Non sono un esperto, né ho mai preteso di esserlo; mi piace pensare che la vita vada allargata, piuttosto che allungata. Sono una persona che ha lavorato, per un certo periodo, nell’ambito scolastico e che fa parte di un’organizzazione che dirige una scuola per bambini provenienti da famiglie fortemente disagiate a Varanasi in India. Il mio interesse sincero verso la scuola e il significato, per me, profondo dell’educazione è che sono convinto che dalla scuola e da quello che insegniamo ai nostri bambini, passa il futuro della nostra società. Pertanto, questo breve scritto non ha nessuna pretesa scientifica, né tantomeno pensa di essere una rivelazione assoluta.

Tutti pensiamo e crediamo di imparare qualcosa. Addirittura si dice che si impari qualcosa di nuovo tutti i giorni e sicuramente è così o almeno potrebbe esserlo. Impariamo se siamo disposti a farlo, altrimenti no. Di stimoli esterni ne riceviamo svariati tutti i giorni, ma non tutti vengono da noi assorbiti, assimilati. Cosa fa in modo che alcuni diventino parte del nostro vissuto e altri si dissolvano senza lasciare, apparentemente, alcuna traccia? Una risposta potrebbe essere l’interesse che suscitano in noi. Se una cosa ci interessa ce la ricordiamo. Se poniamo sufficiente attenzione a qualcosa, la impariamo. Queste sono sicuramente delle considerazioni banali, ma rivestono comunque una certa importanza, perlomeno possono essere un punto di partenza per delle analisi che scavino più in profondità. Per esempio, ho appena detto che di stimoli esterni ne riceviamo svariati tutti i giorni, ma che dire di quelli interni, dei nostri pensieri, dei nostri ragionamenti, conclusioni e sensazioni? Ce li ricordiamo, poniamo loro sufficiente attenzione, impariamo da noi stessi qualcosa tutti i giorni? Oppure ciò che viene dall’esterno e ciò che proviene da noi stessi seguono due percorsi differenti?

Quello che noi siamo, quello che sappiamo è l’insieme delle nostre esperienze, di quello che abbiamo vissuto giorno dopo giorno, come anche di quello che abbiamo imparato nel corso della nostra vita e non necessariamente da esperienze dirette. Se leggiamo un libro di storia e studiamo gli avvenimenti che ci hanno preceduto nel tempo, li impariamo senza averli vissuti. Questo concetto può essere portato a estreme conseguenze, come illustratomi da Shripati Dubey, Direttore del Rajghat Education Centre, parte della Krishnamurti Foundation a Varanasi in India. Andai da lui perché volevo capire quali fossero i metodi d’insegnamento adottati nelle scuole fondate da Jiddu Krishnamurti nella prima metà del ‘900.

Il Rajghat Education Centre sorge all’interno del complesso della Krishnamurti Foundation, dove oltre al Centro Studi si trova il college per ragazzi e ragazze dagli 8 ai 18 anni, una scuola residenziale immersa in un’oasi di verde e pace assoluta adagiata sulle sponde del Gange, alla periferia di Varanasi, la città sacra per antonomasia dell’India. Voi penserete che questo corrisponda allo stereotipo della città indiana, con il grande e placido fiume sulla quale si affaccia, templi antichissimi, profumi d’incensi e maestri yogi in meditazione nella pace più assoluta e in parte è così. Tutto questo c’è, ma invece di essere immerso nella pace assoluta è sovrastato da un caos infernale di macchine, motorini e tuk-tuk, che strombazzano senza motivo apparente, il tutto avvolto in una nuvola costante di smog e polvere che oscura il sole facendo cadere Varanasi in un eterno giorno grigio di novembre. Una delle poche città al mondo dove si verificano ingorghi pedonali. Pertanto, l’oasi della Krishnamurti Foundation è di diritto tale.

Torniamo nel clima idilliaco del Rajghat Education Centre.

Quando gli chiesi perché non accettassero bambini inferiori agli otto anni, Shripati mi rispose che non è possibile accoglierli prima in un collegio perché hanno necessità giornaliere che devono essere espletate dai loro genitori, come fare il bagno, vestirsi, mangiare, ecc. Sicuramente, ad otto anni, quando possono essere ammessi alla loro scuola, hanno già degli influssi, ma che, secondo lui, non sono ancora cristallizzati in loro. Secondo Shripati bisogna guardare in senso più ampio al problema dei condizionamenti; prima che un essere nasca porta dentro di sé migliaia di anni di plagi dell’umanità intera a livello genetico, migliaia di anni di influenze culturali che ci vengono trasferite attraverso il DNA e, una volta nati, tutte quelle esperienze e quelle conoscenze costituiscono il “me”, quello che noi siamo.

