E c’è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

Caro Ugo, lo sai che apprezzo da molto tempo la tua opera artistica, che più volte ho definito “sorgiva” in quanto traboccante di visioni che sembrano possedere la naturalezza del sogno insieme alla pervasività totale della musica. Proprio per questo ti considero, oltre che un artista significativo, anche un “esperto” di sogni e di visioni. Appunto: sogno e o visione? Che rapporto hai con queste due parole?

Tutto quello che mi riguarda come espressione artistica l’ho vissuto come un mondo non solo onirico ma che possiamo definire “immaginifico” e associato soprattutto al tempo della prima infanzia, dove la creazione è spontanea e non appare ancora vagliata da maestri o altre mediazioni. Si tratta di un qualcosa vicino al gioco. Non è un caso che un filosofo, molto “gettonato” attualmente, affermava che la maturità dell’uomo consisteva nello svolgere la propria attività con la serietà che i bambini mettono nel gioco. Invece i sogni possono sembrare folli, ma hanno una relazione con il gioco. Nella mia “prima” lingua: il napoletano, il verbo “giocare” si traduce in “pazziare”, a dimostrazione del legame che esiste tra le due caratteristiche umane, e il passaggio ad espressione artistica è solo una questione consequenziale. Il sogno è comunque sempre un’attività che ti lascia perplesso, ma in effetti esso trascende la nostra parte più nascosta e i nostri desideri dandoti la possibilità di tuffarti nel mondo simbolico. In verità il sogno iniziai ad analizzarlo grazie alla scoperta del surrealismo e del pensiero di André Breton. All’età di tredici, quattordici anni iniziai a confrontarmi con questi mondi anche attraverso approcci come l’automatismo psichico e la concezione dell’Es freudiano. Allora quindi maturai questo sguardo e questa tecnica compositiva che ancora mi accompagna, al fine di lasciar emergere energie senza filtri esterni. Lo chiamo “surrealismo a passo ridotto”. Alcuni elementi e rappresentazioni sono mediate dal a una parte e dall’altra da una razionalità intesa quale sforzo di tenere insieme tutti i componenti dell’opera pittorica. L’essenza dell’essere umano è duplice e la mia opera è sempre doppia nelle sue rappresentazioni. Una spontaneità vissuta, integrata, processuale, che come un fiume associa a sé anche esperienze, pensieri, esigenze tecniche.

Siamo qui di fronte a questo quadro, a proposito di “doppio”, dove accanto ad una donna con un copricapo di ariete abbiamo un altare antico con uno scheletro di ariete. C’è un elemento immaginale centrale nelle tue opere attorno al quale poi si aggregano le altre visioni? Dentro il traboccare delle visioni e delle rappresentazioni si coglie un senso come magico di unità e di organicità. La tua opera ci mostra quella che chiamo “unità organica” o “presentazionale” cioè mi trasmetti un senso di proiezione immaginale che supera la tradizionale distinzione fra rappresentazione e ideazione per cui le tue visioni si squadernano vive autonomamente da uno sguardo semantico. Naturalmente resta sempre la nostra tensione riappropriativa, propria di chi guarda, cioè il cercare di cum-prehendere (che significa “abbracciare” “prendere attorno”) l’opera, per cui mi chiedo talvolta, al di là dell’aspetto semantico quello a cui accennavi, cioè come opera il tuo processo creazionale, cioè come si intrecciano nella genesi creativa le dimensioni intenzionali occasionali con quelle programmatiche-poetiche o mitopoietiche. Si percepisce infatti una coerenza intima, interna, una credibilità proprio dentro uno stupefacente irradiarsi visionario. Ciò deriva da questa “logica simbolica” a cui accennavi?

Sì è così. L’opera si muove tra le due polarità del caos archetipale del vissuto e dell’attenzione all’equilibrio geometrico e spaziale del dipinto. Esigenza compositiva di stile rinascimentale, che aiuta a compiere l’unità, l’armonia e la credibilità del dipinto come visione. L’irrazionale appare così possibile, vicino, affidabile. Così pure opera la mia tecnica pittorica, accurata sì ma con lo sforzo a non cedere mai alla compiacenza estetica o all’aspetto iper-reale, al solo scopo di rendere credibile ciò che può essere solo immaginato. La realtà e la surrealtà magicamente alleate per sconfiggere l’ovvio e il banale. Uno storico dell’arte a conclusione della presentazione di un mio catalogo si chiedeva se fosse il mio il vero mondo, rivelato e intuibile da chi avesse il dono di intuire, dove serve a poco a nulla la ragione.

