Nell’era della pienezza di Zeus regnava la metamorfosi come status normale della manifestazione. Mentre nell’era della profezia di Themis la realtà si irrigidiva, gli oggetti si fissavano.

(Roberto Calasso, La follia che viene dalla ninfe)

Il “cambiare forma”, aspetto, apparenza, natura ricorre quale momento decisivo in molti racconti del mito greco. Le stesse celebri Metamorfosi di Ovidio, l’opera antica più completa e poderosa su questo tema, rivela una notevole coerenza narrativa nella sua sequenza compositiva. Ovidio celebra le vicende metamorfiche dei racconti degli dei e degli eroi assumendo tale dimensione performativa quale struttura portante, filo rosso, essenza fondamentale di tutti le “generazioni” del Mito, dalle origini fino ad Augusto e al suo revival troiano sulla fondazione di Roma, narrata come già “imperiale” ab origine.

Ripercorrere in estrema sintesi la scansione dei tempi mitici di tale opera appare estremamente efficace a livello ermeneutico in quanto ci permette di raggruppare le vicende celebrate in alcuni fondamentali “cicli mitico-metamorfici” oltre a facilitarci un ragionamento sulla natura di tali racconti.

La prima metamorfosi ovidiana appare quella che riguarda la vicenda di Apollo e Dafne. In questo Ovidio sembra muoversi in sintonia con l’Inno omerico ad Apollo dove il tema dell’alloro si rivela fondativo e originario. L’Apollo dell’Inno omerico si muove in una Grecia spopolata, come post-diluviana, abitata solo da sorgenti-ninfe come Telfussa, e, aggiungiamo noi, Dafne. L’alloro appare decisivo in questa fase aurorale in quanto la prima azione del giovane Apollo che entra per la prima volta in questa Grecia di foreste e silenzi è data dalla voluta fondazione di Delfi, il cui primo tempio, ci ricorda Pausania, era di frasche di alloro. Una semplice capanna.

Esiodo allude al nesso fra le ninfe e la linfa vegetale, per cui questa prima metamorfosi, che giustamente non poteva mancare all’interno della mostra Cambiare, sembra porsi in una dimensione di scoperta delle origini, di contesto naturalistico primitivo. Apollo, il distruttore e Dafne, l’alloro, nome originario nella sua vegetalità.

I nomi del Mito sono sempre nomi sapienziali, rituali, iniziatici, carismatici. Nomi “parlanti” che è necessario meditare, insieme alla ricostruzione delle genealogie. Il mito è affare di famiglia e di famiglie, di stirpi, prove e fondazioni. Questa prima vicenda quale allusione all’interazione fra Apollo quale luce e Dafne quale epifania del mondo vegetale? Non è la fotosintesi clorofilliana una forma, prodigiosa, di metamorfosi? Da quelle origini l’alloro, fra Delfi e Tempe, apparirà uno degli attributi fondamentali di Apollo e dei suoi mondi simbolici: dalle corone di vittoria degli atleti agli oracoli della Pizia, fino al solenne rito processionale per la sua purificazione dall’uccisione di Pitone, che andava appunto da Delfi a Tempe, in Tessaglia, ricordato con sacro rispetto da Elliano nelle sue Storie Varie e assimilato alla processione annuale degli Iperborei.

Secondo il racconto di Apollodoro e di Plutarco (Agide) la vicenda di Dafne, come quasi ogni vicenda metamorfica, presenta aspetti sacrali, molto più profondi di un mero tentativo di conquista erotica da apologo. Dafne, infatti, era sacerdotessa di Gea, ninfa dei monti e figlia del fiume tessalo Peneo, e venne da Gea rapita e portata magicamente a Creta dove fu chiamata Pasifae. Una mutazione quindi rituale che fa di una sacerdotessa una regina sacra ierogamica. Lo stesso tentativo di Apollo di possederla viene narrato come una lunga e tenace strategia, includente anche l’eliminazione di rivali, come Leucippo, figlio di Enomao, che si vestì da donna per unirsi ai riti ninfici montani. Leucippo fatto a pezzi durante il bagno delle ninfe montane richiama il tema simile di Atteone e Artemide.

La metamorfosi quale mascheramento maschile per accedere a riti segreti femminili, probabilmente dionisiaco-sciamanici, a rischio di violento invasamento, talvolta quindi portava a rischio di sacrifici umani, involontari o punitivi che fossero. Altre volte tale inclusione maschile in circoli femminili sacrali invece si concludeva in modo consensuale e pacifico come le vicende di Achille a Sciro, nel racconto di Achille Stazio, o di Heracle che tesse vestito da donna dalla Regina Onfale (da omphalos) fanno presumere e indicano.

L’astuzia crudele di Apollo contro Leucippo svela in chiarezza l’essenza della materia di cui stiamo trattando: non un invaghimento adolescenziale di Apollo per Dafne ma una vera e propria “guerra magica e rituale” fra culti femminili e agresti e nuovi riti maschili di cui Apollo è violento segno. Non a caso Apollo reca un immaginario dai nomi spesso non greci, probabilmente di origine ittita, ed è divinità non greca, straniera, che non si sposa mai e il cui rapporto con il femminile è quasi sempre conflittuale e rovinoso.

La mutazione di Dafne in Pasifae, moglie di Minosse, sacerdotessa lunare e regina di Creta rivela la grande importanza dell’elemento femminile nell’esercizio della regalità e nella gestione del sacro nella grecità arcaica. Pasifae è sorella di Circe e figlia del Sole. Madre di figure importanti e a sua volta metamorfiche come Arianna, la compagna sacra di Teseo e poi di Dioniso, e come suo fratello Deucalione, il Noè greco. Pasifae è associata al toro, segno di Poseidone quanto di Zeus e appare figura rituale e ierogamica. Il suo “nome parlante” indica la pienezza della luce ed è epiteto sia di Helios che di Afrodite.

