-Avete un fucile?
Domanda lecita per chi ha vissuto tutta la vita in un villaggio africano a confine con la giungla e si trova improvvisamente in una località sconosciuta, circondato da uomini bianchi e boschi pieni di alberi dalle forme mai viste.
-Ci sono animali pericolosi qui intorno?
-Mah, veramente no.
Rispose l’operatore, preso un po' alla sprovvista dalla curiosa richiesta.
-Ti dico che sarei più tranquillo se potessi avere un fucile… la foresta può riservare sempre delle sorprese.
-Come ti chiami?
-Abdul.
-Ascolta Abdul, hai fatto un lungo viaggio e ora sarai stanco. Non pensi sia meglio recuperare le forze prima ? Guarda, questa è la tua casa – disse indicando una palazzina di tre piani circondata da un grande giardino - qui avrai da mangiare e un letto per dormire. Non ci sono pericoli, puoi stare tranquillo.
Ripeté l’operatore rivolgendosi anche agli altri rifugiati appena giunti al campo.

Quell’ultima espressione gli ricordò molto suo padre. Nel mettere a fuoco la sua figura vide che nell’immagine c’era un fucile. Perchè lui sì che ne sapeva di quelle cose, andava sempre a caccia nei boschi e trascorreva le domeniche a smontare, oliare e rimontare il suo fucile. Diceva sempre che quei boschi erano sicuri, che i lupi dalla fine della guerra non erano più tornati e cervi e cinghiali, seppure in numero crescente, non rappresentavano un pericolo. A meno che non si incappasse in una femmina con i cuccioli, in quel caso, bisognava stare in campana. Una volta deve averne fatto esperienza in prima persona. Inseguito da una femmina inferocita, si era rifugiato su un albero e lì aveva trascorso la notte. Non credo che mamma abbia saputo mai di questa storia perché il padre quando la raccontava mi prendeva in disparte e abbassava la voce, come per non farsi sentire.

-Assaggiala, almeno!
Vincenzo, l’operatore in servizio da pochi giorni, non riusciva a capacitarsi che i profughi potessero rifiutare un piatto di penne al sugo. Eppure, non uno ma diversi profughi avevano da subito opposto alle penne un orgoglioso digiuno. Mentre gli altri si erano buttati su pane e latte. Soprattutto sul latte. Non si trattava di un fenomeno temporaneo. Se un gruppo così numeroso di ospiti di un centro di accoglienza rifiutava in blocco il cibo, una ragione doveva pur esserci, pensò Vincenzo.
-Se avessi fame io mangerei qualunque cosa – ripeteva a se stesso come per convincersi.
Dopo una settimana di trattative estenuanti e una mezza sommossa all’interno del campo, Vincenzo, esasperato, esclamò: “C’è il mondo che viene in Italia ad assaggiare le nostre prelibatezze e voi vi ostinate a mangiare pane e latte, ma, ditemi, siete normali?”.
Non aveva ancora capito.
Poi una sera a casa, parlando del suo lavoro con i genitori, scoprì con sorpresa che entrambi, da giovanissimi, erano emigrati al Nord alla ricerca di una vita migliore. E come i pakistani, anche loro per anni si erano ostinatamente rifiutati di mangiare il cibo locale preferendo attendere i pacchi viveri provenienti dalle loro famiglie o appoggiandosi alla rete di compaesani che, già da anni, trafficavano in vino, olio, formaggio e frutta. Che curiosa similitudine, pensò Vincenzo. Quella notte non chiuse occhio.

Il giorno seguente, ispirato da quelle rivelazioni, andò dal suo capo. Gli organizzatori del campo capirono e accettarono la sfida. E fu deciso un cambio di strategia. Tutti gli ospiti avrebbero avuto la possibilità di reperire le materie prime necessarie per ricreare i propri piatti tradizionali e nessuno avrebbe mai più insistito con le trofie al pesto e i risotti ai funghi. I pakistani, appena videro i primi due sacchi di farina 01 importata da Lahore trovarono la pace e gioirono come bambini nel ricevere aglio, zenzero, cipolle e spezie in quantità. Né mancò il pollo e la carne di montone macellata alla maniera giusta. Nel giardino del centro fu costruita una tettoia di lamiera ripiegata a protezione di una piazzola dove ogni giorno, avrebbero potuto accendere un grande fuoco. E su quel fuoco ci cucinarono per mesi più di 25 persone, ogni giorno. A pranzo e a cena.

Poco distante, con un’altra lastra di metallo semi arrugginita, fu approntato anche un forno rudimentale dove poter cuocere il chapati – un pane basso non lievitato – alimento base di una grande fetta di mondo, dal Medio Oriente fino alle pendici dell’Himalaya.

Ebbi varie occasioni di partecipare a queste cene e tutte le volte mi emozionai moltissimo. La gioia che traspariva dai volti di quelle persone impegnate a cucinare il proprio cibo – era contagiosa. Ogni pasto diventava una celebrazione della vita.