Un’espressione artistica che sta in piedi indipendentemente dalla tensione semantica. Si comprende che ci sono dei significati in ogni componente immaginale, in ogni elemento figurativo ma il fascino epifanico-onirico si trasmette con tale forza e immediatezza da lasciarmi in secondo piano l’assorbimento semantico.

Sono io che pongo domande a chi guarda i miei quadri.

Sei la Sfinge!

Oltre che fenice e altri esseri! Penso che una volta che l’opera sia conclusa essa cessi di conservare un significato intrinseco e univoco per assumere i sensi che gli possono attribuire coloro che la guardano. Si accende un circuito dinamico incessante. Questo mi interessa. Questa reattività reciproca fra opera e sguardi futuri. Mi è capitato che qualcuno mi abbia detto: sono belle le tue visioni ma fanno “troppo pensare”! Ma io penso che quello che manca è “l’abbandono”, l’abbassare le “difese immunitarie” del proprio ego nel nome di una realtà “altra”, dove è possibile fare domande e nello stesso tempo porsi delle domande; dove i contrasti smettono di contrapporsi alla ricerca di una quiete armonica.

Ma questa è una qualità. È l’imprescindibile dimensione noetica proprio dell’imago e del processo figurazionale.

Per loro era un fastidio per me era un complimento. Un determinato pubblico si trova spiazzato di fronte alle mie opere, perde le sue certezze ontologiche, prova imbarazzo al cospetto della libertà di raffigurazioni e di accostamenti destabilizzanti secondo un certo criterio comune. Sicuramente la visione, il sogno, il realismo e la magia non sono mere decorazioni o forme di arredamenti o di evasione. Sono un discorso poetico.

Certo perché nella decorazione c’è un addomesticamento e un previo riconoscimento che non può esserci in visioni come le tue che sono scaturigini totali, eruzioni vive, libere. Mondi nuovi che riposizionano tutto in se stessi e in chi guarda.

Nel dipinto che prima hai indicato, Amelia o la pittura dal nome di donna c’è un elemento che esiste davvero, quell’altare antico che è un reperto presente nel museo di Amelia, dove ho esposto le mie opere a stretto contatto con i reperti archeologici, compresa la colossale statua bronzea del Germanico. Sono partito da quello e da quello ho sviluppato contaminazioni con il resto. Il mio “problema” è al contrario: ogni opera è differente. Sempre. Probabilmente e paradossalmente un limite dei miei lavori è che in ognuno di essi metto sempre tutto me stesso. Ogni tanto vorrei ripetermi ma non ci riesco, vorrei ritornare su dei lavori già realizzati, affrontare il tempo ciclicamente per assaporare le gioie del “ritorno”, ma a volte il tempo del mio lavoro assume un aspetto “lineare”. Ho sempre tante idee da cui attingo ed elaboro un pensiero mio e singolare. Non offro certezze ma un percorso labirintico. Offro elementi per una visione che chi guarda vivrà. La mia opera non si pone messaggi o segnali criptici e non è nemmeno un rebus da decifrare. Quello che vedi è. Un processo immaginifico e vuol restare sincero, trasparente, generoso.

Il labirinto mi sembra una buona metafora per il tuo processo creativo pittorico. Il Mito ci insegna che il labirinto è anche una danza, una costruzione, un rito, un enigma. Una Via che contiene molte vie.

Sì, ed è anche una figura archetipica.

Un altro aspetto significativo e carismatico che si coglie è la specialità del tuo tempo espressivo, che definirei “aionico”.

Il tempo da un certo punto di vista non esiste! Il passato è andato, il futuro ancora non esiste, e il presente ci sfugge mentre lo viviamo, continuamente… Qual è il tempo? Dove si trova?

