The neverending story è il titolo di un film tra l’immaginario e il fantasy e il richiamo a come le associazioni fra esseri senzienti possano evolversi nel tempo e nello spazio infinito che fa da cornice a tutto il racconto. Nella narrazione che abbiamo scelto ha invece i contorni dell’incubo e del noir. Parliamo della storia senza fine, appunto, della indicazione di un sito definitivo per lo stoccaggio del materiale atomico e fissile frutto dell’esistenza nel nostro Paese di centrali nucleari in dismissione e in prospettiva di tutto il materiale radioattivo che continua ad essere prodotto a livello industriale e farmaceutico.

Da un lato la conclusione di una storia bloccata dal referendum di oltre trent’anni fa, l’uscita conseguente ma mai dichiarata ufficialmente del nostro Paese dal novero delle nazioni nuclearizzate; dall’altro l’esistente e non eliminabile utilizzo di materiale nucleare a fini scientifici, medici e così via. Dunque, una realtà alla quale sarebbe opportuno porre la parola fine assumendosi anche storicamente e come Paese l’onere della dismissione di questo delicato materiale invece di inviarlo altrove e a pagamento per non averlo tra i piedi. Un comodo escamotage che per decenni ha impedito ai governi e alle amministrazioni pro tempore di affrontare il nodo e qualora lo si sia fatto di essere tacitati dalla reazione popolare (guidata più che spontanea) in nome del “not in my backyard”, ovvero ovunque ma non nel mio giardino.

Così, di anno in anno, di decennio in decennio, di decreto e di leggi impostate in proposito per tutto questo tempo si è eluso il nocciolo (è il caso di usare questo termine a proposito) e si è spostata in avanti una decisione che quando verrà assunta peserà sulle giovani generazioni a venire, in termini di oneri e di costi. Da oltre trent’anni insomma facciamo finta di essere usciti dal nucleare come la narrazione più green ci porta a credere e spargiamo per il continente europeo a titolo oneroso quello che come ogni Paese responsabile dovremmo trattare da noi, essendo il frutto di una scelta poi annullata ma i cui effetti continuano a prodursi proprio come la radioattività che impegna decenni o secoli o anche millenni per abbandonare il risultato del proprio decadimento in termini ambientali e di sicurezza accettabili.

Come sia stato possibile arrivare a questo punto potrebbe essere analizzato in libri e documentari, ma non ci fa onore come Paese, come sistema e come cittadini dovremmo sentirci offesi per essere stati trattati con un misto di furbizia e di lassez faire e non soltanto bearci nel fatto reclamizzato di essere un Paese nuclear free, campione delle energie rinnovabili ancorché privo di materie prime e di riserve energetiche proprie in grado di sostenere la domanda crescente di energia dei sistemi complessi della modernità che si afferma però essere improntati al risparmio energetico e a riciclo.

Mentre tutto questo sistema cerca la pietra filosofale tra fughe in avanti, flop magistrali di intere filiere, e una sostanziale perenne dipendenza dall’esterno, periodicamente si propone il tema della localizzazione del sito definitivo di stoccaggio di ciò che resta del nucleare italiano e in vista del continuo prodursi di rifiuti di natura radioattiva, come un fiume carsico che appare, scompare e ricompare.

Ad ogni nuovo governo il tema viene posto e accantonato poco dopo, non prima di aver aggiornato la situazione sia in termini geografici che in termini politico/amministrativi. Perché subito, all’agitarsi del problema e al di fuori del contesto scientifico e strategico che dovrebbe porsi, si contrappone la reazione locale dei luoghi indicati in teoria sulla base di criteri di natura tecnica, scientifica specificamente legati ad ogni luogo delineato come possibile soluzione. E così di protesta in protesta, di petizione in petizione, tutto legittimo e condivisibile dal punto di vista delle località indicate, senza una strategia che faccia da contraltare, senza una politica dedicata ad un tema scottante sempre e comunque, si parla, si precisa, si delinea, poi tutto torna sotto il livello di guardia con il tacitato assenso a non parlarne se non quando sarà necessario, cioè allo stato delle cose mai.

È per altri versi l’eterna diatriba dilatoria che ci pone la questione del ponte sullo Stretto tra Calabria e Sicilia, continuando a sostenere finanziariamente società ed enti dedicati a trovare e studiare le migliori soluzioni che mai saranno assunte! Così continuiamo a pagare per lo smaltimento di componenti radioattivi altri Paesi soprattutto europei, con costi crescenti e con oneri sempre più di difficile sostenibilità. Intanto il tema del sito di stoccaggio è lì, senza essere visto e senza mai essere preso seriamente in considerazione. Una storia italiana potremmo dire, dell’Italia deteriore che non vorremmo ma che ci portiamo dietro chiunque sia al comando nelle stanze del governo. Una storia infinita appunto, ma più che altro un incubo o alla meglio un vero proprio noir in bilico tra l’appendice letteraria come si usa dire e il thriller vero e proprio.