Cercavo di immaginare i genitori di Vincenzo, lontani da casa, con le loro preziose salsicce piccanti da centellinare per farle durare più a lungo, poi guardando il pentolone gigante dei profughi sulla fiamma viva ripensavo alle nostre sagre estive, all’euforia – ma forse sarebbe meglio chiamarla memoria collettiva – che si diffondeva tra la gente per l’eccezionalità del mangiare fuori tutti insieme, ma anche dovuta al fatto di poter mangiare con la carne con le mani.

O, chissà, forse anche solo per la vista del fuoco.

Compresi meglio l’intensità emozionale e i riflessi profondi di ognuno di quei pranzi e di quelle cene. Guardando giù verso la pianura illuminata, ripensai alle nostre vite così spesso distratte, alle nostre pratiche alimentari affrettate. Mi vennero in mente anche tutti i miei amici che a quell’ora stavano affollando qualche pizzeria rumorosa dopo aver lottato per trovare un parcheggio.

E sorrisi volgendo lo sguardo alla brigata impegnata a turno a mescolare la carne di montone.

Qualcuno cantava, qualcun altro cercava di cogliere l’ultimo richiamo del Muezzin al telefono, mentre ad ogni nuova rimestata la pentola traballava pericolosamente e migliaia di lapilli incandescenti salivano di colpo al cielo disperdendosi nell’oscurità.

Avevamo anche diversi profughi africani nel campo. Anche loro sembravano aver gradito le nuove direttive riguardanti il cibo. Si trattava per lo più di ragazzi provenienti da Ghana, Mali e Nigeria. Successivamente si sarebbero aggiunti alcuni ragazzi somali. Ogni gruppo aveva ovviamente la propria cucina. Un intreccio di profumi e gusti formidabile che si aggiungeva alla già ricca e speziata varietà di sapori del cibo pakistano e bengalese.

C’era un giovane maliano che, al momento dei pasti, restava da solo. Però non sembrava che questa sua condizione fosse un problema per lui. Non era un reietto o qualcosa del genere, anzi, si sentiva come un’aura di prestigio intorno alla sua figura, non a caso era rispettato da tutti. A volte lo osservavo cercando di incrociare il suo sguardo. Quando succedeva, lui mi rispondeva con un timido sorriso. Era molto alto, magro. I suoi occhi, scurissimi, avevano una luminosità strana. Quando gli altri ospiti capirono che stavo cercando un contatto con lui cercarono immediatamente di farmi desistere. Perchè lui era uno stregone. E questo, forse, spiegava il suo isolamento.

Lasciai passare qualche settimana e poi una sera ruppi gli indugi e tornai alla carica e con il mio piatto di riso mi sedetti al suo tavolo. Non ne fu sorpreso. Nel suo piatto notai un mezzo pollo arrostito e una ciotola di Fufu leggermente ammollato in una specie di brodino caldo.
-Ciao Francesco – mi disse.
-Mi chiamo Aliou – aggiunse subito dopo.
E come se nulla fosse ritornò a mangiare il suo pollo.
Mangiai il mio riso osservando le dita delle sue mani, incredibilmente lunghe, ancora più appariscenti perché lucide, sembrano rami bagnati impigliati nell’ansa di un fiume.

Anche la settimana che seguì mi sedetti al suo tavolo. Gli altri ragazzi africani cominciarono a guardarmi con preoccupazione. Nel piatto di Aliou, c’erano anche quella volta i resti di un pollo e la ciotola con il Fufu. Restai a guardarlo mentre si arrotolava una sigaretta.
Lui mi sorrise e poi con un filo di voce disse:
-Tuo figlio come sta?
-Bene!
In realtà stava attraversando un periodo di forte crisi ma Aliou questo non poteva saperlo.
-Vuoi fumare?
-No grazie!
-Posso farti una domanda Aliou?
-Prego!
-Come mai mangi sempre da solo?
Aliou mi guardò senza rispondere.

Poi venne il giorno in cui mi offri una parte del suo pranzo. E fu così che poco per volta, pollo dopo pollo – è il caso di dirlo – entrai nel suo mondo. Già al decimo – ne mangiavamo due alla settimana – i nostri discorsi erano cambiati. Dai primi convenevoli eravamo passati alle questioni più personali. Al quindicesimo pollo mi portò giù in dispensa e mi mostrò orgoglioso un freezer stipato di polli confezionati singolarmente.

Al ventesimo mi sentii libero di osare e provai a chiedergli qualcosa di più sui suoi poteri. Quella volta, ricordo, fu elusivo e rimasi deluso. Al ventottesimo, pur sempre con quel piacere leggero che la presenza di Aliou mi procurava, ebbi per la prima volta la sensazione che dietro alla storia dei polli ci fosse qualcos’altro. Pensai ad una specie di percorso iniziatico. Non sapevo assolutamente dove mi avrebbe portato e devo dire la cosa non mi preoccupava. Godevo della presenza di questo uomo e guardavo con fascinazione al suo mondo magico. Un giorno però non mi trattenni.