Lo stesso Pausania la considera epifania di Selene e noi possiamo considerarla, prima di Arianna, la “dea dell’Isola” o la “dea del labirinto” al cui centro abita, quale prova eroica vivente, suo figlio Asterione, la “grande stella”, cioè il “Minotauro”. Che tutte le grandi sacerdotesse e maghe fossero in connessione tra di loro lo conferma l’intervento di Circe a favore di Procri tramite una pozione magica che favorisse un’unione non pericolosa con Minosse. Dopotutto sia l’Inno omerico che Pausania ci confermano che i primi sacerdoti apollinei di Delfi furono scelti dal nume fra i cretesi e il termine “delfi” se può indicare una spaccatura della terra fu comunque ben presto associato all’immagine del delfino, uno dei animali sacri sia apollinei che minoici.

Se il primo “ciclo mito-metamorfico” ovidiano è apollineo, con le vicende delle apollinee Eliadi, dell’artemidea Callisto e di Coronide, il susseguente appare dominato dalla divinità metamorfica per eccellenza, complementare ad Apollo: Dioniso, da cui le sue connessioni ed epifanie: Cadmo, Semele, Tiresia e la ninfa Eco, e poi Penteo, Ino, Acrisio fino a Perseo. Altrettando saggiamente appare in mostra la figura di Narciso, il cui nome parlante indica la “narcolessi” e non a caso il narciso è uno dei fiori rituali, insieme al croco, che compare sempre nelle varie narrazioni della vicenda di Kore-Persefone rapita da Ade mentre raccoglie i fiori; caso di metamorfosi rituale-misterica, indicata anche dal cambiamento di nome della protagonista. Il Narciso del dipinto in mostra coglie alcuni aspetti essenziali delle dimensioni metamorfiche: la connessione con l’acqua, evidenziata dal braccio del giovane che sfiora lo specchio d’acqua, l’associazione ai fiori, data dalla corona floreale che abbellisce il capo e il tema del sonno. Questi tre elementi, che assimilano Narciso ad Ila, compagno di Heracle e rapito dalle ninfe vicino ad una sorgente, ci fanno comprendere iconicamente la metamorficità quale dimensione liquida ma pure iniziatica.

Il sonno, la corona floreale, propria dei riti misterici e dei sacrifici, la connessione fra Eco con Dioniso, la stessa ossessività della ninfa Eco e la similitudine di Eco con Inx, ninfa dell’incantamento erotico-amoroso, da cui la vicenda di Io e di Argo, altra metamorfosi degli inizi, tutto questo circolo semantico ed ermeneutico allude ad una maggiore profondità di lettura.

Le vicende mitiche vanno sempre, quando si riesce, depurate dalle letture allegorico-morali recenti, neoclassiche, che fanno di Narciso la semplice metafora di un auto-incantamento psichico. Letture significative dal punto di vista storico e della ricezione culturale del mito stesso ma quasi sempre fuorvianti a livello di semiosi del mito. L’acqua e la fonte nel mito sono sempre animate, sede di ninfe e vari genia loci. Eco è in realtà l’acqua in cui è vincolato e ossessionato Narciso quale prigioniero magico di Eco. Lo sdoppiamento appare spiegazione successiva di una tarda incomprensione della vicenda nella sua aura originaria. L’acqua quale soglia ambigua, fra oblio e ricordo, vitalità e pericolo. Evidentemente il caso di Narciso, connesso con quello di tanti giovani eletti finiti male, come Adone, Atteone, Giacinto e la stessa Kore, si rivela sireno-paraninfo, compagno di riti segreti femminili e racconta tra le righe casi di riti errati o fallati, a cui seguivano severe sanzioni ed esclusioni.

Le ninfe delle origini, le ninfe delle acque appaiono spesso ambigue e ingannevoli esse stesse, come Telfussa che cercò di ingannare persino Apollo e come le ninfe di Ila, da cui ne derivò un rito secondario di ricordo ed evocazione. Può essere che nel senso originario fosse Eco la figura dominante e Narciso la vittima di un rito di “sonno iniziatico-rituale” non gestito correttamente. In casi fortunati, come il dipinto di Narciso in mostra, l’arte moderna coglie le essenze mitiche meglio degli studiosi specializzati nelle materie rappresentate. Come sempre la genealogia spiega molto nel mito. Narciso, infatti, è figlio della ninfa Liriope, associata al giglio nel suo nome, e del fiume Cefiso. L’acqua e i fiori, quindi, appartengono alla sua natura spirituale, al suo carisma genetico.

Nei racconti più antichi sono la discendenza e le relazioni femminili quelle più decisive. Appare quindi importante considerare come la ninfa Eco, prima di innamorarsi di Narciso, abbia amato Pan e abbia avuto da Pan un altro essere ninfico e fatale: Ynx, in italiano: Iungo o Iunge. Tale essere appare fatale, decisivo per il mito in quanto è associata ad un rito di incantamento amoroso-erotico arcaico realizzato ritualmente tramite il roteare una ruota di legno con ad essa legato un uccellino, il “torcicollo”.

La ninfa Iunge fece innamorare tra di loro Zeus ed Io, figlia del re di Argo. Da questa vicenda, in cui entra anche Hermes e Prometeo, deriverà la stirpe egizia di Epafo, primo Faraone secondo i Greci. Io a sua volta venne trasformata in mucca, per celarla dall’ira di Hera si cui era sacerdotessa. Un processo metamorfico che muta a sua volta natura: da erotico a difensivo-inaugurale. Io diventa una sorta di sacra pellegrina condotta da Hermes da Dodona fino in Scizia e poi in Egitto.