Come sempre cerchiamo di dare qualche informazione più dettagliata al fine di conoscere meglio il problema senza aspirare a vedere la soluzione e quando essa sarà mai assunta.

L’inventario nazionale dei rifiuti radioattivi, aggiornato al 31 dicembre 2019 (fonte: ISIN), indica che nel nostro Paese sono presenti circa 31.000 m3 di rifiuti radioattivi, di cui 14.000 m3 di rifiuti di attività molto bassa, 12.500 m3 di bassa attività e 3.000 m3 di rifiuti di media attività. A questi quantitativi vanno aggiunti i rifiuti radioattivi ad alta attività che torneranno in Italia dopo il ritrattamento all’estero del combustibile esausto proveniente dagli impianti italiani, e quelli di media attività previsti dalle attività di smantellamento degli impianti nucleari dismessi.

Quindi, complessivamente, il futuro deposito nazionale definitivo superficiale dovrà avere una capacità dell’ordine di 78.000 m3 di rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività. Di questi rifiuti, circa 50.000 m3 derivano dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari per la produzione di energia elettrica, circa 28.000 m3 dagli impianti nucleari di ricerca e dai settori della medicina nucleare e dell’industria.

I rifiuti di media e alta attività (circa 17.000 m3) saranno invece stoccati solo temporaneamente (50-100 anni) in un’apposita area del deposito, per poi essere sistemati definitivamente in un deposito geologico.

Il volume dei rifiuti radioattivi ad alta attività che verranno generati dai reattori nucleari di III generazione (GEN III+) che si intende realizzare ora in Italia, sarà comunque molto limitato: dopo 60 anni di funzionamento dovranno essere immagazzinati 3.000 m3 di scorie per ogni reattore da 1.600 MWe se si utilizzerà la tecnologia svedese, che prevede involucri di rame che richiedono 2 m3 di volume per ogni tonnellata stoccata. Il volume complessivo sarà pari quello di un cubo di circa 14,4 m di lato. Se i reattori costruiti fossero 10, il lato del cubo sarebbe di circa 31 m. Questi 10 reattori coprirebbero più di 1/3 del fabbisogno di energia elettrica dell’Italia. Ma per ora se ne parla come tutto il problema del quale stiamo riferendo.

Proviamo a descrivere ora anche l’aspetto più attuale, quanti centri italiani producono o detengono rifiuti radioattivi? I centri che producono e/o detengono rifiuti radioattivi sono decine: installazioni nucleari (4 centrali e 4 impianti del ciclo del combustibile); centri di ricerca nucleare; centri di gestione di rifiuti industriali; centri del Servizio Integrato. Per volume e livello di radioattività dei rifiuti prodotti, i principali centri sono i siti nucleari in fase di smantellamento.

Appaiono però significativi anche per la loro continuità ed immanenza nonché per la loro numerosità sul territorio nazionale, i centri di medicina nucleare, fra cui gli ospedali. Queste strutture trattengono la maggior parte dei rifiuti radioattivi che producono fino al loro completo decadimento, per poi smaltirli come rifiuti convenzionali.

Quel che resta, viene conferito agli operatori del Servizio Integrato, il sistema di raccolta e gestione dei rifiuti radioattivi sanitari e industriali, che provvedono al loro stoccaggio nei propri depositi temporanei in attesa, previo trattamento e condizionamento, del conferimento al Deposito Nazionale. Per dare un nome alle cose, potremmo dire, in sintesi, quali le principali strutture in cui si producono e/o si stoccano rifiuti radioattivi sul territorio nazionale e che conferiranno questi rifiuti al Deposito Nazionale: si tratta delle quattro centrali in decommissioning (Sogin); in 4 impianti del ciclo del combustibile in decommissioning (Enea/Sogin); di 1 reattore di ricerca CCR ISPRA-1 (Sogin); di 7 centri di ricerca nucleare (ENEA Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo); di 3 centri del Servizio Integrato in esercizio (Nucleco, Campoverde, Protex); ed infine, di un centro del Servizio Integrato non più attivo (Cemerad).

Facciamo ora un altro passo e indichiamo quanti rifiuti vi sono nelle installazioni nucleari Sogin? Come si sa, nel nostro Paese sono state in esercizio, fino alla fine degli anni ’80, otto siti nucleari. Si tratta delle quattro centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta); dell’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo (Alessandria) e dei tre impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). Queste installazioni, insieme al reattore ISPRA-1 situato nel complesso del Centro Comune di Ricerca (CCR) della Commissione Europea di Ispra (Varese), sono state affidate a Sogin che ne cura il decommissioning (smantellamento).

Tale decommissioning costituisce l'ultima fase del ciclo di vita di un impianto nucleare. È l'insieme delle operazioni di mantenimento in sicurezza dell'impianto; allontanamento del combustibile nucleare esaurito; decontaminazione e smantellamento delle installazioni nucleari; gestione e messa in sicurezza dei rifiuti, in attesa del loro trasferimento al Deposito Nazionale.

