Fammi un ritratto del sole
Così che possa appenderlo in
camera mia
E possa fingere di scaldarmi.

Disegnami un pettirosso su un ramo
Così che io possa ascoltarlo
mentre dormo.

(Emily Dickinson)

I più recenti modelli psicoanalitici sottolineano l’importanza dell’aspetto estetico del lavoro di analisi, in quanto si occupa di trasformare le emozioni invisibili in emozioni sensorialmente percepibili, nel senso che si possono vedere, toccare, odorare, sentire, gustare, ridando vita ad un’esperienza emotiva che era stata mortificata tanto da non essere più avvertita o era, al contrario, così straripante da creare scosse telluriche tramortenti. In entrambi i casi, comunque, con un vissuto di impossibilità di riconoscere e dare significato emotivo all’esperienza.

La sfida dell’analista consiste proprio nel trovare il modo per contattare questa verità e poterla dire, si tratta di “trovare una lingua… dell’anima per l’anima”. (Rimbaud)

L’analista, come l’artista, deve farsi “veggente”, “trovatore”, inventore, cantore, pittore, rinunciando, pur dolorosamente, alla realtà esterna per entrare sintonicamente nel mondo de-concretizzato, de-costruito del suo paziente e poter risognare con lui quella realtà che non gli era stato possibile trasformare in sogno, quindi pensare, quindi simbolizzare.

D’altra parte, il sogno, l’attività più intima e più psichica dell’uomo, opera trasformazioni, mascheramenti, finzioni proprio per dare forma tollerabile ed immagine a realtà così ustionanti per la mente, da non poter essere riconosciute da svegli.

È offrendo un contenitore narrativo che si possono mettere in scena personaggi reali, stravaganti o finzionali, che legati in un racconto possono trovare pensabilità.

È sempre più evidente come la funzione psicoterapeutica non possa avere un intento investigativo, in quanto è proprio la versione “imbugiardata” (Ferro), la narrazione finzionale, che può dare parola alla verità emozionale ed essere trasformativa, per cui riconoscibile e sostenibile, proprio come succede nel lavoro del sogno.

A proposito di “finzione narrativa”, questa “verità” riguardante l’assetto mentale psicoterapeutico ce la mostra, raccontandocela in maniera efficace e toccante, una narrazione di finzione, appunto. Si tratta del romanzo Mr. Holmes. Il mistero del caso irrisolto, dove il famoso abilissimo detective, pur avendo ricostruito in maniera dettagliata ed impeccabile i fatti di realtà della donna che doveva controllare, non era riuscito a salvarla dal suo intento suicida. Solo verso la fine della vita, ripensando con rammarico al caso irrisolto, ma questa volta con animo disponibile al rispetto invece che al sospetto, il detective scopre che l’ingrediente mancante nella sua ricerca era stata una partecipazione emotiva che potesse permettergli una visione umana della situazione così da costruire una restituzione accettabile per la donna. Invece il gelido resoconto dei fatti di realtà non solo non era stato di aiuto, anzi, aveva scoperchiato senza pietà la verità della giovane, mettendo a nudo il suo dolore, nudo e crudo, senza una cottura trasformativa come invece accade nei sogni. Le aveva quindi rovesciato addosso una sorta di interpretazione violenta, esponendola così ad una sofferenza abbagliante, non attutita da un velo narrativo, né da una partecipazione affettiva, ma rimandandole una sofferenza impossibile da soffrire da sola e talmente intollerabile che la donna si era uccisa.

Avevo ricostruito con successo i fatti, ma non ne avevo capito il significato… avrei dovuto fare qualcosa per lei… non elencarle solo i dettagli della sua storia, magari mentirle, prenderla per mano mentre piangeva… sono stato un vigliacco… La vita umana non è spiegata dalla logica… Ecco così ho fatto la mia prima incursione nella letteratura di invenzione... non bisogna lasciare la vita senza questo completamento…

Questo ci dice tanto del bisogno di rinunciare alla ricostruzione minuziosa dei fatti, all’indagine ossessiva della storia, alle interpretazioni forti, per dare voce e canto ad un racconto carezzevole, ad una “finzione trasformativa”, quasi la nenia di addormentamento dei bambini per tenere a bada i fantasmi cattivi che assediano la culla, perché in questo modo si può avere accesso all’emotivo disturbante in modo sostenibile.