-Ma tu perché mangi sempre pollo? Non che mi dispiaccia, sia chiaro... e amo mangiarlo con te ma...
-Si tratta di un gioco - mi rispose - ma è un gioco serio.
-Come un gioco? Non capisco…
-Forse è bene che ti racconti tutta la storia. Quando ero un bambino abitavo con la mia famiglia nella periferia di Bamako. La città si ingrandiva ogni anno di più inglobando zone rurali e piccoli villaggi. I miei genitori, come altri che abitavano là, erano gente di campagna, totalmente estranei alla realtà urbana. Mio padre era stato per tanti anni un Marabout nel villaggio, venerato dalla gente, poi però, pur professando il credo musulmano, aveva avuto accese discussioni con le autorità religiose della Moschea vicina, che non vedevano di buon occhio alcune sue pratiche. Così aveva deciso di dedicare più tempo alla campagna anche perché la famiglia ogni anno cresceva. Al confine con la terra di mio padre abitava un certo Salif, un tipo un po' losco che allevava galline e non amava particolarmente i bambini. Ogni settimana sgozzava una ventina di polli e li arrostiva per venderli al mercato. A quell’epoca avevo un compagno di scuola di nome Gora con il quale ero spesso in giro. Un giorno quel ciccione di Salif ci sorprese a giocare con le sue galline e ci spaventò a morte urlandoci parole orribili e strattonandoci con violenza. Per questo motivo io e Gora decidemmo di vendicarci e l’occasione giunse due giorni dopo, quando al mercato, riconoscemmo il carretto del Salif con i venti polli allineati e capimmo anche che lui stava dormendo. Così, senza rimorsi, rubammo tutti i polli. Non solo, dopo aver individuato un comodo posto all’ombra di un banano, li mangiammo tutti.
-Tutti?
-Sì, tutti!
-Non solo, quel giorno decidemmo di celebrare la nostra amicizia e poiché presentivamo che non saremmo stati vicini per sempre stabilimmo che ognuno di noi avrebbe mangiato non 20 ma 100 polli ogni anno a patto di condividerli in segno di amicizia o con una persona in quel momento speciale per noi. E quello, oggi, sei tu, Francesco.
-Ah, ma che onore! Aliou, questa nostra amicizia mi è preziosa!
-E, detto tra noi, mi solleva anche sapere che dietro a questa curiosa pratica, c’è solo una bella storia di amicizia.

-Il tè deve essere scuro come la notte, forte come l’uomo che ama, dolce come la sua donna - diceva Malik, indiscusso maestro della cerimonia del tè africano che qui viene preparato e consumato in quantità, ogni sera. Non ho mai chiesto perché lui avesse questo ruolo di prestigio – e di potere – forse semplicemente dovuto alla sua età matura anche se le gerarchie tra gli africani sono per noi spesso incomprensibili. Quando Malik prende il tegamino semi-arrugginito per far bollire cala il silenzio. E quando il tè è pronto – ma quanto zucchero ci mette dentro?? - nessuno sgomita per averne una tazza ma resta in paziente attesa. Il braccio che regge la teiera di alluminio si alza e si abbassa seguendo quella danza tipica delle genti del deserto, mentre intorno si diffonde il profumo della corroborante bevanda. Il rito del tè è il tempo dei racconti. La conversazione inizia subito a serpeggiare in direzioni diverse.

-Io se trovassi una donna svedese, anche vecchia, andrei con lei.
-Cosa vuoi dire?
-Su Facebook ci sono tante occasioni di incontro. Le donne svedesi sono libere e spesso ricche. Potrei tranquillamente chiedere 2000 euro al mese e diventare il suo ragazzo. Ogni tanto andrei a trovarla in Svezia, o lei verrebbe da me. Ma non chiederebbe di più.
-In che senso?
-Nel senso che non diventerà mai mia moglie, questo è solo uno scambio.
-Se tu trovi una donna così per me io posso dare a te 500 euro ogni mese. Possiamo fare business. Conosco amici della Guinea che hanno trovato. È facile. Donna bianca lei sempre contenta di stare con giovane africano.

La teiera ritorna sul fuoco, nel frattempo si è fatta notte e nel cielo sono apparse le prime stelle. Nessuno sembra avere sonno anzi, si va avanti a oltranza a bere il tè e l’energia cresce. La cosa curiosa è che durante questo rito non si vedono i telefoni, i ragazzi sono più interessati a ciò che viene detto oppure si raccontano e il tono delle conversazioni è sempre molto pacato, a volte addirittura solenne.

-Tu credi all’esistenza dei draghi?
Si sente una voce nell’oscurità.
-Io sì.
-Ne hai mai visto uno vivo?
-No. Ma conosco una persona fidata che uno l’ha visto... me l’ha raccontato una volta che sono andato a trovarlo al suo villaggio. E mi ha anche mostrato il luogo dove è successo. Il terreno era ancora bruciacchiato… Esclamazione di stupore generale.
Qualcuno aggiunge legna sul fuoco. La notte avanza e il cielo viene rischiarato da una luna gloriosa.
-Ragazzi, vi ricordate i cieli di notte nel deserto?
Una nuova voce, apparentemente mai udita prima, si impone e dice:
-Sì! C’erano molte più stelle.
-Anche di notte, in mare, ricordo grandi cieli stellati.

