Quando chiesero a Herbert von Karaian, probabilmente l’ultimo direttore orchestra a raggiungere lo status di mito, che cosa ci fosse meglio della musica rispose: “il silenzio”. Restando in ambito musicale, quanta sensazione fece il brano “4,33” scritto -o solo registrato?- nel 1952 da John Cage e privo di qualsiasi suono o rumore! A completamento, lo stesso nel 1961 scrisse pure un libro, intitolato infatti Silenzio, in cui esplora il rapporto tra la musica e l’assenza di ogni suono e/o rumore. In tutti i casi lo scopo era naturalmente quello di sorprendere e fare un po' di polemica, allora non diffusa come oggi per cui si arrivava perfino a fare notizia. Certo, erano anni davvero diversi dal nostro tempo.

Restando in ambito artistico, ma passando dal sonoro al visivo, molti sono i riferimenti che possiamo riscontrare e -più o meno- apprezzare. La casistica è talmente estesa che potremmo farla iniziare -come potrebbe non essere così?- con l’ “Urlo” dipinto nel 1893 da Edvard Munch, che ne fece pure altre versioni fino al 1910: dal titolo all’immagine rappresentata, tutto sembra invadere il nostro “spazio sonoro”. Molti parlano di rappresentazione di un gesto frutto dell’angoscia in cui versava -evidentemente già allora- la condizione umana. Indubbiamente l’aver mostrato il gesto che produce un fortissimo suono genera una interessantissima traslazione tra i sensi, che, almeno in parte, ne giustifica il grandissimo successo.

Dalla parte opposta, quindi via via che “abbassiamo” il volume, finiamo per giungere ai cosiddetti “pittori del silenzio”, che se vengono definiti in questo modo vanno esattamente -ne siamo proprio sicuri?- nella direzione qui affrontata ed anzi dovrebbero essere giunti al risultato auspicato. In realtà, l’appellativo si riferisce alle atmosfere dipinte. Sono, infatti, soprattutto caratterizzate dall’immagine della quiete, in un certo senso come fosse simbolo e significato di intimità, il che è ben diverso dal silenzio vero e proprio. Semmai si dovrebbe parlare di colloqui “sottovoce”.

Su una linea diversa, più che parallela direi ubicata su altra quota, per cui non si interseca mai con le altre, propongo di considerare il lavoro di Edward Hopper, nato nel 1882 e deceduto nel 1967, vero e proprio maestro analista del nostro sentire. Nei suoi quadri ci illustra il nostro modo di vivere, isolando alcune situazioni, che sembrano senza tempo, perché avulse dallo scorrere di questo ed addirittura immutabili, in cui non vi può essere alcun suono ma più che di silenzio qui siamo in presenza della solitudine.

I due termini appaiono non scindibili, quasi come se uno fosse la causa dell’altro: è la solitudine a causare il silenzio (dato che in carenza di qualcuno diverso da noi non possiamo certo comunicare) o è quest’ultimo a provocare/generare la prima (visto che, pur in presenza di nostri simili, se non riusciamo ad avere alcuna “vera” relazione con questi non possiamo che essere e sentirci profondamente soli)?

Mettiamo tra parentesi il dubbio e passiamo al parlato. Anche un detto italiano affronta il medesimo tema, con il chiaro scopo di insegnarci/consigliarci sul da farsi. Il riferimento è al notissimo "Un bel tacer non fu mai scritto". Poco importa se, come afferma qualcuno, lo si debba addirittura a Dante Alighieri oppure più sommessamente a Iacopo Badoer, poeta veneziano del XVII Secolo, quello che conta davvero è, ancora una volta, l'importanza del silenzio. Almeno in certi momenti, infatti, si dovrebbe avere la capacità di non proferire parola, e non si dica che così facendo si usa violenza a noi stessi, semmai ci facciamo una cortesia! A tutti gli effetti riuscire a starsene zitti al momento opportuno è sicuramente una notevole skill, come sa chi definisce le capacità. Vuoi mettere dirlo in inglese? Specie se l’argomento è il non-dire.

