La storia del mausoleo dei 40 Martiri di Gubbio, in cui s’incrociano per la prima volta i percorsi professionali di Pietro Fringuelli e di Pietro Porcinai, è nota. Probabilmente però, per apprezzare pienamente il valore poetico di un’opera controcorrente, perché nostalgicamente eclettica, vale la pena ripercorrere le tappe salienti della tragica vicenda cui la stessa è dedicata.

Il mausoleo sorge sul luogo in cui, all’inizio dell’estate del 1944, è avvenuta la fucilazione di 40 innocenti quale rivalsa dell’esercito nazista per l’assassinio di un ufficiale medico freddato nel pomeriggio del 20 giugno in un caffè del corso cittadino da una pattuglia dei Gruppi di Azione Patriottica. Per rappresaglia, fu indetta una retata e, nel breve volgere di ventiquattro ore, furono fermate centinaia di persone: alcune rilasciate dopo un interrogatorio-farsa, altre trattenute senza motivo. E senza scampo.

All’alba del 22 giugno infatti, nei pressi della scuola elementare dove erano trattenuti gli ostaggi, dopo avere fatto scavare due fosse a ridosso di un muro che ancora oggi evidenzia i segni delle pallottole, 40 eugubini furono seppelliti con qualche manciata di terra dopo essere stati legati come bestie da macello e trucidati in modo selvaggio da una mitragliatrice posta a pochi metri di distanza. 40 martiri che peraltro, come lamentato in un’appassionata ricostruzione dell’eccidio da don Origene Rogari, rappresentavano tutti altrettanti casi pietosissimi: “una madre e la figlia, un unico figlio di madre inferma, padri di cinque, di dieci figli, un padre di cinque bambini già orfani della mamma, due fratelli insieme, un padre e il figlio, onesti lavoratori dei campi e della città, giovinetti, due sordomuti”.

Pochi giorni dopo l’eccidio, le salme dei 40 martiri furono riesumate per essere tumulate in loculi provvisori e già nell’autunno del 1944 il comitato “Pro Quaranta Martiri”, costituito anche al fine di soccorrere le famiglie delle vittime, formalizzò la richiesta di un contributo statale da destinare alla costruzione di un mausoleo. Ma l’iniziativa fu rallentata oltremodo dalle difficoltà di reperimento dei fondi finanziari e dei materiali edilizi. Tanto che il cantiere fu aperto solo nel 1947, quando il progetto architettonico redatto da Pietro Fringuelli approdò alla traduzione cantieristica e i lavori furono affidati a una cooperativa di muratori presieduta da Virginio Belardi che completò l’opera in due anni. L’inaugurazione solenne, infatti, avvenne il 22 giugno 1949, quinto anniversario dell’eccidio, quando il mausoleo venne consacrato alla presenza delle massime autorità civili e religiose.

Seppure volto a tramandare la memoria di una delle pagine più tristi della propria storia, il nuovo edificio fu accolto con grande favore dalla città di Gubbio. Né avrebbe potuto essere diversamente, vista la proficuità del sodalizio professionale istituito nell’occasione da Pietro Fringuelli, protagonista dell’architettura postbellica umbra, e Pietro Porcinai, capostipite dell’arte paesaggistica italiana. Infatti, il minimalismo della sistemazione naturalistica (un prato punteggiato da 40 cipressi) s’integra mirabilmente con l’essenzialità del concept architettonico (un monolite piantato davanti al luogo dell’eccidio). Anche se poi, a ben guardare, la semplicità dell’impianto planimetrico è complicata in alzato da una propensione storicistica che trapela tanto dalle soluzioni costruttive (la struttura è realizzata in muratura calcarea) quanto dalle soluzioni stilistiche (la facciata è composta con stilemi neoromanici) e dalle soluzioni spaziali (l’interno evoca la serialità gotica). Il che tradisce un evidente debito verso gli insegnamenti appresi dallo stesso Fringuelli nelle aule dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, in particolare dalle lezioni del suo maestro Ugo Tarchi.

A ben guardare, infatti, il mausoleo eugubino incarna un’eco accademica che, se da un lato tradisce il ritardo del dibattito architettonico regionale rispetto a quello nazionale (il sacrario romano delle Fosse Ardeatine è inaugurato nello stesso anno), dall’altro lascia il rimpianto per il carattere colto di un approccio storicistico che è stato cancellato senza riguardo dall’irruzione di un movimento moderno che però, proprio perché privo del sostegno di una scuola, ha disseminato una moltitudine di metri cubi di cemento armato troppo spesso indifferenti al contesto ambientale.

Pietro Fringuelli non aveva facilità di penna e comunque non ha lasciato scritti teorici memorabili. Tuttavia, viste le analogie stilistiche tra la facciata del mausoleo eugubino e quella della chiesa dell’Istituto Serafico di Assisi di Ugo Tarchi, non appare illogico riferirgli le parole amare con cui lo stesso Tarchi, in una lettera del 10 marzo 1943 indirizzata al “Reverendissimo Padre Cherubino Calabrese”, committente della nuova sede dell’Istituto Serafico per Ciechi e Sordomuti di Assisi, intuisce (e in qualche modo sancisce) l’epilogo beaux-arts anche in una regione ostinatamente tradizionalista come l’Umbria. “Ho terminato oggi i particolari che mi richiedete per il recinto […] Per il materiale, tutto sarà fatto con la solita pietra locale, per le lastre che formeranno il motivo fra pilastro e pilastro (di cui io ho segnato gli spessori in pianta ed in alzato) dovrebbero essere rifinite come le lastre del parapetto-ringhiera dell’abside”.

Ma il tono demiurgico cede ben presto il passo alla battuta polemica. Tarchi infatti, rivendicata la centralità del progettista (“Tenetemi presente!”), diffida la committenza dall’intraprendere iniziative incoerenti con le previsioni autentiche, accomiatandosi con una considerazione sarcastica che condanna senz’appello il riduzionismo sintattico del linguaggio moderno: “Spero che negli altri lati del recinto […] non si faranno delle muraglie egiziane! […] Altrimenti povera architettura nostra!”.