Solitudine, madre mia, raccontami ancora la mia vita.

(O.V. De L. Miłos)

Settembre è mese di tramonti, di chiaroscuri e di penombre, annuncia abbandoni e prelude a promesse non mantenute, ispira canti d’amore perduto, racconta di separazioni e di oblio. Indulge nei pensieri del passato che accarezzano i ricordi e li avvolgono nel tepore dolce della malinconia.
Un mese di passaggio nel quale è difficile pensare a qualcosa di assoluto.

Cielo caldo e umido, fitto di afa, si sente il suono delle ghiande mentre si attende la pioggia. Si può vedere un arcobaleno.

Simile all’immagine fluttuante di una distesa d’acqua cangiante e inafferrabile, la mente si muove in una sorta di tempo sospeso che segna la congiunzione tra il prima e il dopo, l’aprirsi all’ignoto e il congedarsi da ciò che è stato. Non è più viva l’estate ma ancora non nasce l’inverno.

Lo sguardo si perde nell’attesa di un compimento, di una fine che possa conservare il sentore della trascorsa felicità pur nell’assenza di foglie lucenti, di pienezza calda e assolata.

Dal mare, adagiato nella prima sensazione di freddo, si leva una brezza che ne muta il colore.
I piedi scalzi nell’acqua che si è fatta più cupa toccano l’impasto sabbioso che li avvolge come un velo.

Ritorna la voce di una vecchia canzone e ascolto l’odore di fine estate, quello di quando fra un minuto piove; accolgo l’ombra lieve delle giornate che si lasciano alle spalle la luce lunga e s’infiltra nell’anima la fragile paura che la dimenticanza finisca per sfuocare i contorni d’ogni cosa, per renderci distratti.

Se osservo l’orizzonte mi viene incontro un volto con lo sguardo reclinato sullo specchio della lontananza.

Si percepisce la minaccia del vuoto, si attende un abbraccio che ci rassicuri, che scongiuri il pericolo di essere dimenticati.

Si cerca qualche segno visibile di vecchie storie, ma le parole, i pensieri, gli oggetti sembrano dilavarsi in feticci che non arrivano a farsi ricordi: come frasi scritte sulla sabbia.

Solo di tanto in tanto ricompare il colore di un’emozione che riapre finestre illuminate, squarci nei quali la vita vive, soffre, sogna.

Le immagini si affollano e tentano di riproporre messe in scena già vedute: la ripetizione ne spegne la passata intensità. Sono figure sfuocate di vecchi fotogrammi.

Le parole sono frasi d’addio, risonanze di un tempo già vissuto, testimoni di un distacco che ancora duole.

Si attende l’annuncio di un accadere che rischiari il senso di finitezza che si affaccia nel gesto di scrutare l’orizzonte, il “cerchio che separa” secondo la sua etimologia, a sottolineare il limite oltre il quale l’uomo spinge lo sguardo nel tentativo di oltrepassare la propria infinita piccolezza.
Epifania possibile di un interlocutore che dia ascolto, che dia risposta.

La linea che unisce il mare con il cielo trema nell’attesa di accogliere il disco infuocato. Laggiù, dove la distesa degli ulivi scende verso il mare, la luce scoppia d’arancione. 1

C’è un’assenza che prende parola, che è gesto fatto rivivere da un racconto, da un desiderio rinverdito, un gesto che si fa immagine dell’inconsistenza del nostro stare nella vita.

Settembre è di mare, è liquido, ha il colore ambrato del silenzio, Settembre è di lago, di fiume e di ruscello. Contiene le avvisaglie dell’oscurità nel permanere della luce. Ogni suo tramonto è metafora d’autunno. Anche di quello della vita.

Settembre è un paesaggio lirico.
Scogliere che si immergono nella distesa marina come in un originario gesto di intimità, di condivisione. Nude rocce scolpite dal tempo, sopravvivenza di epoche ignote.
Placido lago colmato da lacrime celesti.

Viali di tigli che hanno perduto il profumo ma restano in attesa di una rinnovata primavera.