Di questo ne è assolutamente certa anche la pedagogista e musicoterapeuta Giulia Cremaschi, secondo la quale noi siamo il prodotto di tutti i condizionamenti esterni a cui siamo sottoposti dal momento in cui nasciamo, anzi da quando siamo ancora nell’utero materno. Qualcosa di simile lo suggerisce anche Rocco Bruno, insegnante e fondatore del Progetto Zion: “Ognuno di noi nasce con delle peculiarità, e sono queste che filtrano la realtà in modo diverso per ognuno di noi”; come anche il Professor Mauro Scardovelli, giurista, psicoterapeuta, musico terapeuta e saggista: “Non nasciamo tabula rasa, ma con memorie già predisposte”.

Quando mia madre mi diceva di non farmi influenzare da quelle che lei riteneva “le cattive compagnie”, ho sempre sospettato che ci fosse qualcosa di bizzarro, in quella richiesta. Infatti ritengo che siamo sottoposti a un continuo flusso di informazioni che vengono percepite a livelli diversi dai nostri sensi ed è quantomeno un eccesso di onnipotenza pensare di essere in grado di gestirle a nostro piacere. Noi siamo il risultato di tutte queste influenze. Alcune le riconosciamo e possiamo decidere se lasciarle passare o meno. Di altre non ci accorgiamo neppure. Stabilire se accettare alcune di queste informazioni o no dipende dal modo in cui siamo stati cresciuti e messi nelle condizioni di capire che sono informazioni che possiamo vagliare. Questo è ciò che intendo con “spirito critico”. Questa capacità, questa possibilità non fa parte di ciò che ci portiamo dietro da millenni in quanto esseri umani, bensì è una di quelle caratteristiche che vanno conquistate da ognuno di noi. Come asserisce Danilo Casertano, ideatore dell’asilo nel bosco e di altre iniziative didattiche, “il bambino si esercita nel pensiero critico andando contro, dicendo sempre di no”. Crescendo, diventando adolescente, il suo dire di no, diventa contestazione, ma cosa contesta? Sempre secondo Casertano l’adolescente metterebbe in discussione i valori, non i principi: “Il valore è legato alla cultura e alle persone, il principio tende all’assoluto”.

Quando siamo adolescenti mettiamo in discussione i valori, gli insegnamenti dei nostri genitori, dei “grandi”, della società o come si diceva negli anni ’70, del “sistema”. Ma se da bambini il dire sempre “no” potrebbe essere un allenamento al senso critico dell’individuo – un po' come la lotta/gioco allena i cuccioli alle sfide che dovranno sostenere da adulti – perché l’adolescente dovrebbe sentire il bisogno di andare contro i valori precostituiti? Una risposta poco scientifica potrebbe essere perché sente che sono falsi. Ma come ho anticipato nell’introduzione, questo scritto non ha pretese scientifiche. Per cui ritengo che ciò che noi sentiamo sia altrettanto importante di quello che riusciamo a provare con dati inconfutabili. Altrimenti come interpretare le seguenti affermazioni del Professor Gianni Vacchelli, scrittore, insegnante in un liceo classico del milanese e professore a contratto all’Università Statale di Milano e all’Unicollege di Mantova: “I miei allievi sono contagiati dalla mia passione per alcuni argomenti, ma cosa ho realmente insegnato loro, nel corso degli anni? Questo non lo so. Questo va al di là dell’ossessione per la misurabilità dei dati, tipica del pensiero dominante nella scuola oggi: è valido solo ciò che è misurabile. Insegnare è anche risvegliare e liberare. All’interno di ogni insegnante ci dovrebbe essere un ‘magis’, un ‘magister’ che alchemicamente passa la sua conoscenza agli allievi”.

O cosa dire di quanto asserito dal fisico di origine austriaca, indimenticabile autore del libro culto Il Tao della fisica, Fritjof Capra, durante una nostra conversazione?

Io ho imparato veramente qualcosa quando, tramite la mia fase psichedelica, ho sperimentato la danza di Shiva. Questo mi ha cambiato nel profondo. Tutto il campo della meditazione, le intuizioni, tutto questo mi ha fatto sperimentare che la nostra parte razionale è solo una piccola parte di una mente molto più vasta. Questo è qualcosa che ho imparato e sperimentato concretamente negli anni ’60.

Quando insegno in vari corsi che tengo in università o anche nei miei corsi, c’è, naturalmente, la parte razionale dell’argomento che sto insegnando, che può essere anche complicata, ma c’è una parte irrazionale che insegno in modo non verbale. Nei miei corsi on line ho studenti collegati da tutto il mondo con i quali ho una connessione molto emotiva, emozionale. E queste sono cose che non potrei e non saprei fare se non fossi passato attraverso quel periodo degli anni ’60.