A pochi metri di distanza, al primo piano della casa, ci sono i pakistani. Anche loro bevono il tè ma lo fanno distesi sui loro letti. I telefoni trasmettono voci e musiche orientaleggianti e si consumano dolcetti alle mandorle e miele. La bevanda scura è mescolata al latte e ha semi di cardamomo fresco che galleggiano in superficie e zucchero in quantità. L’atmosfera e conviviale e gaia. Le loro conversazioni, restano purtroppo totalmente incomprensibili, perché fatte nella loro lingua.

Al quarantesimo pollo – fatto in tegame con aromi e burro di arachidi – scopro che Aliou è stato segretamente un allievo del padre e grazie a lui ha sviluppato le facoltà tipiche del guaritore tradizionale africano: vaticinio, diagnosi e cure a distanza, viaggi astrali, protezione in casi di quello che noi definiremmo “malocchio”, creazione di amuleti curativi fino ai filtri d’amore.

Aliou lavora soprattutto di notte, moltissimo con il telefono e l’ho sentito movimentare sostanze ed erbe africane via Parigi, per posta, in tutta Europa. È impressionante sentire i suoi racconti, mai prima di allora avevo avuto una percezione tanto netta della influenza delle forze del cosmo sull’essere umano.

Al quarantacinquesimo pollo mi aprii totalmente a lui ed espressi la mia grande preoccupazione per mio figlio adolescente che stava imboccando con decisione la via della cannabis.

Mi rassicurò. E non si trattò di espressioni di generica comprensione ma di considerazioni precise legate ad esperienze ed eventi della mia vita di cui Aliou, anche questa volta, non poteva essere a conoscenza. Ero senza parole.

Preparammo anche una pozione di guarigione, ricordo dovetti andare in missione a recuperare dei capelli di mio figlio da mescolare a erbe e chissà cos’altro.

Per alcune settimane versai gocce del magico liquido sul cuscino del suo letto. Mi sentivo un po’ pazzo, provavo un segreto scetticismo ma, allo stesso tempo, avevo fiducia in lui.

Al cinquantaduesimo pollo – questo non me lo dimenticherò – Aliou mi disse che le forze negative avevano mollato la presa e che ora mio figlio avrebbe potuto condurre una vita serena. Mentre spolpavo felice una coscia con la pelle cosparsa di paprica sentii montare dentro di me una forte resistenza e fui assalito da mille dubbi. Difficile credere a quello che era successo. Poi giunse una telefonata. E già dal tono della voce di mio figlio capii che qualcosa era cambiato veramente.

Una sera si presentò al centro un giovane nigeriano di nome Idowu, un ragazzone ospite del nostro centro già da alcuni mesi. Sulle spalle portava un grosso tasso morto.
-È stato investito da un’auto - disse - ero lì quando è successo. È ancora caldo - aggiunse come se arrivare a casa con un tasso sulle spalle fosse una cosa normale.
-Ma cosa intendi farne? - chiese allarmatissimo Sahal, un ragazzo somalo dagli occhi grandi e dal volto scavato.
-Ma che domande! Mangiarlo!
-Oh no! Urlò subito un altro. Quell’animale nel mio paese non si mangia!

Nel frattempo, in cucina si era formato un gruppetto di persone. Nessuno aveva il coraggio di toccare il tasso. Sul pavimento si era già creata una larga chiazza di sangue.

In mezzo a tutto quel brusìo Idowu non si fece distrarre un attimo e fu subito chiaro a tutti che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato al suo progetto. Si procurò un grosso catino da bucato e mise sul fuoco la pentola più grande dopo averla riempita d’acqua. Subito dopo vi immerse l’animale cominciando a raschiargli via la pelliccia con l’ausilio di un coltello molto affilato.

-Nel mio villaggio ogni sabato pomeriggio c’era un mercato dedicato alla bush-meat. Lì vendevano di tutto, anche animali come questo e poi scimmie, topi della savana, coccodrilli di tutte le misure... Una prelibatezza, credetemi. Disse guardando la platea di ragazzi increduli che nel frattempo si era riunita in cucina.
-Attento! Quell’animale è il diavolo! Ricordo lo diceva sempre mio nonno… esclamò ad un certo punto un ragazzo originario della Sierra Leone.
-Lasciatemi fare... lasciatemi fare - aveva risposto di tutto punto Idowu.
-Già so che poi vorrete assaggiarlo tutti!

Intanto aveva quasi completamente “spogliato” il tasso dalla sua tipica pelliccia bicolore. Non tutti i profughi presenti erano ostili, qualcuno provvide ad accendere un fuoco nel terreno antistante la casa e Idowu poté così iniziare subito ad abbrustolire la carcassa per togliere gli ultimi peli e farla gonfiare come un pallone, un’operazione che, a quanto pare, agevolava la successiva opera di svisceramento.