Eco, quindi, reca nel suo carisma riti incantatori amorosi che probabilmente portarono alla follia Narciso. Il velo psichico-morale sui racconti mitici cela spesso una semiosi da una parte più profonda e più arcaica e dall’altra più fisica e concreta. L’incontro pericoloso con una “fonte incontaminata” slatentizza una sensibilità arcaica molto radicata: i luoghi selvaggi, non toccati ancora dall’uomo, sono sacri, e, quindi, celano genia loci, spiriti. Sono territori “abitati”.

Roberto Calasso nel suo saggio poetico La follia che viene dalla ninfe ricorda come il tema della sorgente-ninfa appare archetipalmente associato alla semiosi del serpente, dell’essere primordiale che non dorme mai e che è pericoloso incontrare, spesso custode di tesori nascosti. Nella mistica della lettera ebraica samek, questi significati sono tutti compresenti: il Messia, la sorgente e il serpente. La sorgente quale occhio e soglia, porta di Gea che svolge la funzione di scambio e comunicazione che svolgeva il grande bacile di vino delle ateniesi Atesterie, presieduto da Hermes. Il terzo ciclo mitico-metamorfico ovidiano è dato dai “cambiamenti” associati alle Muse, ai luoghi più sacri e selvaggi e a figure ninfiche o associabili ai mondi sacri femminili: le pietrificazioni gorgoniche di Perseo, lo scaturire della sacra fonte Ippocrene, le Pierie, Aretusa, il catabatico Trittolemo, associato ai culti demetrici di Eleusi, fino alla vicenda di Aracne, dove Atena svolge un ruolo simile a quello delle Muse quando puniscono l’ibris di Tamiri.

Luoghi sacri e isolati, come l’Etna di Tifone e l’Elicona delle Tiadi, delle Trie e delle Graie, nomi epifanici di simili collegi sacri femminili, luoghi di miele e nebbie dove Esiodo racconta di aver incontrato le Muse dalle chiome color oceano e dalle gride acute e squillanti. Luoghi dove la metamorficità appare naturale, innata, strutturale e in tale dimensione non è separabile l’aspetto iconico-estetico da quello semantico, la dimensione fisica, corporale da quella simbolico-spirituale, come la vicenda di Aretusa, fra le molte, conferma. Il caso della fonte Ippocrene appare di speciale significanza in quanto ci induce a riflettere su un altro aspetto della metamorficità dei racconti del mito: l’aspetto cosmogonico.

Antonino Liberale nella sua trattazione di trentaquattro casi di metamorfosi antiche ci regala dettagli preziosi in tema di fonte Ippocrene, cioè “nata dal cavallo”. Ci racconta un Poseidone che manda Pegaso sulla cima di un Elicona che sta crescendo verso il cielo per fermarne l’avanzare e dal colpo di zoccolo del mitico cavallo esce questa fonte di vetta che sarà da allora in poi la nuova allegoria della sapienza delle Muse, fino al Parnaso del Mantegna. Sì perché l’Elicona, la vetta a forma di chiocciola, è una delle cime del monte ninfico Parnaso, nome probabilmente ittita che indica l’idea di “casa” e di luce. Una vicenda apparentemente semplice e magari solo bizzarra e invece estremamente importante e decisiva in quanto ci mostra come i processi metamorfici sono dai mitografi collocati già all’origine delle cose, quando il cosmo è ancora fluido e si sta definendo.

L’immagine del monte che sale verso il cielo mostra un mito che trova conferma nell’idea scientifica attuale dell’origine vulcanica delle montagne più elevate come pure per associazione simbolica ci ricorda il tema mitico dei Giganti, figli di Gea, che cercano di scalare il Cielo delle più recenti divinità dell’Olimpo. Poseidone, nume degli abissi, dell’invisibile infero, quanto nume dei cavalli e dei cataclismi, in questo caso opera come per conto di Gea a fermare l’ibris di un monte, l’Elicona, che sembra muoversi quale essere vivente autonomo. L’associazione fra sorgente, cavallo e Poseidone appare mitologicamente coerente in quanto Poseidone era lo sposo di Gea, il primo nume custode di Delfi, ancora lo ricorda Pausania nella Periegesi, come pure Gea possedeva la pelasgica Dodona prima di Zeus. Poseidone, quindi, è il “primo Zeus” e sempre, con Apollo, cercherà spesso di ribellarsi al predominio del dorico Zeus.

Le metamorfosi anche quali epifanie di lotte fra culti, fra stratificazioni sacrali differenti: pelasgiche, minoiche e doriche? Dove operano collegi di “Ninfe” abitano sorgenti sacre, intoccabili e utilizzate per i loro segreti riti. Poseidone condivide con Demetra, a cui si unisce in forma di cavallo, gli stessi culti di Eleusi, dove è ricordata una sorgente salata e un rito di scelta dei sacerdoti da compiersi davanti al mare, e le stesse Oceanine, che coincidono con le compagne di Kore, le prime sirene e l’ultimo ricordo dei culti femminili di Creta, dove le gemme minoiche ci mostrano donne in ebbrezza che raccolgono fiori, come nel racconto del rapimento della figlia prediletta di Demetra.

Lo stesso “rapimento” era un rito-prova nuziale che ricorre in più forme e in più episodi: da Io ad Europa fino alle Leucippidi prese dai Dioscuri e alla fatale Elena di Sparta “rapita” prima da Teseo e poi da Paride. Odisseo stesso, sebbene abbia “vinto” Penelope in una gara di corsa, la porta ad Itaca di notte su di un carro, mentre Penelope appare velata e con una torcia in mano, come fosse Ananke o Nemesi. Segni e contesto che ci parlano di un rapimento simulato, recitato.