Quindi, quello che sentiamo, che proviamo emotivamente è altrettanto valido e importante di ciò che razionalmente possiamo provare con i fatti. Tutti noi siamo passati per il periodo adolescenziale e sappiamo benissimo che, in quella fase, contestavamo qualunque cosa, fino all’eccesso, a volte. A cominciare dall’autorità precostituita: i genitori, gli insegnanti, lo Stato, la polizia, la Chiesa, Dio. Certo, negli anni ’60 e ’70 la contestazione aveva raggiunto livelli, probabilmente, mai sperimentati prima dalle società umane. Oggi i giovani sono contagiati da “l’ospite inquietante”, come Nietzsche definisce il nichilismo. Forse che non passano più la fase contestatrice? Secondo me la passano, solo che, oltre che dalle droghe, oggi vengono sedati dalla tecnologia, smartphone, computers, tablet, ecc., che li rendono inoffensivi. Quindi, almeno in questo caso, gli stimoli esterni prevalgono, soffocando quelli interni.

Per fortuna, almeno per il momento, se non in alcuni casi da denuncia, i bambini non sono ancora totalmente assuefatti alla tecnologia. E comunque bisogna assolutamente evitarlo. Vedo anch’io genitori che, per far stare tranquilli i propri figli, li mettono davanti a un monitor, ma penso che siamo ancora in tempo per fare qualcosa per i nostri piccoli.

Come fare, allora, perché quello che noi sentiamo non venga spento, annichilito dagli stimoli indotti di una società che, evidentemente, non ci vuole liberi, indipendenti? In realtà la risposta è facile: tramite l’educazione, la scuola, la conoscenza. Ma quello che s’insegna a scuola oggi, soprattutto nelle scuole italiane, ma anche nelle altre scuole occidentali, non sembra renderci liberi.

Il punto fondamentale è, come accennavo in precedenza, dare il giusto rilievo a ciò che non è del tutto razionale. Questo è un presupposto che il mondo occidentale contemporaneo non è disposto a prendere in considerazione, almeno da quando la scienza è stata elevata a unica interprete accreditata a spiegare i fatti della vita.

Ma, a ben vedere, forse non è proprio vero, forse l’idea di scienza che la maggior parte di noi ha in mente è ancora quella della scienza cartesiana. Questa, però, è stata ampiamente superata dall’interpretazione dell’universo della fisica quantistica.

Per citare solo pochi, ma credo chiarificanti, esempi:

Nell'ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l'accadere è piuttosto rimesso al gioco del caso.

(Werner K. Heisenberg)

Nella psicologia sperimentale e nella ricerca clinica, ci sono prove schiaccianti che gli atteggiamenti degli sperimentatori possono influenzare il risultato degli esperimenti.

(Robert Rosenthal)

Nella misura in cui le proposizioni matematiche si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui esse sono certe, non si riferiscono alla realtà.

(A. Einstein)

Nel 1929 Heisenberg trascorse un po' di tempo in India come ospite del celebre poeta indiano Rabindranath Tagore, con il quale ebbe lunghe conversazioni sulla scienza e la filosofia indiana. Questa introduzione al pensiero indiano ha portato Heisenberg grande conforto, mi ha detto. Cominciò a vedere che il riconoscimento della relatività, dell'interconnessione e dell'impermanenza come aspetti fondamentali della realtà fisica, che erano stati così difficili per se stesso e per i suoi compagni fisici, era la base stessa delle tradizioni spirituali indiane. "Dopo queste conversazioni con Tagore," disse, "alcune delle idee che sembravano così folli improvvisamente avevano molto più senso. Questo è stato un grande aiuto per me.

(F. Capra, Uncommon Wisdom, p. 43)

La mia tesi principale è che gli approcci di fisici e mistici, anche se all'inizio sembrano molto diversi, condividono alcune caratteristiche importanti. Per cominciare, il loro metodo è completamente empirico. I fisici traggono le loro conoscenze dagli esperimenti; i mistici da intuizioni meditative. Entrambe sono osservazioni e in entrambi i campi queste osservazioni sono riconosciute come l'unica fonte di conoscenza. Gli oggetti di osservazione sono ovviamente molto diversi nei due casi. I mistici guardano all'interno ed esplorano la loro coscienza a vari livelli, compresi i fenomeni fisici associati all'incarnazione della mente. I fisici, al contrario, iniziano la loro indagine sulla natura essenziale delle cose studiando il mondo materiale...si rendono conto che loro stessi e la loro coscienza sono parte integrante di questa unità. Così, il mistico e il fisico arrivano alla stessa conclusione; uno partendo dal regno interiore, l'altro dal mondo esterno. L'armonia tra le loro opinioni conferma l'antica saggezza indiana che Brahman, la realtà ultima, è identica ad Atman, la realtà al nostro interno. Un'altra importante somiglianza tra le vie del fisico e del mistico è il fatto che le loro osservazioni avvengono in regni inaccessibili ai sensi ordinari. Nella fisica moderna, questi sono i regni del mondo atomico e subatomico; nel misticismo, sono stati di coscienza non ordinari in cui il mondo sensoriale quotidiano è trasceso. In entrambi i casi, l'accesso a questi livelli di esperienza non ordinari è possibile solo dopo lunghi anni di formazione all'interno di una disciplina rigorosa, e in entrambi i campi gli "esperti" affermano che le loro osservazioni spesso sfidano le espressioni nel linguaggio ordinario.