Il tempo della tua visione sembra assumere in sé più tempi, compresi quelli del mito, della storia dell’espressione artistica e degli stili. In certe tue opere ci sono segni pop o fumettistici giustapposti a forme archeologiche, rinascimentali e futuribili. Tutto dentro un tempo continuo e fermo che è quello del sogno/visione colto come ancora in corso, ancora in formazione.

Tutti i tempi storici dell’arte e della vita sono compresenti e vi attingo liberamente, senza vederli come citazioni dal passato o dalla contemporaneità. C’è un’unità che mette insieme, in accordo l’arte preistorica con la street-art.

Siamo in un tempo senza tempo ma spesso e purtroppo nel senso negativo dell’indifferenza, dell’indistinzione e dell’inconcludenza. La tua opera invece trasfigura l’attuale svuotamento del tempo riportandolo ad un equilibrio superiore, istantaneo, e tanto verticale quanto abissale.

Il tempo assume un senso di positività quando riesci a catturarlo e a fermarlo nell’arte. Io cerco l’armonia fra ordine e caos. La spontaneità plurale e complessa in cui mi abbandono, immergendomi anche nei retaggi e nel vissuto, richiede poi un’attenzione all’equilibrio della composizione. Questa seconda fase dura a lungo e corrisponde anche al carattere meditativo del disegno. Prima di dipingere realizzo un disegno molto dettagliato. Questo è il momento in cui i pesi visivi vanno equilibrati in modo sostanziale. Un quadro può anche essere inquietante o suscitare emozioni particolari ma il mio intento è ritrovare l’armonia. O l’uomo cerca l’armonia o la sua vita perde senso. E l’armonia è data anche dalla geometria, dal bilanciamento e dalla dislocazione spaziale della composizione. Sotto questo aspetto riconosco la parte del mio aspetto rinascimentale.

Siccome la tua è un’arte globale, che esprime come dicevamo una pluralità di tempi e un assumere più linguaggi e stili non è facile cogliere tutti i tuoi riferimenti artistici.

Le mie fonti di ispirazione artistica partono dalla pittura rupestre per passare attraverso il barocco, Caravaggio, la Napoli seicentesca e quella alchemica-esoterica del settecento. Ho vissuto la prima giovinezza a Napoli un luogo che da sempre basa il suo fascino sul contrasto del doppio, una città a “controscambio”, dove il suo “positivo” è visto anche in “negativo”, come bianco/nero, paradiso/inferno, maschile/femminile, pieno/vuoto, acqua/fuoco. Sotto di essa giace un cuore di drago. Come non amare una città bagnata dal mare e che galleggia sul fuoco? Anche le campagne umbre, i colli, i castelli ispirano anch’essi, per quanto riguarda un certo gusto infantile e fiabesco per il medioevo, tempo che mi ha sempre affascinato. Ma l’ispirazione più profonda viene dalle polarità in scontro e tensione.

Tu però alla fine poni un limite al tuo processo immaginifico. E sento una saggezza anche in questo. Concludi un circuito.

E allora che inizio il dipinto. I ripensamenti sono rari. Proprio perché come dicevo offro molta parte del lavoro allo sviluppo del disegno. Lascio l’opera decantare prima di assaporarla con i colori. Come il buon vino.

Si sente questo carisma armonico e meditativo. Congiunto alla dinamys della dialettica che dentro la visione libera, vivifica e interpella. L’opera trasmette quindi un senso di serenità e pace ma in movimento, non passiva.

Mi sembra evidente che mi rifaccio alle tre forme geometriche principali: cerchio, quadrato e triangolo, che garantiscono in innumerevoli variazioni e contaminazioni il senso meditativo-armonico. Anche in considerazione degli aspetti psichici associati alla concezione di figura, come emerge negli studi psicologici della Gestalt. Gli esperimenti scientifici attuali confermano fattori presenti già cinquemila anni fa. Nel libro Il Tao della Fisica, Fritjof Capra spiega come certi fondamenti e orientamenti della fisica quantistica concordano con le filosofie orientali e i miti greci. Un libro che mi tengo sempre sul comodino.

Che differenza tra il sogno e la visione?