Tornando alla genesi metamorfica dell’Elicona e della sua nuova sacra fonte posta sulla sua sommità ci appare un’altra associazione simbolica importante: la stessa acqua, colta nelle sue altezze, anche in associazione al tema antico delle “acque celesti”, come nei suoi abissi che gli antichi concepivano quali “acque infere” che reggevano il disco terrestre. Dopo il ciclo ninfico-musico Ovidio prosegue con una serie di vicende metamorfiche che possiamo riassumere quale “ciclo di Atena e della tracotanza punita dalle donne” che include la contesa tra Atena e Poseidone, ri-narrata da Platone quando parla di Atlantide in guerra contro Atene nel Timeo e nel Crizia, Latona che fa punire Niobe, il ratto di Orizia, la vicenda di Proci e Cefalo, lo smembramento di Pelia da parte di Medea, il caso di Scilla e di Pigmalione, tra gli altri. Qui Atena assurge a figura basica e inaugurale delle altre figure femminili che presiedono o istigano o subiscono vendette divine contro l’ibris umana.

Se ci liberiamo dalla sovrastruttura neoclassica che irrigidisce l’immaginario di Atena riducendolo a semplice allegoria della saggezza e delle arti possiamo coglierne gli aspetti più originari, sciamanici e irrazionali. L’Atena che accetta il sacrificio umano e notturno dell’araldo troiano Dolone, di solito intoccabili quali agenti diplomatici, che Odisseo gli offre e il cui corpo cadavere usa per altri segreti riti nella sua nave e l’Atena che si trasforma in uccello che stride per confondere la mente dei Principi delle Isole mentre Odisseo ne fa strage con il suo arco. È la stessa Atena che reca l’effige della Gorgone sul petto per terrorizzare i nemici e punisce la virtù di Aracne.

Una divinità pericolosa e guerriera, probabilmente di origine libica e assai più selvaggia della più ascetica Artemide. Rispetto a questa vera Atena non appare molto dissimile la dionisiaca Medea ricordata da Ovidio che immerge nel suo magico calderone gli arti smembrati del re Pelia, fingendosi sacerdotessa di Artemide iperborea.

Una Medea che nel nome rivela la sua natura ancestrale di sapiente profetessa, di divinità che aiuta gli eroi, a partire da Giasone, e la cui ira appare funesta come un’epidemia. La Medea che fugge su di un carro trainato da draghi, da serpenti volanti, assomiglia a Demetra e al suo adepto Trittolemo che spargono il seme del grano volando.

Si tratta di “Gorgoni”, cioè di sacerdotesse lunari e sciamaniche che presiedevano a riti di incantamento e di trasformazione iniziatica. Probabilmente svolgevano anche saltuariamente ruoli di “prostitute sacre” come furono le “sirene” nella loro reale natura arcaica. Le Sirene e le Gorgoni quali “enti metamorfici”, cioè figure che riassumono diacronicamente più livelli e funzioni di sacralità femminile arcaica: l’iniziazione erotica dei nuovi guerrieri, la loro “unzione magica” per propiziarne la vittoria, riti di ierogamia per favorire la nascita di nuovi eroi.

La metamorficità ontologica di questi esseri, come le Gorgoni, emerge nel mito da dettagli importanti come la vitalità e ambiguità del sangue di Medusa: da una vena velenoso e dall’altra medicina. Dalla decapitazione di Medusa, già amante di Poseidone, nascono due esseri prodigiosi e misteriosi: Pegaso, il cavallo alato che aiuterà Perseo e Bellerofonte e il misterioso guerriero dalla spada d’oro: Crisaore. Un sangue metamorfico anche dentro la morte. Circe, Medea, sua sorella, e Teti, come l’egizio e nordico Proteo, pastore di foche, sono epifanie della medesima metamorfica dea. Il dipinto presente in mostra sintetizza sapientemente alcuni aspetti metamorfici di Circe che sono comuni alle altre figure arcaiche sopra citate: i papaveri sparsi a terra, le bestie selvatiche e l’apollinea cetra. Circe, la “mescolatrice” quale espressione della cretese e primitiva ptonia theròn, la “signora degli animali”, epiteto anche di Artemide, appare correttamente dipinta “alla cretese”, cioè a seno nudo e con i principali attributi rituali: i fiori e la musica. Non è un caso che Circe sarà vinta da Odisseo tramite una misteriosa erba, chiamata moly, dalle radici scure e dai fiori bianchi (l’elleboro?) che Hermes, la divinità maschile metamorfica per eccellenza, donerà all’eroe di Itaca prima dell’incontro con Circe. Le metamorfosi che induce la dea marina sono di due tipi: animali e divinizzatrici, come se possedesse entrambi i poteri; sia quello di degradare che quello di elevare. Odisseo, infatti, dovrà rinunziare all’immortalità offerta dai riti e dall’ambrosia posseduta da Circe per poter tornare ad Itaca.

Sarà la stessa Circe a istruire Odisseo sul percorso necessario per incontrare i prati di Persefone ed evocare gli spiriti femminili regali dei Campi Elisi (Anticlea, Tiro, Leda, Giocasta, Arianna e altre) come pure sarà la dea isolana a dovergli insegnare come fare per superare il pericolo incantatorio delle Sirene, a lei così simili. Circe conosce le vie nordiche e notturne che portano ai confini del cosmo, alle correnti di Oceano ed è lei che suscita i venti propizi per la navigazione sacra ed oracolare di Odisseo.