La Sogin gestisce circa 15.000 m3 di rifiuti radioattivi. I volumi riportati nell’inventario variano di anno in anno col progredire del mantenimento in sicurezza, del decommissioning e delle modalità di condizionamento dei rifiuti pregressi. Vi sono poi i rifiuti dell’attività attuale con produzione di scorie radioattive. Di queste si occupa Nucleco, l’operatore nazionale qualificato per la raccolta, il trattamento, il condizionamento e lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti e delle sorgenti radioattive provenienti dalle attività di medicina nucleare e di ricerca scientifica e tecnologica. Nei depositi temporanei di Casaccia (Roma) sono presenti e gestiti da Nucleco circa 8.400 m3 di rifiuti radioattivi (Fonte: Bilancio di Sostenibilità Gruppo Sogin - 2019).

Non è poi da sottovalutare anzi da guardare con particolare attenzione la gestione illecita e il traffico di materiale radioattivo. In questo ambito i dati provengono e sono raccolti da Legambiente.

L’Italia cosiddetta no nuke, oltre a dover gestire la pesante eredità lasciata dalle centrali e dai depositi nucleari collocati in siti inidonei, pericolosi, geologicamente instabili, a rischio di esondazione, deve anche monitorare e cercare di contrastare i traffici e la gestione illecita di rifiuti e materiale radioattivo. Dal 2015 al 2019 sono state denunciate 29 persone, con 5 ordinanze di custodia cautelare, 38 le sanzioni penali comminate e 15 i sequestri effettuati a seguito di 130 controlli effettuati.

Avviati anche 25 procedimenti penali sulla base del delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, inserito nel 2015 nel Codice penale.

“Occorre trovare una localizzazione trasparente e partecipata per il deposito dei rifiuti a media e bassa attività, chiudere l’accordo per smaltire in un Paese europeo quelli più radioattivi e far entrare a regime il sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti radioattivi previsto dal decreto legislativo 101/2020 che introduce anche sanzioni amministrative e penali in caso di violazioni”, sottolinea Legambiente, che si trova a dover far i conti con il grande problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi, causati anche dall’elevato costo di smaltimento.

Dati nel complesso preoccupanti che dimostrano come il Paese si trovi in uno stato di insicurezza. Per questo per fermare la rincorsa alla “radioattività in nero”, oltre alla realizzazione del deposito nazionale di rifiuti a media e bassa attività e alla piena applicazione della legge 68/2015 che ha introdotto i delitti ambientali nel codice penale, è indispensabile anche la rapida entrata a regime del sistema informatico di tracciabilità di tutta la filiera legata all’uso di materiali e/o sorgenti radioattive, dal commercio alla detenzione, previsto dal decreto legislativo 101 entrato in vigore nell’agosto dello scorso anno e che ha finalmente recepito nel nostro Paese la direttiva Euratom del 2013. Tale decreto ha introdotto l’obbligo di comunicare i dati sulla produzione e gestione di questa tipologia di rifiuti, con sanzioni penali e amministrative nel caso di violazioni: si va dai 10mila euro di sanzione amministrativa per l’inottemperanza agli “obblighi di comunicazione, informazione, registrazione o trasmissione”, ai tre anni di arresto per “chiunque effettua lo smaltimento, il riciclo o il riutilizzo di rifiuti radioattivi senza l’autorizzazione”.

Uno sguardo, infine, anche esso illuminante dello status della situazione in cui si situa il caso particolare Italia, all’Europa. Secondo i dati della Commissione Europea sono 126 le centrali nucleari attive distribuite in 14 Paesi (Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Olanda, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito) che detengono, insieme ai due Stati che hanno intrapreso la strada del decommissioning (Italia e Lituania), circa il 99,7% del volume totale dei rifiuti radioattivi stoccati nel continente. Le ultime stime, riferite al 2016, vedono 3,46 milioni di m3 di rifiuti radioattivi costituiti prevalentemente da rifiuti a molto basso e basso livello di radioattività (il 90% circa), per il trattamento e lo stoccaggio di questi rifiuti sono in funzione 30 impianti distribuiti in 12 Stati membri.

Oltre alle centrali nucleari attive per la produzione di energia, in UE ci sono 90 impianti spenti, 3 in fase di decommissioning e 82 impianti utilizzati in ambito di ricerca, distribuiti in 19 Stati Membri (ai 16 elencati precedentemente si aggiungono Croazia, Polonia e Svizzera) che comunque producono rifiuti radioattivi. Le stime prevedono entro il 2030 un raddoppio dei rifiuti a molto bassa attività, mentre per le altre classi l’incremento sarà tra il 20% e il 50% e molti Stati si stanno preparando ad aumentare il numero di depositi idonei.

Insomma, se volessimo descrivere la situazione con una pianta cromatica, vedremmo l’intero continente accendersi per la presenza di radioattività. Molto più di quanto si pensi. Un bel fardello per tutti e che andrebbe affrontato con una politica comune sui rischi e sui rimedi. Speriamo che anche questa non sia una “storia infinita”!