C’è un odore del cielo e un colore dell’erba che si fondono nel primo tappeto di foglie cadute al soffio del vento.
Gli ultimi fichi dalla polpa rossa si spaccano cadendo a terra e mostrano la loro dolce nudità.
Il profumo di mele cotogne ricorda le parole di un passato ritornello.

Il suono di un temporale impregna l’aria di sentori ancestrali e si torna a temere il fulmine capace di incendiare la foresta.
L’anima accoglie la parola poetica che, oltrepassata la ragione, non sa rispondere all’antica domanda: quale forza domina la volta celeste?

Il cielo trasmuta in una metamorfosi incessante, è il luogo dell’apparire e scomparire di forme che costantemente si dissolvono; è la forma del divenire che ci ricorda il continuo dissiparsi delle certezze, l’illimitato avvicendarsi dell’impermanenza.

Nell’umidore della notte il capo si gira verso l’alto, antico gesto di conoscenza; si contemplano quelle “vaghe stelle dell’Orsa” ed è un tornare ai luoghi e al tempo dell’infanzia quando un aquilone era un drago fantastico e una stella cadente il mantello d’oro di un cavaliere volante.

Non c’è niente di più dolce e struggente dello stare a guardare le piccole cose che un tempo ci hanno emozionato mentre si involano come nuvole passeggere che attraversano il cielo fino a scomparire.
È il “piacer figlio d’affanno” che placa per un breve tratto il tumulto del cuore.

Settembre è descrizione, è tempo dilatato, narrazione distesa, è figura che si disegna con labili contorni, cerca parole da sussurrare come ad un amato, parole ispirate e disperanti, parole di assenza e di perdono, parole che non hanno più lo stesso significato e lo stesso suono, parole che fanno ritorno, “parole dolci di uva passa”.

Parole che si concedono di sconfinare in romantiche visioni di giardini segreti, di terrazze aggettanti sulle rive di laghi e fiumi, di alti belvederi come quelli dipinti da Caspar David Friedrich.

Aprendo un vecchio quaderno ritrovo una frase che non ricordavo:

C’è sempre un’isola da scoprire e possiamo sempre ritrovare lo spirito avventuroso che ci fa iniziare il viaggio. Non importa quando, non importa come, non importa per dove. Ciò che cerchiamo è ignoto e proprio per questo capace di meravigliarci. Ciò che cerchiamo è sempre la felicità.

C’è un soffio che abita le sillabe e ne fa nascere parole lievi, liberate dal dolore, dal risentimento. Il cuore pare aprirsi alla quiete; si fa silenzio, un silenzio vuoto di passioni e di desideri.
Si comprende il senso dell’attesa, si ascolta il respiro che scivola come onda del grande oceano.
È un’altra armonia quella del corpo che si placa, che ritrova la parola leggera, è come un disporsi alla carezza, un lasciarsi scorrere nei tramonti che si tingono d’oro e giacinto come nei versi di Baudelaire:

Guarda su quei canali
come dormon le navi
avvolte nell’umore vagabondo.

Per i tuoi desideri
giungono qui i velieri,
lasciando porti ai confini del mondo.

E del tramonto i raggi
vestono i paesaggi,
con i canali e la città intera,
d’oro e giacinto, il mondo
in un sonno sprofonda
chiuso nel caldo lume della sera.

Settembre è il suono della lira che fluisce melodioso soltanto se le sue corde sono tese in due opposte direzioni: la fine e l’inizio, la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno.

L’anima resta in uno stato di incertezza, tra luce e ombra, una condizione che nutre la poesia e la conduce alla scoperta del legame di compassione che esiste tra la parola e la Natura: la creatura umana partecipa contemporaneamente del finito e dell’infinito così come la Natura, nel suo infinito rinascere, è anche figura dell’eternità.
E ritorna al cuore la parola antenata, il verbo che è all’origine di ogni vita. Che Settembre scorra come acqua da fonte lustrale.

A cura di Save the Words®

1 A. Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2008.