Anche il grandissimo Karl Kraus disse la propria sul tema, spiegandoci che: “Sono i fatti ad avere la parola per cui chi ha qualcosa da dire faccia un passo avanti e taccia”. Il significato è chiaro, non serve aggiungere alcunché, semmai andrebbe quanto meno compreso che abbiamo dato troppo spazio ai parolai, per cui urge tornare quanto prima alla realtà: non ne possiamo più di chi pretende di spiegare agli altri cosa devono fare, omettendo di precisare come in vita propria non sia mai stato capace di ottenere nessun risultato, ed un motivo dovrà pur esserci! Del resto non può essere per caso se sempre più persone assumono ruoli “teorico-critici” anziché “operativi”. Come se al fare si preferisse il parlarne: non progettisti o realizzatori ma disquisitori, narratori e formatori! Ovviamente senza alcun contributo propositivo ma solo di cassazione sull’operato altrui, naturalmente salendo e scendendo dai carri dei vincitori con una velocità impressionante.

In questa sede, però, si disquisisce diversamente. Manca l’autorità dei grandissimi appena citati, gli anni sono altri e francamente non se ne può più. Conosciamo molto bene l’effetto, meno le sue cause così come non siamo in grado nemmeno di immaginare da dove potremmo iniziare a porre rimedio alla cosa. L’educazione, infatti, non è papabile.

In ordine sparso, non di importanza o di qualsiasi altro tipo, elenchiamo alcuni “aspetti” che, con probabilità solo buona, hanno comportato l’aumento a dismisura delle emissioni sonore. Se serve far da subito un po’ di chiarezza, non trattiamo certo degli allarmi che suonano a sproposito, semmai la necessità sempre più sentita di silenzio è a tutti gli effetti un segnale ancora più allarmante. Senza scomodare psicologi, psicoterapeuti e altri studiosi affini, sembra evidente il bisogno di essere ascoltati. Da soddisfare pronunciando qualsiasi cosa, meglio se utilizzando tante parole ed a volume altissimo. Che sia un fatto statistico? Molto più difficile, dal punto di vista numerico, che qualcosa arrivi a qualcuno se emettiamo poco e piano, con buona pace della qualità, ovvio.

Anche luoghi comuni come quello che le donne parlerebbero tanto, e soprattutto, più degli uomini, sono stati definitivamente archiviati. Molti, anzi moltissimi, sicuramente troppi, maschi, in genere avanti negli anni, sparano parole usando la bocca come fosse una mitraglia, al punto che definirli logorroici è troppo poco, suggerendo di chiamarli con il termine logodiarreici. Quello che dicono è in genere di una pochezza che contrasta con la quantità di suoni emessi, facendoci ritenere di essere in presenza di una vera e propria patologia, facendoci consigliare loro di rivolgersi a chi cura gli attacchi di panico.

L’horror vacui, non lo vogliamo considerare? Non si tratta, ovviamente, della paura degli spazi aperti e nemmeno delle vertigini quando siamo in presenza di spazi sottostanti notevoli, men che meno di corpi squartati o altre immagini che potrebbero suscitare sensazioni “forti”, anche spaventose. Molto semplicemente si tratta -letteralmente- della paura del non-noto, o -a livello più basso, il nostro- dell’assenza, quella che potrebbe essere riempita da qualcosa di non proprio gradito, che potrebbe trasformare l’apparente orrore di cui avere paura, in quanto non conosciuto, in vero e proprio terrore!

Oggi, non stiamo cambiano argomento, è il modello televisivo ad avere il miglior successo. Pur in presenza di un innegabile bisogno di quel “pieno” che ci impedisce di divagare assistiamo -passivamente, come potrebbe non essere così?- ad una sorta di vuoto pneumatico che impedisce il ragionare. E pensare che ci sono decine di migliaia di persone che ritengono di farsi un’opinione, che evidentemente non hanno, scegliendo -nel migliore dei casi- il programma da cui comprendere (o uniformarsi?) oppure semplicemente adagiandosi sui pareri espressi dalle proprie (brutte) figure di riferimento.

I suoni articolati che costituiscono il nostro linguaggio non sono i soli che percepiamo. Come noto, i nostri padiglioni auricolari sono bombardati anche da rumori di ogni tipo. La differenza è notevole, i risultati anche. Il fastidio non è più legato al dover ascoltare ciò che non ci interessa, e forse ci infastidisce, qui si tratta di vere e proprie patologie. I rumori provenienti dalle strade o dalle ferrovie, ma anche i più rari porti ed aeroporti, sono causati ovviamente dai motori dei mezzi di trasporto. L’esposizione, anche a rumori di intensità non elevatissima ma ripetuta nel tempo (per anni, non per giorni!) ci distrugge il sistema nervoso.

La normativa, che non serve solo a reprimere ma ad “indirizzare” il nostro operato, ha comportato la riduzione di molti rumori così come la tecnologia ci ha messo a disposizione una quantità di prodotti sempre più numerosi e performanti nella riduzione dei suoni nell’ambiente.

