Tra le tante stragi compiute in Sicilia nell’ultimo ventennio del secolo scorso, tutte ad opera di Cosa Nostra, alcune hanno richiamato l’attenzione e lo sdegno nazionale e internazionale, non solo nei tempi immediatamente successivi alla loro esecuzione, ma anche a distanza di decenni; altre invece a distanza di tempo appaiono passate in secondo piano, poco ricordate sul piano storico e giornalistico, se non nella memoria degli scampati e dei familiari delle vittime. A confermare la disattenzione generale (che questo modesto articolo tende, sia pure in misura minima, a compensare) si segnala la scarsissima produzione saggistica sull’argomento, composta da un saggio di Lucarelli e da brevi saggi sulla rivista Antimafia 2000, se non vi fossero i tre importanti libri scritti dallo stesso magistrato contro il quale l’attentato era diretto, Carlo Palermo. Si tratta di L’attentato, Il quarto livello e più di recente La bestia del 2021. I motivi di questa rimozione della memoria non sono chiari, a meno che non si tratti di una sorta di patto del silenzio, che i poteri occulti contro i quali Carlo Palermo aveva diretto le sue indagini, avevano imposto sulla vicenda.

Una prima precisazione è doverosa: se Cosa Nostra ne ha curato sempre l’esecuzione non sempre lo ha fatto di propria iniziativa e per interessi propri. Quest’ultima categoria riguarda gli omicidi avvenuti all’interno delle famiglie mafiose, nel contesto di scontri determinati dalle lotte per la conquista della supremazia sui territori, sui traffici illeciti, sui rapporti con il potere politico e amministrativo dell’isola (talvolta anche con quello nazionale). Gli omicidi in danno di uomini politici e di personaggi delle istituzioni, di magistrati e giornalisti rispondevano invece a interessi convergenti con quelli di altri poteri occulti, non solo nazionali, secondo logiche estranee all’ambito strettamente criminale, ma a più alti e riservati livelli.

Tornando alla cronaca di quel 2 aprile del 1985, il sostituto procuratore della Repubblica di Trapani da soli 50 giorni, Carlo Palermo, (in precedenza era stato sostituto a Trento, sua prima sede giudiziaria) la mattina del 2 aprile del 1985, viaggiava sull’autovettura di servizio Fiat 132 blindata, seguita da altra auto di scorta, una Fiat Ritmo non blindata, con 2 militari a bordo per recarsi dal luogo ove era alloggiato, Bonagia, alla Procura di Trapani. Giunto in località Pizzolungo, poco dopo le 8:35, posizionata sul ciglio della strada, era stata collocata un’autovettura imbottita di tritolo di marca Semtex, brevettato e prodotto in Cecoslovacchia, in attesa del passaggio del magistrato per provocarne l’esplosione. Avvenne però, per una combinazione del tutto imprevedibile, che sulla corsia destra di quella strada procedeva un’auto modello Scirocco della Volkswagen coupé, guidata dalla signora Barbara Rizzo, che portava a scuola i suoi due figli, i gemelli Salvatore e Giuseppe Asta di sei anni. La 132, che procedeva a velocità maggiore eseguì il sorpasso della Scirocco, auto questa che venne fatalmente a interporsi tra l’autobomba e la 132. Gli attentatori, ciò nonostante, non esitarono a portare a termine il loro progetto stragista, sia per non perdere un’occasione che poteva non ripresentarsi (la presenza di un’auto abbandonata sul percorso del magistrato poteva costituire oggetto di curiosità investigativa), sia per la convinzione che la potenza dell’esplosivo impiegato era tale da potere provocare anche la morte del magistrato.

L’esplosione fu terribile. L’autovettura sulla quale viaggiava la signora Rizzo fu distrutta, i corpi dei tre occupanti furono dilaniati e sbalzati a decine di metri di distanza. I due agenti che viaggiavano sull’auto del magistrato e quelli sull’auto di scorta riportarono ferite non gravi; il magistrato lievi ferite e la perdita dell’udito dall’orecchio destro. L’esplosivo usato era di tipo uguale a quello impiegato nell’attentato al treno rapido 904 Napoli-Milano del 23 dicembre 1984, avvenuto a Benedetto Val di Sambro, all’interno della Grande Galleria dell’Appennino, che provocò sedici morti e 267 feriti.

La scelta di Carlo Palermo di lasciare la procura di Trento per quella di Trapani fu determinata da vari motivi. A Trento aveva condotto indagini su traffici di droga e armi che avevano punti di contatto con il territorio di Trapani. Vi lavorava il suo collega Giangiacomo Ciaccio Montalto, collegamenti che determinarono uno scambio di informazioni e atti tra i due magistrati. Gli interessi toccati dalle due Procure erano di grande portata, forse sottovalutata, dal momento che Ciaccio Montalto venne ucciso il 25 gennaio 1983 (tre mesi dopo l’incontro dei due magistrati a Trento) alle 01,30 della notte, a Valderice, da tre uomini armati di mitraglietta e due pistole calibro 38, mentre rientrava a casa, privo di scorta e a bordo della sua auto non blindata, nonostante le minacce ricevute.

