Un approccio sognante e introspettivo quello alla scultura di Viveka Assembergs (Stoccolma, 1959). Un affondo nella materia alla ricerca di un linguaggio denso e universale. Un viaggio nell'Umano che l'artista conduce con costanza e dedizione alla ricerca di se stessa e degli altri. Con lei, ci inoltreremo nel “territorio magico” della scultura.

Come si è avvicinata alla scultura?

Cercando un linguaggio. L’incontro tra me e la scultura è avvenuto in modo estremamente spontaneo forse come esito naturale di un lungo percorso. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico di Bergamo, ho fatto una lunga esperienza grafica, pittorica, di decorazione e restauro. Discipline nelle quali esprimo il mio carattere riflessivo e controllato. Maturata inconsapevolmente, mi si è rivelata, in modo del tutto improvviso, la scultura quale nuovo mezzo per comunicare. Dopo anni di attenzione verso il segno, ora quest’ultimo si trasformava e diveniva tattile. Il pensiero era divenuto un sentimento nello spazio. Così ha preso nuova luce tutto il mio percorso precedente, quando, ancora piccola, guardavo mio nonno creare nel suo laboratorio. Prezioso ritornava l’insegnamento scolastico. Oggi per me la scultura coincide con il mio confronto nell’ambito dei volumi architettonici e con la disponibilità di materiali legati alla costruzione. È un'espressione piena di passione che vivo come incontro con una virtù, una capacità di linguaggio che è un dono... e a volte temo di perderlo.

Lei vive qui da molto tempo, ma è nativa svedese: come agisce nella sua opera questa “doppia appartenenza”? Attinge da entrambi gli immaginari, quello nordico e quello mediterraneo?

Nella fase iniziale di un lavoro, ritengo prevalga la mia origine. Le mie sculture sono sempre dei racconti e le atmosfere nelle quali vivono sono nordiche. Le luci, i colori, gli odori e i suoni, sono quelli dell’infanzia. Poi, abitano la realtà mediterranea. Escono dall’ombra e assorbono la luce.

Cosa la attrae della realtà? Quali sono i suoi soggetti prediletti?

Come scultrice respiro l’immaginario e lo utilizzo per tradurre sentimenti e stati d’animo, paure e gioie. Della vita reale amo la natura. Riconosco la capacità umana di saper creare bellezza e significato. Da sempre utilizzo la figura immaginandola come soggetto capace di possedere una sua “anima”; in ogni mia opera vi è qualcosa della mia, che uno sguardo attento può cogliere.

Come è giunta a questo suo modo essenziale, ma potente, di traduzione plastica della figura umana? Perché rinuncia ai volti?

Comunico non attraverso la rappresentazione di una fisicità ma lavoro sulla postura, sul movimento. Spesso le figure si allontanano, si distaccano, ci raccontano di essere già altrove. La mancanza dei volti non è certo la rinuncia o la negazione di una identità; spesso bendati, indicano un desiderio di introspezione. Sono figure rivolte al nostro profondo, a ciò che rimane in ombra nella nostra anima. Vi è il desiderio di esplorarlo, il desiderio di raccontare ciò che vi è di inespresso entro i limiti della nostra pelle.

Quale rapporto c'è tra la figura e lo spazio che la circonda?

Quello della scultura nello spazio, sempre. Non ne è esente neppure il mio lavoro, dove le figure prendono corpo in una sorta di vuoto, circondate da una neutralità cromatica, un'atmosfera assente. Avviene perché il loro mondo è all’interno, scorre sulla sottile membrana che le separa e ripara dall’intorno. La scultura, nei secoli, ci evidenzia che essa nasce in un determinato luogo. Una funzione precisa, uno spazio che a volte un committente ha voluto animare, abbellire, per celebrare qualcosa o autocelebrarsi. Le mie sculture, come quelle della maggior parte dei contemporanei, devono trovare un luogo dove completarsi. Cercano pace, armonia, richiedono accoglienza. Non invadono, ma sono da scoprire. Nel caso debbano stare in bella mostra, si spera possano farci credere di essere nate esattamente per quel luogo.

Con quali materiali lavora? C'è una relazione tra le “qualità” dei materiali e il significato delle sue opere?

È una relazione estremamente forte: la ricerca dei materiali è necessaria per trovare un equilibrio tra risultato estetico e messaggio. Ma non è una regola, in alcuni dei miei lavori è accaduto l’inverso. Vi sono materiali che, per le loro caratteristiche costruttive, tattili, per i loro limiti e le loro proprietà, hanno veicolato l’idea, la narrazione. Il materiale comunica con il suo calore, il suo colore, la sua elasticità o rigidità, con la sua storia. Il ferro, che per le sue proprietà non è lavorabile plasmandolo, ha un forte ascendente su di me. Amo tagliarlo, piegarlo e comporlo e spesso fa parte delle mie opere. Il bronzo, che sento l’esigenza di assottigliare. Alla terra concedo il volume e i dettagli. La vetroresina, che ti punge il naso, ti morde lo stomaco, ti brucia la pelle delle mani è per me molto preziosa, è l’unico materiale adatto a rappresentare una delle mie storie.

Vorrebbe condividere con noi una riflessione su quello che è successo in questi ultimi mesi, sull'impatto che la drammatica esperienza del COVID-19 avrà sulle nostre vite e sull'arte?

Silenzio e solitudine. Un'esperienza drammatica per tutti e tragica per tanti. Una presa di coscienza per noi e per tutte le generazioni che non hanno subito privazioni di sorta. Abbiamo vissuto freneticamente, spesso non ascoltando e non ascoltandoci. Un monito che ci dovrebbe indurre a riappropriarci di una condizione semplice che ci faccia riconoscere o ritrovare l’importanza dei rapporti affettivi. Rapporti che abbiamo sempre ritenuti privi di obblighi, nei quali l’amore sembrava esserci dovuto. Un evento duro, crudo, che ci ha scoperti tanto fragili... attraverso il respiro. Cambierà in arte qualcosa; è auspicabile che qualcosa, che già dimostrava di essere alla fine di un ciclo, muti. Troverà nuovi metodi per la fruizione. Cambieremo forse noi artisti che porteremo i segni di tutto questo nelle nostre visioni, fortunati poiché possiamo elaborare queste esperienze attraverso il nostro lavoro.