Nel frattempo, preoccupato dalla crescente agitazione dei ragazzi, mi consultai con il direttore del campo, che rise di gusto ascoltando il mio racconto – forse immaginandomi alle prese con quella situazione così inconsueta... poi mi rivelò che i tassi, fino a cinquant’anni fa facevano parte dell’alimentazione locale insieme a cinghiali e cervi. E, a quanto pare, anche le volpi. Quindi nessuna restrizione (io pensavo fosse addirittura una specie protetta. Nell’istante preciso in cui ebbi terminato la chiamata il tasso fu appeso sopra il lavello della cucina e aperto in due per tutta la sua lunghezza. Un odore intenso e pungente di selvatico si diffuse improvvisamente nel locale rendendo l’aria irrespirabile. Molti ragazzi si allontanarono. I pochi rimasti procedettero con le operazioni di macellazione mentre un grosso pentolone con acqua, patate e cipolle raggiungeva il bollore.

Era tardi, oltre mezzanotte. Mi congedai dal gruppo abbastanza tranquillo e feci in tempo a cogliere nel volto di Idowu, il riflesso di una possessione quasi ancestrale. Non l’avevo mai perso di vista. Non c’era stato mai un attimo di esitazione nei suoi gesti, chi l’avesse visto avrebbe pensato veramente di essere di fronte ad un cacciatore, non ad un ex camionista. Chissà quante cose ignoravamo della sua vita – pensai.

Il pentolone – con testa di tasso sporgente per mancanza di spazio - dopo quella notte scomparve. Solo parecchi giorni dopo seppi che era stato posto in un luogo molto sicuro, sotto il letto di Idowu – una pratica abbastanza comune tra i ragazzi nigeriani per evitare furti di cibo. Lì rimase per parecchi giorni. E seppi anche che moltissimi bussarono alla sua porta con il piatto in mano. Anche alcuni insospettabili.

Quando si pensa a questa cucina affollata e bellissima, quando si ammirano tutti questi uomini impegnati nella preparazione dei pasti non bisogna dimenticare che gran parte di queste mansioni, nei loro Paesi d’origine, sono esclusiva delle donne. Quindi, salvo eccezioni - cuochi professionisti ecc. - tutto quello che si vede è improvvisato, basato sul ricordo. Ma non per questo meno importante e di valore.

Colpisce comunque la precisione, la cura, la devozione. Non si vedono gesti casuali. Il risultato, nella sua semplicità, è impeccabile. Il riso non è mai stracotto o il pollo troppo salato. Cucinare per tanti poi aumentale difficoltà.

Mi commuove questa comunità di esseri umani che due volte al giorno accende il fuoco e prepara da mangiare. A pochi chilometri di distanza si accalcano le persone nei supermercati, molti scongeleranno frettolosamente - ma perché tutta questa fretta? - qualcosa, altri opteranno per una pizza, mangiata in un locale affollato e rumoroso, dopo aver atteso a lungo per avere un tavolo.

Quassù ad ogni boccone si attizza un ricordo che non si vuole perdere. Oggi c’è riso con pollo allo zenzero. Domani spezzatino di montone al curry con verdure.

E sempre, ad accompagnare, enormi chapati dorati, morbidi e fragranti, impastati senza lievito usando una farina che viene dal Pakistan, una farina corposa, simile alla nostra 1 semi integrale. Acqua, sale, tutto con le mani, fino all’ultimo passaggio, quando i grandi cerchi di pasta, simili alle nostre pizze anche se più sottili, vengono stesi sopra ad un pezzo di lamiera arrugginito, fresato solo dove serve e dove picchia ora la fiamma viva sottostante. Sequenza velocissima, prima un lato poi l’altro concludendo con una passata di burro, pratica diffusa soprattutto in inverno nella zona Nord del Paese, dove le montagne confinano con Afghanistan e India. In questo istante ci sono milioni di persone intorno a fuochi rudimentali, donne, bambini… anziani. Qui mancano le famiglie, ci sono solo uomini, ma il resto è molto simile. Anche il freddo che viene da Nord, anche le scintille che si liberano ogni tanto dal fuoco e si perdono nell’oscurità mescolandosi alle stelle.

Certo che è un privilegio lavorare in un centro di accoglienza come questo. Dal momento in cui i vari gruppi (africani, pakistani, bengalesi) iniziano ad attivarsi in cucina, fino a quando si va a tavola è una festa per gli occhi e per l’olfatto. Regna sempre un caos incredibile e vitale. Le lingue si mescolano ai profumi, non vale il motto: due cuochi ai fornelli...perchè qui i cuochi non si contano. Nel grande spazio adibito a mensa vengo regolarmente strattonato e invitato a sedermi a tavola per condividere il cibo, a volte anche solo per assaggiarlo e onorarlo simbolicamente. Per me un piacere che si rinnova. Anche se non sempre come si potrebbe pensare.