Stare nel buio dell’ignoto, nella pittura dell’onirico, nell’incanto della bellezza terrifica, nella sintonizzazione del suono, nella favola della metafora, nel vago della sospensione, permette di accostarci all’inconscio usando il suo linguaggio. Questo assetto mentale aiuta a non cadere nel rischio dell’attrazione di una illuminazione al neon dei fatti di realtà o incorrere in qualche “forma spuria di pratica cognitivista" (Civitarese) o a non diventare ottusi o sordi o ciechi o senza tatto, gusto, odorato impedendoci di vivere appieno l’esperienza emotiva all’unisono.

Se il paziente si sente ospitato nel racconto, se si sente a suo agio perché gli offriamo una storia dove si sente rispecchiato in maniera sostenibilmente vera e ci sente partecipi e a nostro agio nell’ascoltare e nel condividere il suo racconto, oltre al piacere dell’aver trovato il proprio posto dove potersi accoccolare, sperimenta il significato profondo del perché il suo viaggio con noi e può sentire la motivazione e il desiderio di continuarlo. È il piacere di giocare assieme, di aver co-costruito un’area di gioco, un “campo” tutto nostro, è l’accettare con convinzione e curiosità l’invito implicito: “ci stai a giocare con me?”

Ferro, geniale giocoliere, arriva a definire lo psicoanalista anche come un “…mago. Fa la magia dei suoni, delle immagini, delle parole, esorcizza demoni, cavalca draghi… ovvero apre allo spazio della fantasia, dell’immaginario, dell’assurdo, del terrifico”.

Ascolto, passione, identificazione, narrazione sognante, invenzione della sua storia, ecco come Isabel Allende, in Eva Luna, inventa di trasformare in profumo di vita l’odore di tristezza che emanava da un guerriero di ritorno dalla guerra. Era un uomo “straniero” che non aveva dentro di sé nessuna immagine del passato, nessun ricordo albergava più nella sua mente, si trattava di un vuoto terrifico ricoperto da un vestire-da-umani, come uno spaventapasseri. Era da riempire quella nientità per impedire che crollasse. Da riempire con una storia.

C’era una volta una donna il cui mestiere era quello di raccontare storie. …Un mezzogiorno di agosto… vide avanzare verso di lei un uomo altero, magro e rigido come una spada… e quando si fermò lei avvertì odore di tristezza e seppe subito che quell’uomo veniva dalla guerra. La solitudine e la violenza gli avevano conficcato schegge di ferro nell’anima e l’avevano privato della facoltà di amarsi. Tu sei quella che racconta storie? Domandò lo straniero… allora vendimi un passato, perché il mio è pieno di sangue e di lamenti… ho smarrito persino il nome di mia madre. Lei non poté rifiutare… vedendo i suoi occhi da vicino si sentì prendere dalla compassione e provò il desiderio potente di stringerlo tra le braccia. Cominciò a parlare. Tutta la sera e tutta la notte costruì un bel passato per quel guerriero, mettendo al suo servizio la sua vasta esperienza e la passione che lo sconosciuto aveva suscitato in lei. Fu un lungo racconto, perché volle offrirgli un destino romanzesco e dovette inventarlo tutto, dalla nascita fino al giorno presente, i suoi sogni, gli aneliti e i segreti… Giunse l’alba e alle prime luci del giorno lei constatò che l’odore della tristezza era scomparso. Sospirò, chiuse gli occhi… gli aveva offerto la propria memoria, non sapeva più cos’era suo e quanto ora apparteneva a lui, i loro passati si erano ormai intrecciati. …E si abbandonò al piacere di fondersi con lui nella medesima storia…

Siamo al cospetto, attraverso questo intenso racconto, dell’estensione nel campo del senso, del mito e della passione dei legami relazionali e dell’interpretazione in cui il lavoro psicoterapeutico evolve. Sono parole vive quelle della Allende, muovono emozioni, com-muovono, i personaggi, anche se di finzione, li sentiamo reali perché emotivamente veri e apprendiamo quindi che la strada per poter metabolizzare il dolore traumatico e per poter ricostituire e incontrare la nostra sostanzialità, impone di posizionare sullo sfondo la realtà dei fatti per dare vita ad una nascente realtà finzionale, che è “in qualche modo un cammino ‘bugiardo’, ma l’unico che spesso ci possiamo permettere.”(Ferro)