Attraverso le “matrici” di Medea e di Circe possiamo apprezzare le Sirene quale processo metamorfico. Le Sirene quindi quali espressioni iconiche e narrative di uno “status” metamorfico, che troviamo anche in Proteo e in Teti, velato da silenzi e allusioni rituali e misteriche. Ma le Sirene anche quali stratificazioni storico-culturali tali da generare una “metamorficità di ricezione”. Alle “Sirene-uccello” di origine egizia e poi minoica, si sono aggiunte e succedute le Sirene “cristiane” ittiformi di medioevale e romanico-gotica memoria. Circe possiede la medesima metamorficità delle Sirene e di Medea. Vive ai confini del mondo, vicino ad Oceano, in un’isola il cui nome Aiaia, simile nella ripetizione ad Ogigia, sembra un nome rituale, come un grido. Possiede sangue titanico, in quanto figlia del Sole e della titanide Perse. L’essere circondata da lupi e leoni l’assimila a Cibele e ad Artemide e all’Afrodite troiana. La sua grotta è circondata da salici e da ontani, alberi che indicano il passaggio all’Ade, ai retromondi dei culti greci. Tra i salici fa il nido il torcicollo, l’uccello usato negli incantamenti a fini erotici.

Circe si rivela metamorfica anche in questo suo stare e abitare la soglia tra vita e morte, come non a caso si rivela associata a culti funebri della Colchide, in relazione alla pratica di seppellire i defunti appesi ad alberi di salice. Il suo potere magico-divino di metamorfosi indotta trova due episodi importanti, molto più significativi dell’episodio omerico: Pico e Scilla. Pico, figura totemica e sciamanica del picchio, associato a Pan e a Zeus arcade, viene trasformato nell’uccello picchio proprio da Circe, per punirlo del suo rifiuto erotico. Sembra la scena di Dioniso che trasforma in pipistrelli le tre figlie del re Minia che si erano rifiutate di partecipare ai suoi nuovi riti orgiastici. Scilla, la bellissima figlia di Forcide, fu trasformata in mostro marino proprio da Circe in quanto amata dal desiderato Glauco.

Una lotta tra potenze marine e metamorfiche. Non a caso la baia di Itaca, dove arriva dai Feaci, è consacrata a Forco, uno degli esseri marini primordiali, come Nereo e Proteo. Scilla, la sconfitta da Circe, è parente delle Gorgoni. Fatali sono queste donne sacre, spesso incorporanti prove rituali per gli eroi del mito. Fatale sarà Circe, quasi in una vendetta inconsapevole, in quanto sarà suo figlio, il figlio avuto con Odisseo, cioè Telegono, colui che “combatte da lontano” che ucciderà suo padre, il re di Itaca, e lo farà con una lancia che reca in unta l’aculeo velenoso di una razza.

Il mito greco, quindi, finisce con Circe e con Penelope in quanto i loro figli stessi trasleranno la Grecità antica in Italia. I figli di Odisseo e Circe sono Agrio, Latino e Telegono, e quest’ultimo sposerà Penelope mentre Telemaco si unirà a Circe. Non solo attraverso Enea e Antenore, i sopravvissuti di Ilio distrutta, ma pure tramite questo rituale incrocio di stirpi il Mito lascia la Grecia per la nuova Grecia che sarà l’Italia e Roma, città all’origine greca secondo l’Imperatore Giuliano.

La metamorficità di Circe quindi si trasmette anche nel sangue inducendo una metamorfosi nella geografia sacra antica e nelle peregrinazioni dei riti e dei culti. Similmente Elena, come le ninfe-dee dei reperti minoici cretesi, viene descritta nell’Odissea quale conoscitrice della saggezza egizia delle erbe e delle droghe, con cui calma le crisi depressivi-isteriche di Menelao. Elena la figlia dell’Uovo fatale di Nemesi, immagine egizia, si reca sul delta del Nilo con Menelao per incontrare Proteo, il “pastore di foche”, divinità oracolare e metamorfica che sa, come Teti e come Acheloo, mutare d’aspetto sia negli elementi naturali, fuoco e acqua, che in sembiante animale: serpente, uccello, e altre bestie selvatiche. Non mutano in animali tutti gli dei dell’Olimpo quando fuggono in Egitto al sorgere vittorioso di Tifone, figlio di Gea? E non sono i Giganti esseri ibridi dalle estremità serpentine?

Come Proteo anche Teti muta d’aspetto e lo fa al suo primo incontro con Peleo come se l’unione dei corpi fosse anch’essa una prova eroica e rituale per far nascere un altro eroe che sarà l’ultimo degli eroi: Achille.

Simile mutazione avverrà da parte della divinità fluviale Acheloo, il fiume più importante dell’Ellade, e avverrà al suo incontro con Heracle, l’eroe delle prove, il primo eroe pan-ellenico e del tutto itinerante. Sarà proprio combattendo Acheloo, il padre delle Sirene secondo Esiodo, che Heracle gli strapperà il corno che diventerà poi il “corno dell’abbondanza”, il corno magico di Amaltea. Qui abbiamo la prova eroica quale prova che appare vittoriosa se si concretizza nel controllo del potere magico-sciamanico di metamorfosi.

Prova ora del tutto bellico-eroica, al fine di conquistare un territorio o un oggetto talismanico, ora eroico-erotica come nel caso della lotta nuziale di Peleo con la marina e sirenica Teti, ora incontro amicale-oracolare come quello di Elena di Sparta con l’egizio Proteo. Non a caso la figlia di Proteo, che regalerà ad Elena le droghe da papavero, si chiama secondo il racconto dell’Odissea: Eidotea, cioè, immagine divina. Ovidio, quindi, imbastisce la continuazione della sua narrazione alternando vicende eroiche e vicende erotiche (l’etimo non è comune!) per qui possiamo chiamarlo: “ciclo metamorfico d’Eros e dei Misteri”; dato dalle narrazioni, fra le altre, di Mirra e Adone, Mida, Peleo e il lupo pietrificato, Alcione, Ifigenìa.