Ad attendermi, in fondo alla sala, c’è lui, Rhaman Baul, un giovane del Bangladesh, originario di Bathuadi, un villaggio situato sulle rive del grande fiume Meghna. Lui qui è solo. Scappato dal suo Paese e con una storia tragica piena di violenza alle spalle. La maggior parte degli ospiti del centro ha storie terribili ma il fatto che stiano sempre in gruppo stempera il ricordo di tutto quel male.

Per Rhaman non è così. Lui è solo. In Bangladesh viveva a bordo di una piccola imbarcazione tradizionale insieme alla giovane moglie. Era un pescatore. La sua specialità era la pesca del pesce gatto, una specie molto richiesta dalla comunità locale. Tutto andò bene fino al giorno in cui arrivarono dei loschi individui e cominciarono a pretendere il pizzo e a minacciare.

Rhaman non si fece intimorire. Seppure analfabeta chiese aiuto alla polizia. I poliziotti gli risero in faccia e a loro volta gli chiesero soldi. I ‘cattivi’, nel frattempo erano tornati e si erano presi tutti i pesci della giornata. Rhaman li insultò pieno di rabbia. Poi una notte di pioggia tornarono e presero sua moglie. Il giorno dopo fu trovata senza vita, nel fiume. La sua amata Geldar. Era tutto per lui. Rhaman prese la barca e si spostò a Sud, in un villaggio chiamato Halipur. Seppure distrutto dal dolore sentì di aver fatto la cosa giusta. Doveva salvarsi.

Trascorsa una settimana, mentre era al mercato a trattare la vendita di un cesto di pesci gatto, la sua barca prese fuoco e nessuno intervenne per salvarla. Rhaman quel giorno rimase senza niente. Visse per alcune settimane in un pollaio, ai margini del villaggio. Apparve un giorno un uomo di nome Jawir, anche lui pescatore. Gli parlò dell’Italia, gli disse che stava partendo, che lì c’era una comunità di bengalesi e anche lavoro per tutti. Molto lavoro. Rhaman partì con lui.

Ogni tanto mangiamo insieme. Lui mi invita spesso e lo fa con uno sguardo. Si preoccupa di trovarmi una ciotola e travasa parte della sua zuppa.

In una acquetta torbida galleggiano delle carote e delle patate e teste di pesce gatto che Rhaman ha trovato in vendita, secche, in un negozio di alimenti etnici in città. Coperti dal frastuono di africani e pakistani io e Rhaman consumiamo il nostro pasto in silenzio. Si tratta ogni volta di una esperienza toccante ma anche penosa. Quella zuppa liquida che non finisce mai sembra alimentarsi di lacrime e pioggia. Lo guardo e mi chiedo cosa pensi, come possa un essere umano sopravvivere alla sua vita, quando la vita è così dura. Immergo il mio cucchiaio nel brodo con le verdure che sembrano alghe e mi perdo con lui sul fiume, nella notte.

Il vecchio guardia pesca, nascosto nel bosco, osserva già da qualche minuto il gruppo di ragazzi pakistani che si muove circospetto sulla riva del torrente. È estate. I giovani sono a torso nudo, i capelli nerissimi, bagnati, pettinati all’indietro come uomini di altri tempi. Tutti intenti a guardare nelle pozze turchesi, curiosi, senza parlare.

Poi, all’improvviso, uno di loro, con gesto rapido afferra qualcosa nell’acqua: è una trota argentata, un esemplare di tutto rispetto. I ragazzi festeggiano, tutti vogliono toccare il pesce appena catturato. Ma eccone un altro! E un altro ancora. Prodigiosi quei ragazzi- pensa tra sé l’anziano guardiano. Sono anni che i pescatori locali non cavano un ragno dal buco in quel torrente. Qualcuno ha anche scritto un articolo su un giornale locale per denunciare lo stato di abbandono del corso d’acqua. Poi eccoti un manipolo di ragazzi provenienti dalle pendici dell’Himalaya a mostrarci che a casa loro pescare con le mani è pratica comune.

Aumenta intanto il numero delle trote allineate sulla roccia, qualcuna è visibilmente fuori misura ma il guardia pesca, ha già deciso, non interverrà. Rapito e commosso da quella visione, non ha alcuna intenzione di perdersi quello spettacolo. Sgorgano come acqua di sorgente ricordi lontanissimi. Lo sguardo del nonno su di lui bambino, il suo sorriso. E le sue mani, capaci di scovare e catturare grandi pesci argentati. Impareggiabile nonno! Una magia che per tutta la vita non aveva saputo spiegare.

Si fa presto a dire pesce! Basta qualche pranzo con amici africani per scoprire che non solo esistono ricette molto lontane dalla nostra tradizione ma anche specie di pesci che qui da noi non esistono proprio. Per questo se vi dovesse capitare di accompagnare degli africani a fare la spesa non stupitevi se li vedrete immobili e inerti davanti al bancone del fresco o incapaci di esprimere emozioni di fronte ai nostri scamponi e alle nostre orate, per noi materia prima di pregio. Se quei pesci sono creature aliene allora si può forse comprendere meglio come mai del cat-fish secco proveniente dal Delta nigeriano possa essere un ingrediente ambito e fondamentale. Fortunatamente lo si può trovare in qualsiasi negozio di alimentari etnici delle nostre città.