Io penso che siano differenti. La visione è “comandata”. Il sogno invece è libero, autonomo. Viene dal mistero e dal nostro vissuto, dalle cose che non ricordiamo più di aver vissuto. Il sogno è un’espressione automatica, non controllata né controllabile. Ci sono tipi differenti di sogno: come catarsi dell’esperienza, come sua trasfigurazione o compensazione oppure esperienza altra, parallela. Anche la visione può essere un’illuminazione, istantanea, ma pure un qualcosa che appartiene a scelte, ad una via presa, ad un “voglio vedere”, ad un porsi le stesse condizioni della visione che apparirà.

Certe tue opere sembrano presentare rapporti associativi di tipo simbolico-archetipale come, ad esempio, Pulcinella e l’unicorno nella loro giustapposizione nel segno del corno, scaramantico e proprio dei bestiari fantastici. Ti capita di procedere anche per associazioni di questo tipo? Che tipo di associazioni visive sono?

L’effetto visionario è sempre voluto però come dicevamo certe volte dietro le immagini più semplici c’è un aspetto di mistero, di segreto, di grande verità. Non si dice “il segreto di Pulcinella”? Dipende da come ti poni rispetto alle cose.

Non è quindi strano che vicino a Pulcinella compaia un unicorno, come fossero amici.

Assolutamente no. Anche perché se vogliamo ho adoperato, non a caso un corno di mucca. Un qualcosa di apparentemente vile messo sulla fronte di un cavallo per trasformarlo in bestiario fantastico… ma è un corno che usano a Napoli in particolari bancarelle dove vendono frattaglie di mucca che ti danno con il limone e il corno serviva per spargere il sale di cui era pieno. Le visioni sono spesso associazioni di un vissuto che reinventa i simboli come pure trasfigura la realtà. Uso il simbolo come un linguaggio visivo non come un vocabolario. Una lingua viva, parlata, spontanea. Non sono un elenco di riferimenti allegorici o artificiali che separano e congiungono il lato vivente da repertori simbolici. Si tratta invece di un’unità vivente. Per me la farfalla è un segno che amo ed uno degli elementi ricorrenti in molte opere, ma solo in seguito sono venuto a conoscenza che per i greci aveva un senso simbolico animico. Per me era importante già prima, secondo simbologie mie, personali.

In altri casi reinventi alcuni modelli, leggermente riconoscibili come le vanitas con libri e oggetti e le balaustre con tappeti tipiche di certa pittura umanistica come in Bellini e in Crivelli.

Sì, e in quel quadro che stai indicando c’è anche una civetta che viene da un bassorilievo sumero! Una civetta viva sopra una civetta sumera scolpita. Tutto è doppio dicevamo… E accanto abbiamo una piuma di allocco, un teschio che appena appare. In quel mondo basato sulla competizione l’arte ci può indicare anche attraverso il “memento mori”, che possiamo essere fragili senza per forza essere deboli. Quando nel film ambientato tra ‘400 e ‘500, Non ci resta che piangere il frate ripete varie volte a Massimo Troisi “ricordati che devi morire”, lui per tranquillizzarlo vedendolo esaltato dal furore gli risponde: “sì, sì, adesso me lo segno”. Non so quanto appare evidente ma nella mia pittura, inoltre, è presente una certa componente ironica. In una visione completa non può mancare anche l’ironia e una certa leggerezza. Anche se su quest’ultima ho problemi sulla sua definizione semantica, dato che spesso trovo pesantissimo ciò che altri definiscono come leggerezza.

Sembri uno spirito ermetico. Io dico sempre: Hermes è il sogno, la guida dei sogni ma la visione è Maia, che è comunque sua madre. Nella tua arte vedo sia il sogno che la visione in armonia dinamica. Tu possiedi molti carismi di Hermes. Sei come lui immaginifico, fluido, multiforme. E come Hermes appari sia fresco, aggraziato che veloce, vigoroso ed incisivo. C’è una musicalità nella tua pittura che mi ricorda il figlio di Maia. Quando prima dicevi che tutto è doppio mi hai fatto venire in mente la costellazione dei Gemelli, governata da Mercurio, e i Dioscuri, epifanie ermetiche e lo stesso caduceo, che è uno e doppio. Il bello della tua visionarietà è che è una visionarietà non statica o rigida ma in movimento. Il tuo stesso simbolismo si rivela libero da ogni “ismo”: pura simbolicità viva che possiede la solare e allusiva naturalezza di un Bellini unita al fascino del “rebus individuale” proprio di un Lotto. Come se stessimo guardando una fase di una trasformazione in atto. Una visione compiuta ma nel contempo lascia la bella impressione e il valore aggiunto che ancora sia accadendo qualcosa dentro questa visione, si stia sviluppando ancora. La tua pittura veicola due aspetti del sogno: la grazia elegante e un ritmo necessario, inesorabile. Al sogno non puoi togliere o aggiungere nulla!