Il lupo gigantesco che minaccia l’eroe tessalo Peleo, padre di Achille, viene pietrificato dalla marina Teti, dea primordiale che qui appare nelle sue funzioni di tutela degli eroi e di maga trasformativa della natura. Teti opera come Hermes e come Medusa, pietrificando. Già abbiamo accennato alle connessioni eroico-rituale fra Perseo e l’iperborea Medusa, a sua volta associata ad Atena nell’egida e nella custodia della sua testa, ora possiamo accennare all’importanza di Teti quale forma di culti femminili più antichi. Culti che evidentemente contemplavano l’uso di maschere e stati di alternazione sciamanica della coscienza se ricordiamo due episodi molto importanti dati dall’unione fra Peleo e Teti, da cui nascerà Achille e dalla vicinanza fra Proteo, Teti ed Elena di Sparta.

Continuando a sottolineare alcuni elementi simbolici importanti fra le figure del ciclo eroico-erotico-misterico ovidiano non possiamo non soffermarci su Adone, su Mida e su Ifigenia. Adone e Ifigenia sono accomunati dalla loro trasformazione sacrificale, altra dimensione fortemente presente nel mito greco, in quanto l’uno regredisce a resina vegetale, la mirra, e l’altra, la figlia di Agamennone offerta ad Artemide in sacrificio umano, viene sostituita da una cerva dalla dea cacciatrice stessa e traslata magicamente tra i lontani Tauri, popolo scitico degli Urali.

Se Adone appare il corrispettivo maschile della vicenda di Kore che diventa Persefone, il fanciullo perfetto conteso fra le dee, fra Afrodite e Persefone stessa, l’adepto di riti femminili come Achille a Sciro, Ifigenia, la ragazza-cerva, nome che indica la forza, rivela l’ambiguità metamorfica tipica del seguito artemideo e propria anche di molte altre fanciulle, come Callisto, la fanciulla-orsa.

Evidentemente qui la mutazione oltre che mostrarsi in un contesto sacrificale, arcaico anche per Omero, assume la classica aura rituale data dal mascheramento iniziatico da cerva/orsa proprio delle adepte di collegi sacrali femminili presieduti da Artemide, nume di probabile origine nordica e asiatica, come suo fratello Apollo.

Nel caso di Mida dalle orecchie di asino il contesto metamorfico appare più iniziatico. Mida è descritto da Bacchilide e da Pindaro quale adepto di Apollo così amato dal nume per la sua generosità verso Delfi da essere da lui traslato nella terra degli Iperborei, sorta di nordico Eden per pochi eletti. Elliano nelle sue Storie Varie tramanda un racconto segreto che Sileno fa a Mida che ha come materia proprio i popoli che abitano Atlantide e Iperborea. Non è un caso che il tema degli asini e delle orecchie d’asino connetta in un medesimo circolo semantico Mida, Sileno, Apollo e gli Iperborei.

Secondo Pindaro, infatti, presso gli Iperborei Apollo si compiace del sacrificio di asini, rito permesso solo in quella lontana terra secondo il racconto di Antonino Liberale. Se a ciò aggiungiamo la vicenda di Priapo e dell’asino che sventa la violenza a Cibele e il tema della sapienza misterica di Sileno, a cui Platone paragona lo stesso Socrate devoto delle Ninfe, appare chiaro come siamo in presenza di un tema iniziatico, per questo solo alluso e sfiorato dagli antichi narratori e non pienamente esplicato.

La trasformazione di Mida, nome che richiama la grande dea asiatica e il monte sacro dell’Ida, e la sua associazione alle rose richiama archetipalmente e simbolicamente anche la metamorfosi isiaca e asinina narrata da Apuleio; non a caso risolta tramite il segno della rosa. Le rose del giardino magico di Mida hanno secondo Erodoto sessanta petali, come gigante è il Narciso a cui è connessa la caduta nell’Ade di Kore. Mida, come Paride, è adepto ninfico, custode e servitore di culti arcaici segreti e la sua metamorfosi esprime un senso identitario e di appartenenza senza alcun reale aura punitiva o catabatica.

Se Paride è chiamato a giudicare tra tre aspetti della medesima dea (erotico, guerresco e regale), Mida è chiamato a giudicare fra due nature del medesimo Apollo e di un Apollo che sembra in cerca di una sua definitiva consacrazione. Mida giudica una gara musicale tra il flauto dionisiaco di Pan e la cetra di Apollo. Una gara che è una prova e che consacra Apollo nuova divinità della musica. Come se l’intervento del re asiatico fosse decisivo per stabilizzare o meno il culto del nuovo arrivato: Apollo. Molte sono infatti le sue dimensioni: pastorale, che condivide con Hermes, montano-musico, guerresco, itinerante, regale. Mida appare una figura di mediazione fra i mondi silenici e dionisiaci e quelli apollinei.

Con Marsia l’esito sarà più drammatico e in quel caso Apollo si sostituisce alle Muse nel ruolo vendicativo e punitivo. Ovidio, infine, attraverso la figura di Acheloo e di Heracle introduce l’ultimo suo ciclo narrativo metamorfico che possiamo denominare di tipo “storico-epico” in quanto sintetizza e declina il tema politico della traslatio imperii da Ilio a Roma tramite Enea. Il mito lascia la Grecia e l’Asia per collocarsi in Italia, terra di ninfe e di sirene, terra di Circe. Se Medea presiede simbolicamente la terra del Sole nel lontano Mar Nero, la sorella Circe occupa un simile ruolo a livello di geografia sacra nell’opposta collocazione occidentale. Le ultime dee: Medea e Circe, come pure assumeranno una funzione mitopoietica simile e simmetrica le ultime regine sacre e ninfiche: Elena di Sparta ad oriente e la cugina Penelope nell’estremo occidente delle Isole dei Cefalleni, i “popoli pietrosi”.

Il mito racchiude sempre, oltre il velo dell’apparente caos dei suoi rivoli e delle sue declinazioni, una sorprendente e chiara coerenza a livello di genealogie e simmetrie di dinamiche linguistico-iconiche.