La notizia dell’omicidio del collega spinse Carlo Palermo a fare richiesta al Consiglio Superiore della Magistratura di essere trasferito a Trapani per occupare il posto del collega. D’altra parte, l’indagine che stava conducendo a Trento gli era stata da poco sottratta per legittima suspicione, su corale richiesta degli avvocati e dei superiori gerarchici, e trasferita a Venezia, sede giudiziaria ritenuta maggiormente “affidabile”. Oltre alla morte di Ciaccio Montalto vi era un secondo posto vacante alla Procura di Trapani, quello del sostituto Antonio Costa, arrestato per corruzione e altro, per avere ricevuto la somma di 150 milioni da esponenti della cosca Minore, egemone in quella provincia. L’attentato fu preceduto da minacce e intimidazioni. In una intervista rilasciata al quotidiano L’Avvenire del 25 marzo 2015, il magistrato ricorda quelle frasi. "Facciamo saltare il giudice Palermo e la sua scorta", "il regalo sta per essere consegnato". “Ma lo Stato - riferisce il magistrato - proprio nel momento di maggiore necessità, non credette alle minacce e abbandonò me e la scorta, che nemmeno munì di un’auto blindata”.

L’uso di autobomba negli attentati di mafia fu molto frequente. Si inseriva nella strategia del terrore che Cosa Nostra intendeva mettere in atto negli anni successivi sino al 1994. È stato usato per gli omicidi del giudice istruttore Rocco Chinnici, e poi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, in danno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il 14 maggio del 1993 autobomba venne usata per l’attentato a Maurizio Costanzo, in via Fauro ai Parioli, che provocò 24 feriti, e gravi danni alle autovetture e agli edifici circostanti, mentre il popolare giornalista televisivo e la moglie Maria De Filippi rimasero illesi.

Pochi giorni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 maggio, un’autovettura imbottita ben 277 chili di esplosivo venne fatta esplodere a Firenze in via dei Georgofili, nei pressi della storica Galleria degli Uffizi. L’esplosione provocò la morte di cinque persone, tra cui i coniugi Nencioni e le loro due figlie, ed uno studente, il ferimento di altre 48. La torre del Pulci venne quasi completamente distrutta e la stessa Galleria degli Uffizi subì notevoli danni: tre dipinti furono perduti per sempre e 173 danneggiati, insieme a 42 busti e 16 statue ed altri rimasero irreparabilmente rovinati.

Altra autobomba fu fatta esplodere a Milano, la sera del 27 luglio 1993, in via Palestro, che provocò cinque morti, tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina, oltre dodici feriti.

Anche per la progettata strage dell’Olimpico del gennaio 1994, (si svolgeva la partita Roma-Udinese con 45 mila spettatori) era stata confezionata una potente autobomba (una Lancia Thema imbottita di esplosivo e tondini di ferro), fortunatamente non realizzata per difettoso funzionamento del telecomando che Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto azionare. L’esplosione sarebbe dovuta avvenire all’uscita dallo stadio e avrebbe provocato oltre un centinaio di vittime tra i Carabinieri di servizio e tifosi.

Trapani all’epoca, si trovava al centro di rilevanti interessi mafiosi, inquinamenti istituzionali, e nel contempo con la presenza di varie logge massoniche, come la loggia segreta Iside 2, di rito egizio, oggetto di processo penale, a seguito del quale il gran maestro ed il suo vice furono condannati dal Tribunale di Trapani per il reato di direzione ed organizzazione di associazione segreta. Della loggia risultarono componenti un deputato democristiano ed il boss mafioso di Campobello di Mazara. L’attentato rispondeva sicuramente ad esigenze preventive dei potentati mafio-massonici della zona, tra le quali particolare rilevanza assumevano le indagini che Palermo intendeva proseguire sul traffico di droga, nell’ambito del quale vi era il timore che si pervenisse alla scoperta di una raffineria di eroina nei pressi di Alcamo, raffineria che venne effettivamente scoperta dalla polizia dopo soli ventidue giorni dall’attentato. Non certo per caso, all'interno della raffineria venne trovato un giornale piegato nella pagina dove era contenuto un articolo sulle indagini del giudice Palermo.

Otto furono i mafiosi ritenuti esecutori materiali, a vario titolo, della strage. Tre di essi vennero condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, ma assolti in secondo grado dalla Corte d’Assise di Appello di quella città. L’assoluzione venne confermata dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Negli anni successivi, grazie ai contributi forniti da vari collaboratori di giustizia, furono condannati all’ergastolo i mandanti della strage Salvatore Riina e Vincenzo Virga. Stessa pena venne comminata a Baldassarre Di Maggio per avere portato l’esplosivo a Trapani.

Per motivi di sicurezza Palermo fu assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia, poco dopo fu dispensato dal servizio e lasciò la magistratura. Iniziò l’attività di avvocato e poi quella di politico.

Nell’intervista all’Avvenire già citata, Carlo Palermo, oltre a ricordare episodi della sua attività professionale, fa riferimento al carattere transnazionale delle indagini quando si occupano di traffici di droga e di armi, di cui sono protagonisti trafficanti siriani, arabi, palestinesi, bulgari, turchi e sottolinea la “necessità che, essendo la grande criminalità un fenomeno globale e complesso, i giudici sono frenati dal criterio della territorialità, in una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo”.

L’auspicio che Carlo Palermo aveva formulato nell'intervista è stato, sia pure in parte realizzato. Nel 1992 sono state istituite le Direzioni Distrettuali Antimafia, quali sezioni specializzate delle procure distrettuali, e la Direzione Nazionale Antimafia (oggi anche antiterrorismo), quest’ultima con compiti di coordinamento investigativo tra le DDA territoriali e con le autorità giudiziarie extraterritoriali, dotata di una Banca dati giudiziari, unica nel suo genere in tutto il mondo.