L’importanza del problema è tale che chi può cerca luoghi isolati, per abitare, per lavorare, per vacanza, per curarsi e così via. Le foto dei luoghi esotici che ci vengono mandate dai fortunati che ci sono stati, e vogliono essere invidiati, mostrano la bellezza dei luoghi ma solo in pochi casi comprendiamo il grado di pressione sonora presente. Al contrario, perché certe foto di luoghi non particolarmente belli piacciono tanto? Pensiamo a certi argini di fiumi annebbiati, le assolate dune nel deserto, certe spiagge o montagne prive di persone, che cosa ce li fa piacere tanto? Sicuramente l’immagine, ma -credo- anche l’evocazione del silenzio, la cui assenza lo rende prezioso e desiderato. Non l’abbiamo e non lo possiamo avere, nel migliore dei casi possiamo però “vedere” -o “guardare”?- il silenzio. Condividendolo pure con altri che, esattamente come noi, patiscono la stessa nostra carenza.

Il parallelo o confronto tra l’eccesso verbale e la totale mancanza di suoni ci suggerisce qualche osservazione piuttosto interessante. Limitandoci alla principale, se è vero, e naturalmente lo è, che i discorsi di cui si scriveva in apertura ci dicono ben poco, o forse nulla se non un disturbo fastidioso, mentre il silenzio, presente o solo evocato, comunica un sacco di cose, si invertono principi che ritenevamo basilari ed intoccabili. Dal punto di vista pratico, chi ha compreso quanto sopra e volesse migliorarsi non potrà che rivedere la propria comunicazione, quella vera perché trasferisce il proprio oggetto nelle due direzioni. Infatti, chi parla da solo, senza lasciare spazio ad alcuno, non comunica affatto, da solo sfogo ai propri istinti.

L’esatto contrario, l’agognato silenzio (niente parole e nemmeno suoni), può essere di un solo tipo? Forse per la fisica ma non per noi umani. Un primo tipo, infatti, è, come ovvio, quello che fa parte del sentire e dell’uso comune, caratterizzato dalla temporanea mancanza di vibrazioni acustiche: non si parla, non si suona e non si fa rumore. Nessuno dica: un sogno. Limitiamoci a pensarlo, meglio ancora se riusciamo ad applicarlo, al limite ad intermittenza, come certi digiuni.

Il secondo, ed ultimo, si verifica dopo che tutto è stato detto. Non è impossibile, come potrebbe superficialmente sembrare, perchè purtroppo spesso, abituati come siamo a ripetere i soliti discorsi triti e ritriti, sentiti in televisione o sui social network, ma anche spesso in dibattiti del tutto inutili, non abbiamo nulla da dire. Ripetere, infatti, cose note ci protegge da ogni forma di incognita, è rassicurante ma privo di interesse, quanto meno al di fuori delle sedi degli indottrinati. In questo caso, quando non ci si espone in prima persona, per paura ma anche perché nulla resta da dire o può essere aggiunto, quello che si apre è un dramma.

Non abbiamo né tempo né spazio -e neppure voglia- di affrontare la comunicazione tra esseri silenziosi, forse anche per la difficoltà di “codificare” messaggi tanto complessi, che verrebbero sminuiti, se non addirittura snaturati quando ricondotti all’interno di un sistema razionale come è quello del linguaggio che stiamo utilizzando qui ed ora. Più modestamente non resta che autosuggerirci di emettere “segnali” in modo più limitato dal punto di vista quantitativo senza nel contempo porci limiti di tipo qualitativo, se non le nostre capacità.

Il modello avrà sicuramente un certo successo in alcuni contesti, negli altri -quelli in cui avverrà l’esatto contrario- non potremmo che, per salvaguardare la nostra salute psicofisica, imporre all’eccesso di “rumore comunicativo” il suo opposto, appunto il silenzio, facilmente ottenibile sottraendoci dal fare da bersaglio ai programmi televisivi ed ai social network ma anche a persone che evidentemente hanno un vuoto da colmare e ritengono di poterlo fare approfittando della nostra “disponibilità”. In questi casi il salutare silenzio è tutt’altro che impossibile, dipende solo da noi e dalla nostra volontà e capacità di imporre lo switch, ruotando la manopola virtuale fino a togliere il bersaglio a questi emittenti, imponendo loro, tramite la nostra assenza, il silenzio.