Se quindi Narciso è la versione maschile di Persefone, e la cui “sparizione” ricorda quella di Merlino dentro la prigione d’aria tessuta magicamente da Viviana, se Dafne ricorda l’avvicendarsi di culti differenti in una Grecia depopolata e che assiste alla fondazione di Delfi quale nuovo tipo di santuario, se Mida ricorda la lotta musicale agonico-eroica fra culti silenici e culti stranieri e guerrieri (Apollo), a sua volta mimesi della contesa sacrale e magica tra Apollo ed Hermes, che si contendono monti sacri (il Parnaso e l’Elicona), se Circe si mostra chiaramente quale genius loci di culti femminili arcaici e “femminocratici”, il tema fiabesco della principessa e del ranocchio introduce l’altrettanto importante dimensione della continuazione e metamorfosi del mito stesso, nel suo tradursi in matrice che alimenta la grande ricchezza delle fiabe europee.

La decisiva opera di Harf-Lancner Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel medioevo spiega chiaramente le dinamiche di uno dei “canali” semantico-narrativi e iconici tramite i quali l’immaginario pre-cristiano muta e si trasla nell’immaginario cristiano-medioevale dove figure come le Sirene diventano Ondine e Melusine e le Ninfe assumono i nuovi tratti delle Fate. Il loro stesso nome, evidenziato da Cristina Campo, richiama l’idea antica del Fato che la Grecia arcaica leggeva sempre in termini femminili nebulosi tramite figure primordiali come Adrastea, Nemesi, Ananke, Rea.

La “Principessa e il ranocchio” veicola una delle funzioni morfologiche essenziali proprie dell’immaginario fiabesco, già teorizzate da Vladimir Propp: l’incontro dialettico fra opposti, la prova della paura e del disgusto, lo svelamento dell’incantamento e la congiunzione finale. Dinamiche archetipali fluide, cicliche, ma coerenti e così basiche da render agevole la loro reinterpretazione in termini di linguaggio alchemico, come le ipotesi di Giuseppe Sermonti hanno suggestivamente chiarificato.

La “principessa” quale mercurio necessitante una sua purificazione e il rospo quale acido dissolvente che trasforma il mercurio in cinabro? Certamente uno dei tratti essenziali e di continuità fra i racconti del mito greco e l’immaginario favolistico è dato proprio dalla dimensione metamorfica. Quasi tutte le fiabe, infatti, presentano dinamiche di occultamento/disvelamento dove principesse, regine, principi o altre figure chiave passano da una “natura mascherata” ad una “natura liberata”, come redenta, tramite un atto di fede o un atto sacrificale o rituale.

Possiamo quindi in conclusione individuare otto processi mito-metamorfici principali presenti in tutti i cicli eroico-epici e mitografici e spesso persistenti o latenti anche nell’immaginario fiabesco:

  1. la metamorfosi quale componente o esito di una prova eroica;
  2. la metamorfosi quale rito o iniziazione;
  3. la metamorfosi quale punizione per l’ibris,
  4. la metamorfosi quale trasfigurazione di un trauma;
  5. la metamorfosi quale divinizzazione cultuale;
  6. la metamorfosi quale purificazione e nuova vita;
  7. la metamorfosi quale celebrazione cosmogonica;
  8. la metamorfosi quale teofania.

Del primo caso abbiamo accennato alle vicende della lotta di Heracle con Acheloo e di Peleo con Teti, oltre a simile prova che occorre superare per ottenere dal metamorfico ed egizio Proteo un suo responso oracolare. C’è da aggiungere che ogni percorso eroico è percorso graduale di riconoscimento e conquista.

Lo stesso Apollo, come Heracle, deve combattere, essere purificato, viaggiare, affrontare prove e compiere imprese per completare la propria divinizzazione oppure stabilizzarne la sovranità su più ambiti o più territori. L’uccisione del mostro poi appare processo dialettico che muta entrambi, sia il vincitore che il vinto. Il caso di Apollo Pizio o di Heracle che veste la pelle del leone nemeo appare chiarissimo: l’eroe vincitore assume aspetti identitari dell’avversario sconfitto, lo associa a sé, come l’egida sullo scudo o sul petto di Atena.

L’essere vinto continua simbolicamente e spiritualmente a vivere negli attributi del vincitore e, spesso, tramite nuovi riti e feste fondate dal vincitore come i Giochi Pitici o Istmici. Per la dimensione metamorfica quale fase iniziativa e rituale che muta l’aura di chi la supera vittoriosamente, correttamente, possiamo ricordare esempi chiarissimi come il vestimento femminile di Achille nella sua permanenza a Sciro, tale da permettergli di partecipare a riti dionisiaci riservati alle donne e il “rito del salto” dove figure femminili importanti, sia del mito che della storia, come Penelope, Ino, Orizia, Saffo, probabilmente Elena stessa nella sua ultima dimora a Cipro, fino al ricordo di tale rito presso gli Iperborei da parte di Plinio nella sua Storia Naturale, si gettano in mare da una scogliera, talvolta chiamata “bianca”, splendente. Un rito purificatorio e consacratorio che, se superato, divinizza la donna vittoriosa.

Il suo fallimento, il “non ritorno”, rinvia al culto di Aphaia, colei che fa scomparire coloro che si sono gettati. Aphaia a sua volta da una parte può considerarsi metamorfosi cultuale di Ino o Britomarti, dall’altra dea locale connessa con tale rito e con rocce marine a strapiombo considerate sacre, come l’Aphaia di Egina o quella cretese, oltre che nome che ricorre nel seguito di Artemide.

Spesso il ritorno coincide con il cambio del nome, come per la cretese Ino che diventa la divina Leucotea o Ditinna e lo stesso nome di Penelope è epiteto rituale connesso al rito del salto, e non nome di nascita. Il tema rituale dal salto ricorre poi con speciale significanza per le Sirene e può in parte spiegare la loro metamorfosi mitica da esseri alati o comunque stanziali in esseri marini. Le sirene sconfitte si lanciano in mare e muoiono o scompaiono.