Unica eccezione a tutto questo, forse, i muggini nostrani, pesci quasi scomparsi dai banchi dei nostri mercati - e particolarmente apprezzati, forse perché assomigliano a specie africane, chissà... La loro carne è senza gusto e molliccia, una poltiglia biancastra piena di lische. Esternamente i pesci sono completamente ricoperti di squame che, come ho potuto osservare in varie occasioni, non vengono tolte prima della cottura. Si usa friggerli in abbondante olio di palma e impilarli in un piatto dove vengono consumati insieme a riso bianco e a una salsa di pomodoro, cipolle e peperoncino di un piccante inverosimile, roba per palati forti. Il cat-fish secco invece viene fatto rinvenire nell’acqua e poi aggiunto allo spezzatino di carne di manzo e verdure con l’aggiunta, anche in questo caso di peperoncino fresco in abbondanza.

Difficile credere che un Paese enorme, con fiumi immensi e chilometri di costa sul mare, come la Nigeria, importi tonnellate di stoccafisso dalla Norvegia. Quella del pesce secco, che ho notato essere una parte essenziale della dieta di molti africani, è stato per lungo tempo per me un mistero. La risposta è giunta un pomeriggio di un giorno qualsiasi mentre parlavo con due donne nigeriane intente a cucinare.

-Il pesce è materia velocemente deteriorabile, specialmente per il caldo - mi ha detto Leslie, una giovane madre intenta a preparare la cena con la sua bambina saldamente legata alla schiena.
E pochissimi possiedono un frigorifero. Quindi è diventato inevitabile per molti nigeriani usare pesce secco, di varia provenienza. Lungo la costa invece il pesce fresco è abbondante e ci sono grandi mercati, ma viene consumato immediatamente. Nella zona del Delta, un territorio immenso dove abitano 30 milioni di persone, i corsi d’acqua sono stati inquinati dagli scarti della lavorazione del petrolio e i pesci puzzano e sono immangiabili.

Chissà a cosa pensa il mio amico nigeriano Lucky tutte le volte che resta ad osservare per ore il bancone del pesce del nostro supermercato locale. Le possibilità di scelta alla fine si restringono e si finisce sempre per scegliere il persico gigante egiziano o il muggine di cui vi ho parlato sopra. Alla commessa non pare vero di poter incartare quattro grossi muggini, non è la prima volta che serve il cliente africano. I muggini ormai li compravano solo i vecchietti con pochi soldi in tasca.

Una volta a casa Lucky aspetta il suo turno e quando è ora di pranzo si mette a torso nudo e con un grosso coltello sviscera i suoi pesci. Nel frattempo, nel tegame basso sfrigola abbondante olio di palma. Con i tranci di muggine ambrati e croccanti costruisce una curiosa struttura a strati sovrapposti – così resta caldo, mi dice – che smantellerà pochi minuti dopo mangiando la polpa molliccia e sputando lische e squame dimenticate in un piatto a parte.

La sua mano unta si sposterà di tanto in tanto anche verso un piatto di riso scotto, modellando abilmente piccoli bocconi della giusta misura per essere ingoiati interi.

Una cosa è mangiare le costine di maiale con le mani trascinati dall’euforia di una grigliata tra amici, un’altra è aver vissuto mangiando sempre e solo con le mani. Essere cresciuti così, insomma. Quante volte ho pensato a questa cosa mangiando con gli ospiti del centro.

Ecco lunghe dita nere che affondano nel sugo piccante. Il leader del gruppo - in Africa probabilmente sarebbe il capo famiglia - si preoccupa che l’ospite abbia il pezzo di carne più bello o più grande. Nel frattempo, l’appetito cresce, il Fufu, strappato dal piatto di portata, è stato rigirato più volte nel palmo della mano ed è pronto per essere immerso nella pentola dello spezzatino. L’operazione verrà ripetuta decine di volte, velocemente. Con naturalezza. Ogni tanto le mani vengono passate in una ciotola piena d’acqua. E si riprende. Ogni mio tentativo di emulazione è goffo. Il piacere però c’è e resta, rimembranza forse di trasgressioni infantili.

Il contatto con il cibo è esperienza impagabile, si sa.

Le dita impregnate di sapori di cucina che anche dopo il pranzo continuano ad effondere i loro profumi è qualcosa che non si dimentica e che purtroppo poche volte ci permettiamo.

Carne! Carne! Carne! Dio mio ma quanta carne mangiate? Non vi sembra di esagerare?
-La carne dà energia! - tuona Idowu, il cacciatore di tassi (chi se non lui?).
-La carne ti fa il cazzo grosso e duro – afferma con decisione Gora, arrivato da poco dal Niger.
Certo è che specifici tagli di carne portano benefici a zone del corpo precise. Un enorme ginocchio bovino cotto per ore a fuoco lento in modo che le parti cartilaginee si sciolgano fino a creare un brodo denso e torbido è l’elisir energetico per eccellenza.