E la visione continua poi a muoversi anche nelle varie interpretazioni che assumerà negli sguardi di chi l’accoglierà. È anche un movimento interpretativo.

Certo. Ma si muove già dentro. Si sente istintivamente una tua “logica posizionale” potente. Come le “sacre conversazioni” quattrocentesche o cinquecentesche. Si riconoscono come tali ma che accadeva in esse? Si vede la presenza del mistero, non la sua soluzione. Certe volte si sente una sottile tensione o un qualcosa di inquietante. Una comunicazione magica, spirituale, come telepatica. L’arte quale conversazione sia visibile che invisibile. Si può cogliere anche quale forma di musica.

Certo, il ritmo della composizione visiva suggerisce suoni. Probabilmente le mie opere possono sembrare un teatro perenne, esse non si concludono con l’idea che ha dato forma alla genesi, sono aperte alla soluzione che ognuno specchiandosi secondo il proprio mondo interiore può definire. George Bernard Shaw, non a caso un autore di teatro, diceva: “Si usa lo specchio per guardare il proprio volto, si usano le opere d’arte per vedere la propria anima”.

Un termine che ho inventato anni fa, “mitogonico”, per la tua opera è perfetto: sintesi viva di racconto e di movimento, di energia che si squaderna. La tua visione è visione di se stessa, del medesimo processo creazionale che esprimi e visualizzi. Un’auto-visione.

Sai come si chiamavano le mie mostre anni fa? Ondaperpetua… il percorso e il moto che compie il mare fuori e dentro di noi. Tutto si muove nell’universo e l’arte è trasmissione di energia, non c’è linea che non carichi di forza e guidi l’occhio verso un “oltre” irraggiungibile, a raccogliere l’eredità di esperienze che il passato ci porge gratuitamente.

Ora devo inventare altre parole. Perché quando cerchi di capire un’arte devi cambiare il tuo linguaggio. L’arte è un processo doppiamente iniziatico: per chi la crea e per chi cerca di immergervisi. Quando mi hai spiegato il tuo Bramante falconiere e la tua aquila di Todi, che viene dal mito fondativo etrusco della città, ho aggiunto valore ad un valore di visione già presente e vibrante. Quell’aquila per me era semplicemente Zeus che appariva in una sua ciclica epifania. Di fronte a noi vivo e vivido. Ora so che è anche Todi, che è anche una parte della tua vita. La ricchezza compositiva e generosissima delle tue opere mi ricorda il senso originario della parola greca kaos: cioè la rottura dell’Uovo originario e l’erompere vitale delle potenze celesti e terrene. Una fessurazione luminosa che dà il senso di una dynamis cosmica congiunta alla precisione irrinunciabile del dettaglio, della luminosità di ogni componente ma senza smarrire il senso dell’unità dello sguardo, della totalità dell’irradiarsi. L’Uovo resta Uovo, pur nel declinarsi delle sue potenzialità. En to pan, dicevano gli alchimisti.

Caro Giacomo, il mio “fare” artistico è un discorso sull’immaginazione, è l’Uovo che contiene la storia e le leggende del mondo, in cui l’affiorare “automatico” secondo il metodo e gli accostamenti surreali rende più credibile, tangibile, l’unità di reale e fantastico, sogno e veglia, storia e mito; avvicina il passato e l’avvenire. Insomma una biografia fantastica del destino dell’esistenza. Jung sosteneva che la fantasia è pur sempre la matrice creativa di tutto quello che ha reso possibile il progresso dell'umanità. Nulla si crea senza prima immaginarlo.