La persistenza del culto marino e funebre presso il tumulo di Partenope permetterà la fondazione greca di Neapolis, l’attuale Napoli.

Simile metanoia accade per tutti i grandi eroi che ricevono il loro nome eroico dopo aver superato da giovani delle prove iniziatiche simili a quelle che i giovani lacedemoni dovevano superare nella loro criptìa sul Taigete. Odisseo, ad esempio, riceve questo suo nome “di battaglia” dallo zio Autolico, a sua volta recante un nome totemico, lupesco, e lo riceve dopo una vittoriosa “caccia sacra” al cinghiale sul monte Parnaso. E così Achille, Giasone, Heracle sono tutti nomi “parlanti” dati da chi educa il giovane a divenire guerriero.

Nomi dati dal centauro Chirone o da altri iniziatori o nomi “postumi”, stabilizzati a divinizzazione conclusa, come Heracle, “gloria di Hera”. La metamorfosi quale punizione di un’empietà verso il divino presenta due forme predominanti: la trasformazione in pietra, come per le pietrificazioni compiute da Hermes, da Teti e dalla Gorgone, oppure la trasformazione in uccelli. In alcuni casi la trasmutazione cela un trauma sessuale come una violenza ad una vergine o un incesto. Abbiamo un caso evidente in una probabile violenza che subiscono le vergini iperboree che accompagnano la carovana annuale di cui racconta Erodoto.

Lo storico greco racconta che queste vergini non fecero ritorno fra gli Iperborei ma vennero poi venerate nel loro tumulo presso un ulivo con un rito di offerta di ciocche di capelli e di lana compiuto al passaggio puberale sia da fanciulle che da fanciulli. La reticenza su cosa accadde e il culto rituale di passaggio alla maturità sessuale fanno comprendere che in questo caso la metamorfosi relazionale e rituale rappresenta un modo di trasfigurare e dimenticare una colpa contro l’onore e la sacralità di queste vergini il cui arrivo consolidava il patto di alleanza con gli ateniesi e i delii.

Un caso più semplice di mutazione quale conseguenza di una colpa sessuale si ha nel caso di Aigypio che si unisce a sua insaputa a sua madre e allora viene trasformato in avvoltoio secondo il racconto di Antonino Liberale. A sua volta non è un caso che l’Avvoltoio che indica la sovranità dei Faraoni, e che dà il nome all’Egitto, sia appunto ritenuto un avvoltoio femmina, che autogenera tramite il vento. Abbiamo poi metamorfosi per divinizzazione cultuale anche senza traumi da sublimare in tutti quei casi di particolari eroi che vengono poi divinizzati e venerati come dei come per il caso di Heracle e di Achille a Sparta. Per Achille si ricorda anche la sua venerazione, insieme con Elena, nell’Isola Bianca al largo del Danubio, nel Mar Nero. Qui la mutazione appare speciale in quanto performativa: Achille sposa Elena in una dimensione onirica simile a quella dei Campi Elisi e la stessa Leuca appare non solo isola sacra ma stessa soglia di passaggio per il Paradiso degli eroi.

Le forme massime di divinizzazione risultano quelle che assumono la forma del catasterismo, cioè la trasformazione in costellazione. Accade a molti ma non a tutti. Accade ad Arianna, a Chirone, ad Heracle, ad esempio. Una metamorfosi dall’aspetto anche narrativo, simbolicizzante, identitario. Quasi tutti gli eroi poi devono passare per riti di purificazione dalla colpa di omicidio, persino Apollo, condannato a pascolare le greggi di Admeto, ma anche Patroclo, Peleo, e molte volte accade ad Heracle.

La possibile spiegazione è triplice: morti accadute durante danze armate (come Atena con Pallade), duelli o attività venatorie compiute per esercizio, oppure omicidi compiuti per eliminare rivali al trono o ancora decessi quali conseguenze involontarie di inebriamenti e alternazioni sciamaniche accadute durante riti estatici o orgiastici. Heracle è figura mite, docile, filosofica, quasi condannata ad essere eroe e conquistatore. Eppure, più volte si trova a compiere stragi, anche di amici e di propri figli. Un rito andato male può spiegare queste ricorrenze.

Omicidii compiuti in stato di esaltazione incosciente, durante un rito. L’eroe o il re allora deve lasciare la sua patria e vagare in cerca di una nuova adozione presso una corte straniera. Quasi tutti i re e gli eroi del mito sono in tale modo itineranti, dalle molte vite. Una dimensione socialmente e culturalmente metamorfica. Della metamorfosi quale vicenda di racconto cosmogonico abbiamo già accennato rinviando al racconto della fonte Ippocrene e della mutazione naturalistica dei giganti. Possiamo delimitare infine un ultimo status metamorfico, quasi paradossale: quello in cui sono gli stessi dei che si mutano nell’apparenza in uomini per intervenire in vicende storico-agoniche importanti. Innumerevoli i casi nell’Iliade in cui Atena, Hera, Poseidone, Apollo, Hermes e altri dei intervengono durante le battaglie sotto le sembianze di eroi achei o troiani per infondere coraggio e slancio o per difendere dalla morte o dalla sconfitta gli eroi loro protetti.

La metamorfosi si rivela per i greci una teofania reversibile! E siccome nel mito greco tutto è fluido e doppio possiamo ricordare infine l’incantamento con cui Atena protegge Odisseo naufrago presso i Feaci, che lo fa sembrare più grande e vigoroso e senza il quale i guerrieri di questo popolo favoloso lo avrebbero disprezzato e ucciso. Una metamorfosi percettiva e temporanea che ricorda quelli che saranno gli incantesimi delle favole europee.