Occlusioni intestinali capitano sovente da queste parti, ma anche emicranie e dolori addominali. Allora parto all’attacco: "Che ne diresti di mangiare solo verdure e riso per un paio di giorni?" Dico.
Da lontano, a farmi da spalla, giunge l’accorata raccomandazione del medico: ridurre la carne, interrompere il piccante, che infiamma le mucose.
Sono queste parole che cadono nel vuoto.
-Se non mangio la carne perdo subito i miei muscoli - afferma con sicurezza un nerboruto ospite senegalese.

Irremovibili giungono puntuali all’appuntamento del mercoledì con la spesa dal macellaio arabo che seziona con meticolosa precisione un enorme fianco di mucca. Ma c’è anche spazio per una coscia di montone o delle ali di pollo che hanno il vantaggio di costare poco.

Il dolore alla pancia verrà tenuta a bada con un provvidenziale antidolorifico, mentre una volta giunti a casa, come ogni giorno, non ci si perderà in chiacchiere e subito quattro grosse cipolle verranno tagliate e messe a sfrigolare nell’olio di palma. Seguiranno quattro o cinque peperoncini freschi, liberati dai semi e subito la carne, grossi pezzi di carne bovina tagliata in un modo sconosciuto, completa di filamenti grassi e parti ossee.
Da succhiare, una volta cotti, tenendoli saldamente con le mani.

Giunse anche il fatidico giorno del centesimo pollo e Aliou mangiò la sua metà con voracità e in silenzio. Il pollo era cotto come altre volte nel forno con un goccio di olio di palma e molto aglio. Invece del riso o del Fufu questa volta la teglia era stata riempita con piccole patate novelle, diventate come d’oro per la cottura.
Succhiato anche l’ultimo ossicino Aliou mi invitò ad uscire in giardino e si apprestò a far bollire dell’acqua sul fuoco per preparare il tè.
Nel porgermi il primo bicchiere - gesto rituale di rispetto per l’ospite - mi guardò e sorrise.
-Hai qualche desiderio? - mi chiese con fare pacifico - in tutti questi mesi tu non mi hai chiesto mai nulla. Io oggi vorrei fare qualcosa per te... vorrei esaudire un tuo desiderio profondo. Dopo aver mangiato cento polli si diventa come fratelli, sai?
Lo guardai con un misto di curiosità e ansia. Eravamo soli nel grande giardino assolato, la maggior parte dei ragazzi si era ritirato nelle proprie camere. Mentre fantasticavo lasciando libera la mente, sentii Aliou prendermi la mano e questo gesto, per me inizialmente imbarazzante, ebbe però subito un effetto calmante.
-Ti porto dove desideri andare.
Furono le sue ultime parole. Chiusi istintivamente gli occhi e non ebbi più il coraggio di riaprirli, almeno fino a quando sentii cessare una forte pressione su tutto il corpo. Quando aprii gli occhi mi trovai sulla riva di un grande fiume verde. Volsi lo sguardo verso Aliou che mi rispose con un sorriso.
-Guarda - mi disse.
Davanti a me, lungo una spiaggia di argilla rossa, c’erano molti bambini e alcune donne con vesti variopinte. Tutti si apprestavano a salire su di una imbarcazione in legno scavato su cui già si trovava un uomo pronto a governarla con un remo rudimentale.

Non riconobbi il luogo esatto ma l’ambiente intorno cominciò a essermi familiare e chiesi informazioni ad Aliou, il quale, senza mai mollare la presa della mano, disse:
-L’hai riconosciuto eh? Sì, è il fiume Niger. Siamo a un giorno di navigazione da Dangouma.

Quando udii quel nome rabbrividii, il corpo riprese a vibrare e dovetti piegarmi in avanti e chiudere gli occhi per proteggermi da una grande luce. Mi ripresi dopo un tempo indefinito. Con tutto il turbamento la fascinazione proveniente da quella incredibile esperienza, mi sentii felice ritrovarmi nel giardino, con i ragazzi. Una brezza leggera aveva preso a spirare proveniente dalla montagna. Vidi Aliou a pochi passi da me. Appena si accorse della mia presenza mi venne incontro con il suo passo lento e mi abbracciò.

Trascorsi il resto del giorno come sospeso, scisso tra incredulità e piena accettazione di ogni possibilità, anche la più sconcertante. Il giorno successivo pensai di avere sognato, convinto che Aliou, con i suoi poteri, mi avesse guidato in un sogno lucido o qualcosa del genere.

Poi dalla cucina mi chiamò mia moglie chiedendomi dove diavolo fossi stato nei giorni precedenti perché le suole delle scarpe erano incrostate di una argilla rossa dalla tinta persistente che lei stava disperatamente cercando di togliere.