incedere dei brani, cresceva la piena coscienza della grandezza di quest'eroe della libertà. Ho proprio pensato che Mandela fosse ormai dentro ogni brano: ne riuscivo a percepire la presenza attraverso gli episodi della sua vita che avevo deciso di raccontare. Devo molto a Mandela ed aggiungo che tutti noi dobbiamo molto all'Africa, una terra che della speranza ne ha fatto una ragione. Questi sono i pilastri di Madiba, ma sono anche due sentimenti che in questo momento storico, devono attraversare l’umanità intera.”

Squadra vincente non si tocca, dicono nel calcio... ma come e perchè la figura di questa icona della libertà e dei diritti è entrata nella tua vita?

I musicisti che hanno suonato in questo disco sono gli stessi del precedente e cioè Marco Bardoscia al contrabbasso, Gianluca Brugnano alla batteria oltre alla partecipazione di Ziad Trabelsi all'oud su alcuni brani. Con questo trio suono ormai da circa cinque anni e siamo diventati una famiglia. Nelson Mandela è entrato nella mia vita da piccola, grazie a mia madre: come insegnante di storia e geografia mi parlava sempre di lui e di altre figure dello stesso alone come Martin Luther King, Gandhi, oltre che dei giudici Falcone e Borsellino. Piano piano crescendo ho voluto approfondire le loro vite e le loro storie, fino a quando ho deciso di parlarne attraverso la mia musica.

All'interno del disco la profonda meditazione di We have a dream spicca per intensità e lirismo.

In questo brano ho voluto accostare due uomini che hanno rivoluzionato il ventesimo secolo. Da una parte negli Stati Uniti giganteggiava l'operato del reverendo Martin Luther King, che negli anni ‘50 e ‘60 ha portato avanti una battaglia fondamentale per i diritti degli afroamericani mentre dall'altra in Sudafrica c'era Nelson Mandela e la sua accorata azione contro l'apartheid. Ho voluto ricordarli insieme in un unico brano, che ha varie influenze a partire dai ritmi nordafricani fino ad arrivare a melodie che appartengono più alla musica classica, quasi a suggellarne un sodalizio immaginario.

Qual è stato il momento decisivo per l'avvio della tua carriera professionistica e cosa significa fare parte di un laboratorio attivo come quello riunito intorno alla Tuk Music?

Ho iniziato a studiare da piccolissima il pianoforte classico, quindi l’inizio della mia carriera lo individuo sicuramente quando ho iniziato a partecipare ai concorsi classici internazionali. In quel momento ho compreso il significato di sacrificio e professionalità. Sacrificio e professionalità sono anche i due elementi fondamentali che caratterizzano le persone che lavorano per la Tuk Music, a partire da Paolo Fresu. Aggiungo a questo splendido gruppo di lavoro un elemento fondamentale che fa la differenza su tutto, l’umanità. Paolo ha avuto la capacità di circondarsi di persone davvero speciali, come Luca Devito, che è la colonna portante dell'etichetta, curandosi di ogni particolare in ogni minuzia. La generosità che queste persone mi trasferiscono ogni giorno è parte di integrante di un benessere che mi inorgoglisce in quanto parte integrante di una famiglia.

Cosa rappresenta per te la tradizione jazzistica e come pensi che si possa condensare il jazz di oggi?

La tradizione del jazz solidifica le fondamenta di ogni musicista che vuole approcciarsi a questo genere, ma soprattutto rappresenta una fonte di ispirazione continua. Ad ogni ascolto, anche se si fa girare lo stesso disco cento volte, si scoprono mille sfaccettature diverse. Il jazz di oggi sta attraversando un passaggio cruciale evolvendosi in tante altre declinazioni. Penso a geni indiscussi che oggi rappresentano il meglio del jazz mondiale, a partire dai tanti che sperimentano e rimescolano le carte come, ad esempio, Esbjörn Svensson con il suo trio che purtroppo ci ha lasciati prematuramente poi Avishai Cohen, Robert Glasper, Brad Mehldau, Ibrahim Maalouf.

Ascoltando il tuo disco si ha più che mai la sensazione che i confini fra i generi siano oltremodo vaghi: come si riconosce oggi un pianista jazz?

Per risponderti utilizzo un paradosso: da cosa riconosceresti un centometrista dello scorso secolo, da uno dei giorni moderni? Entrambi corrono, ed entrambi sono riconosciuti come campioni, ma entrambi sono molto diversi nell’approcciarsi alla corsa. Ma tutti e due regalano emozioni indimenticabili. Questo discorso vale anche per il jazz e per i musicisti di ieri e di oggi. L’evoluzione è un processo indispensabile per far vivere il jazz. Semplificando molto, riconosco un musicista jazz dalle emozioni che mi trasferisce, dalla capacità compositiva ed improvvisativa oltre che dalla sua voglia di sperimentare.

Qual è la principale fonte d'ispirazione della tua musica e poi se me lo consenti, ti rilancio io un paradosso: fammi un esempio di qualcosa che hai imparato sul palco e che nessun libro di teoria avrebbe potuto insegnarti.

Al di là dei musicisti menzionati in precedenza, penso al Mediterraneo come entità. Rappresenta il bacino della comunità a cui appartengo e da cui traggo ispirazione. Sul palco imparo cose nuove ogni volta che ci salgo, ogni concerto è diverso dal precedente. Mi ha insegnato sicuramente ad interagire con il pubblico. Sono molto timida e riservata, all’inizio della mia carriera mi limitavo a suonare. Poi, col tempo ho compreso l’importanza della parola, che aiuta a rafforzare e a spiegare il proprio lavoro o i singoli brani o meglio ancora le emozioni che provo a trasferire con il mio lavoro. Proporre uno spettacolo a tutto tondo, con le parole giuste al momento giusto è un lavoro che nessun libro ti può insegnare, l’arte del musicista lo impari come tutti i lavori artigiani, sul campo, e in questo caso sul palco, facendo errori su errori e cercando di migliorarsi ogni giorno.

Finalmente si potrà riprendere a suonare dal vivo questa estate, cosa ti aspetta?

Tanti concerti per fortuna e tanto ancora in programmazione. Nonostante il periodo che abbiamo vissuto, assisto ad un salto di qualità e ad una vitalità che i vari festival stanno provando a mettere in campo, con non pochi sforzi. Bisogna ringraziarli, perché sono e saranno i precursori di un nuovo percorso. Il futuro è iniziato e i giovani hanno bisogno di spazi, finalmente i direttori artistici se ne stanno accorgendo.