(Capra at 40th Anniversary Mystics and Scientists Conference Horsley Park, Surrey, 7-9 April 2017)

Sembra legittimo dedurne, quindi, che “scientifico” non debba anche significare “assoluto”. O, comunque, dobbiamo ammettere che la visione del mondo descrittaci dalle ultime teorie scientifiche non è esattamente in linea con l’idea di realtà che l’uomo occidentale si è venuto a formare. La scienza moderna ci sta dicendo che, pur basandosi sull’osservazione meticolosa dei fenomeni reali e, anzi proprio per questo, una definizione univoca e oggettiva della realtà sembra impossibile.

Allora, perché tenersi ancorati a un modo di vedere i fatti della vita attraverso una visione obsoleta e fuorviante? Perché l’uomo occidentale ha bisogno di certezze, abbiamo bisogno di punti fermi di riferimenti senza i quali ci sentiremmo persi in un cosmo immenso, apparentemente privo di senso. E questo non ci fa paura, ci terrorizza. Mettere in discussione il sistema di vita attuale, giusto o sbagliato che sia, potrebbe farci intravedere un futuro senza certezze, senza basi sicure. Ma non siamo pronti a questo “eccesso” di libertà. Nel corso dei secoli la nostra mente ha preferito crearsi dei binari sulla quale instradarsi e che le hanno permesso di sentirsi sicura, indirizzata verso un qualche fine, dove potesse procedere senza troppi scossoni. Oggi, però, la scienza stessa sta facendo vacillare queste nostre pseudo certezze, sta facendo deragliare il nostro treno mentale. Ma noi restiamo ancora legati ai vecchi schemi. Ricordiamoci che la fisica quantistica nasce agli inizi del ‘900, più di cento anni fa. E noi utilizziamo ancora i vecchi parametri, da allora superati. Quanto ancora ci vogliamo tenere stretti alle nostre stampelle esistenziali? Quando impareremo a camminare?

Da bambini la nostra non è di certo una mente razionale. Viene educata a esserlo. E questo non è un male assoluto, se la razionalità non prende il sopravvento sulla parte più spontanea e, soprattutto, se quest’ultima non viene addirittura imbavagliata e azzittita. I bambini, anzi, andrebbero incoraggiati a sviluppare quella parte di sé che definiamo istintiva, intuitiva. E che i bambini questa loro parte la sanno usare bene, senza che nessuno gliel’abbia mai insegnato, lo si deduce anche dalle parole di Casertano: “I bambini sentono se l’insegnante è partecipe o meno. Capiscono se l’insegnante è lì perché deve essere lì o perché vuole esserlo”. I bambini “sentono”, non è meraviglioso questo? Ma poi, crescendo, questo sentire lo perdono instradati dalle convenzioni, dall’educazione e dai voleri di una società retrograda e per niente funzionale alla vita, come tutti ormai ci stiamo rendendo conto.

Non dico che quando nasciamo siamo in una condizione idilliaca, perfetta e che man mano che cresciamo non facciamo altro che inanellare un errore dietro l’altro. Quello che sto dicendo è che c’è una forte componente di noi stessi ben presente al momento della nostra nascita – ma anche prima – e che il nostro modo di interpretare la realtà attuale disconosce e, in alcuni casi, colpevolizza o ridicolizza e, per questo, ce ne dimentichiamo, la releghiamo nelle stanze buie della nostra mente. Salvo quando, per risolvere i nostri inevitabili problemi esistenziali, dati appunto da una vita innaturale, ricorriamo a varie pratiche per farla riemergere e chiedergli aiuto.

Ora, noi adulti siamo ormai in questa condizione, ma perché non aiutare i nostri piccoli evitandogli gli strazi di una vita dicotomica?

Possiamo e dobbiamo assolutamente farlo, se abbiamo a cuore il bene, non solo dei nostri figli, ma del mondo intero. Perché è di questo che stiamo parlando, della sopravvivenza dell’essere umano e dell’intero sistema-vita.