Una città eterna quanto i suoi misteri. Ricca di storia ed aneddoti poco conosciuti, questa è la Napoli che Palmieri porta a nuova vita ne L’incantevole Sirena. Napoli misteriosa, magica, feroce.

In questa intervista, l’autore mette a fuoco ulteriori punti di indagine ed apre nuove porte sui futuri progetti.

Come nascono i suoi studi sul lato più oscuro ed occulto della città di Napoli?

Quand’ero bambino mi affidavano a una giovane tata, una popolana che raccontava storie favolose, non so se inventate da lei o se gliele avessero tramandate. Anzi, ora come ora neanche saprei dire se fossero del tutto immaginarie. Il fascino di quei racconti era che non si svolgevano in uno scenario esotico o in un passato fiabesco, ma nei dintorni di casa mia e in un presente imprecisato. Perciò, dopo mi parve naturale rivolgere lo sguardo al mistero dei luoghi più vicini.

Abitavamo all’Arenella, zona considerata fino alla prima parte del Novecento quasi un villaggio a sé, tanto che nelle biografie del pittore Salvator Rosa trovate ancora che nacque ad “Arenella, Napoli” (e ciò, con la sua predilezione per certi ambienti stregoneschi, lo fa tra i miei pittori preferiti). Col tempo scoprii che il borgo secentesco delle Due Porte, dove la tata Titina ambientava le sue storie e che si trovava proprio sotto il mio palazzo, era stato rifugio delle ‘fate di Napoli’, ossia della corporazione di lavandaie che si tramandavano di madre in figlia usi e costumi peculiari.

A loro viene attribuita la più antica melopea napoletana: l’invocazione “Jesce sole”. Scoprii anche che lì aveva la dimora di campagna Giovanni Battista Della Porta, autore di un celebre trattato di fisiognomica e dell’imponente Magiae naturalis.

Non è tutto: nella mia, come in molte famiglie napoletane, si è sempre data una certa enfasi al mondo onirico. Ricordate la commedia di Eduardo Le voci di dentro, che gioca sulla labilità del confine tra le cose sognate e la realtà diurna? Era così. Una mia zia era convinta di avere avuto un’apparizione mariana durante la Seconda guerra mondiale, mentre sua sorella era stata una medium a effetti fisici che si dilettava, quando Napoli fu attraversata dalla moda dello spiritismo, a far levitare i tavolini. E mio fratello, ci crediate o no – ma è un fatto – ha vinto parecchie volte al lotto ricavando numeri da scene vissute in sogno. Fu quasi inevitabile che, crescendo, studiassi quel mondo sui libri e sui luoghi, con la gioia di conseguire qualche scoperta.

Quali sono state le sfide nella ricerca per il suo ultimo romanzo, rispetto ai precedenti lavori dedicati alla città partenopea?

Molti e molti anni fa pubblicai un libro intitolato Sole, Luna e Talia. Fu il primo saggio, e per parecchio tempo restò l’unico mai scritto, sulla magia e i misteri a Napoli. Poi sull’argomento cominciarono a uscire altri testi più o meno buoni di diversi giornalisti, che finirono per diventare una sorta di sottogenere seriale, tra la guida turistica e il ‘forse non tutti sanno che…’.

Perciò, quando misi mano a L’incantevole Sirena mi ripromisi di dare all’opera uno spessore narrativo peculiare, cioè non soltanto di rilevare angoli o fatti inediti, e ce ne sono diversi, ma soprattutto angolazioni nuove, dando una voce e un timbro anche a esperienze fatte in prima persona, quelle che nessun richiamo bibliografico può da solo veramente surrogare. Questa è stata la sfida, che spero sia riuscita. Solo qualche anno prima, nel 2015, avevo pubblicato un romanzo, Le due porte, che aveva per ambientazione proprio il borgo secentesco di cui ho parlato sopra, e che considero forse il mio libro più importante: chi lo ha letto avrà potuto comprendere più profondamente certi passaggi de L’incantevole Sirena.

Perché ritiene che Napoli abbia rappresentato un polo attrattivo così forte per personaggi del calibro di Cagliostro e Crowley?

Napoli è una città mondo, crocevia per millenni di stirpi, culture e lingue diverse, quindi di incontri e scambi fra tradizioni misteriche provenienti da tutta l’area mediterranea. Lo rilevava già Petronio nel Satyricon, quando considerava l’enorme quantità di dèi e di riti che vi venivano praticati. Poi ci fu l’innesto del cristianesimo, che si sviluppò edificando chiese sulle colonne spezzate del cosiddetto paganesimo, assimilando nella Vergine Maria anche Iside e Virgilio e preservando culti ancestrali come quello del sangue.

Più tardi alcune tradizioni esoteriche, come la cosiddetta egiziana rivendicata da Cagliostro, sarebbero confluite nella Massoneria giunta dall’Europa con le alterne vicende politiche della città, che nel Settecento assorbì influenze austriache, francesi ma anche apporti culturali inglesi. Il soggiorno di Bulwer-Lytton, trasfuso nel romanzo esoterico rosacrociano Zanoni, rende una buona idea dell’affascinante terreno che rappresentava Napoli per un ricercatore delle tradizioni occulte. D’altronde alcuni grandi nomi come Bruno, Campanella, Della Porta, de’ Sangro o più tardi quelli della scuola ermetica da cui sarebbe emersa la personalità di Kremmerz hanno destato l’attenzione, fino al Novecento, di figure come Crowley, alla ricerca di quel lato isideo dell’occultismo, ormai “egizio” nel senso simbolico e non più geografico, di cui la traccia era ancora rinvenibile a Napoli, benché il ‘mainstream’ dell’occultismo europeo si sia sviluppato, negli ultimi due secoli, essenzialmente in area culturale anglo-francese.

Quali percorsi suggerirebbe ad un visitatore che abbia letto il suo libro e abbia voglia di scoprire di più sul lato misterioso di Napoli?

Se dispone solo di un fine settimana gli suggerisco di visitare San Gennaro in Duomo, la tomba di Virgilio e Castel dell’Ovo, la chiesa delle Anime del Purgatorio in via Tribunali e l’ossario delle Fontanelle, poi una discesa nella Napoli sotterranea sfruttando i diversi itinerari offerti ai turisti. Se ha più tempo, suggerirei di seguire le indicazioni del mio libro verso luoghi, diciamo, secondari: vico Rose, Pendino a Santa Barbara, le Due Porte, Palazzo Donn’Anna.

La cosa più importante è ‘come’ andare. C’è una sorta di trance di cui alcuni visitatori riescono a godere, qualcosa di comparabile alla sindrome di Stendhal e che è complicato spiegare a parole. È quello stato immaginale che cancella provvisoriamente il tempo cronologico, regalando soprattutto a chi è nuovo di un posto la sensazione di vivere in un tempo sincronico, in cui il passato si sovrappone al presente o viceversa. Bisogna dimenticarsi di guardare lo smartphone e l’orologio e abbandonarsi a una specie di ascolto interiore. Vedrete quant’è bello.

Possiamo già chiederle a quali progetti futuri sta lavorando?

A una fiaba napoletana che ha per protagonista un bambino cui una popolana raccontava storie favolose successe proprio sotto casa sua… che neanche saprei dire se fossero del tutto immaginarie…