Anche se continuavo a domandarmi cosa facessi lì, pensai che gli inquirenti non avrebbero dovuto faticare molto.

Un cadavere con la pistola ancora in mano, il tradizionale biglietto d’addio, un pacco di estratti conto, lettere di avvocati, agende, una serie di prove e riscontri così dettagliati, che non sarebbe stato difficile ricostruire cos’era successo, e soprattutto il perché. Io non sapevo niente di questo genere di cose, era la prima volta che assistevo in diretta all’organizzazione del cantiere investigativo, e per quella che era la mia esperienza nel settore - l’aver visto quasi tutti gli episodi del tenente con l’impermeabile stropicciato - la puntata era già finita.

Lì ci sono sempre pochi indizi, tracce vaghe, e si cerca il dettaglio che possa servire a sbrogliare la matassa del movente. Qui era l’opposto, tutto chiaro, evidente. Gli esperti convenuti in quella casa non dovevano scoprire niente, dovevano solo constatare un decesso per suicidio. Forse stabilire l’ora, se si era impallinato prima o dopo aver visto il ciccione stempiato dei quiz, se qualcuno era stato lì con lui, se aveva fatto o ricevuto telefonate. Erano più ufficiali giudiziari che investigatori, dovevano più notificare che cercare prove.

Girovagando per la casa mi ritrovai in cucina. Non riuscivo ad immaginare dove potesse averla trovata, era la cucina dei miei sogni; una Molteni francese, la Bugatti dei fornelli, un modello degli anni '30, ottone opaco e ghisa scura, carichi di stanchezza, orgoglio e cose da raccontare. Immaginavo chi avesse potuto utilizzarla nel corso della sua vita, pensavo alle mani di chi s’era approfittato di lei.

Avrei voluto avere il suo diario con i nomi di chi l’aveva amata, toccata, sentita.

Io, per cucine come queste, vorrei il ‘libro di bordo’, con segnato tutto, dove hanno abitato, cosa hanno cucinato, se vivevano in campagna o in città. Toccavo le irregolarità dei cerchi concentrici che accolgono il fondo di padelle e pentole e che stazionano su fuoco vivo, e stavo bene. Mi capita di rado, ma avvertivo il suo respiro, come quella volta in cui incontrai, da solo, in una stanza di un museo in Città alta a Bergamo, il biplano di Antonio Locatelli vissuto tra i picchi delle Ande negli ‘anni ‘20’. Ex-oggetti diventati gradualmente esseri viventi. Di fianco alle sue ali fragili sentii il vento in picchiata aprirsi sulla faccia spartitraffico del pilota, mentre ora, davanti alla cucina, udivo distintamente il suono della bastardella di rame dello zabaione, annusavo il profumo dell’aglio dentro una sera della primavera del 1939 in una casa di campagna in Provenza.

In mezzo a questa scena chiara, senza segreti, senza codici da decrittare, risultavano fuori luogo come comparse che hanno sbagliato l’ingresso sul palco, otto casse di libri tutte socchiuse come se qualcuno le avesse aperte per verificarne il contenuto. Dagli spiragli riuscivo ad intravedere qualche dorso dei libri e la sensazione era di un gran numero di libri antichi, da svenarsi.

Non era tanto l’incontro frontale con la morte a disturbarmi, avevo una grande esperienza di cose inanimate, pollastri, capretti, conigli, ma intuivo che non poteva essere tutto così perfetto, che qualcosa che non si riusciva a vedere a prima vista, aveva portato il Sig. Kazirra a togliersi di torno. Anche se non in maniera profonda, conoscevo bene quel signore di Parma col nonno armeno.

Mi avevano chiamato a mezzanotte in punto quando, da almeno mezzora, dal ponte di comando della mia poltrona rossa disfatta residuato del mio secondo matrimonio, ero piegato verso destra come un iceberg in balìa delle correnti. Il sonno profondo da tinello, col suo attacco a sorpresa, ha la capacità di non informarti sull’effettivo stato del tuo corpo. Tu dormi beato, senza appello, in una condizione in cui non hai alternative. Non sei consapevole della reale situazione in cui ti stai cacciando. Un po’ come nella vita di tutti i giorni, ma almeno qui hai l’attenuante che dormivi. Poi ad un tratto, una gracchiata della cassapanca o lo squillo del telefono, ti lancia in mezzo ai clacson della tangenziale ovest dei sensi e, dal tuo stato di morte apparente, bisogna organizzare un tentativo di difesa. Coglievo le urla dei miei sopiti addominali di destra che, con l’aiuto di qualche volenteroso dorsale, cercavano di proporre al corpo un progetto di baricentro. La gamba destra, dal ginocchio in giù, svolgeva unicamente compiti di rappresentanza ufficiale, e solo il mio sbattere il tallone con forza e ritmo sul pavimento la riportò, perlomeno, ad uno stato da post-anestesia. Nell’avvicinarmi al telefono mi imbattei nello specchio che, senza nessuna mediazione, riproduceva la realtà. Pochi capelli arruffati e sparati di stravento, la copertina logora di mio nonno sulle spalle, barba lunga e spettinata, gli ultimi colpi ritmati del piede destro per terra, io leggermente ricurvo in avanti per abbassare il volume del dolore. Per un periodo di tempo più lungo del previsto, riconobbi il vecchio sciamano nemico di Tex Willer.

La voce con cui risposi a Pietro Gibellini, non poteva sembrare quella di uno sveglio.

-Lo so che ti ho svegliato, ma ho bisogno che tu venga a vedere un morto.
-Ti ringrazio per il pensiero Pietro, ma avevo sperato in un film.
-È importante per me avere una tua impressione, un tuo parere, fammi un favore.
-Vorrei ricordarti che sono un disoccupato, che lavora in nero in un ristorante durante i week-end, forse che la vittima si è soffocata con un osso buco, è annegata in una vasca di Valpolicella?
-Dai non fare l’asino Arsenio, è una casa particolare ci sono libri ovunque, e…
-…se hai una biro ti posso dare il numero della libreria dove vado io, o di due librai antiquari che conosco bene e…
-Ascolta, ho la sensazione che i suoi libri possano avere a che fare con la sua morte e so che tu potresti notare un dettaglio per noi invisibile, e poi dovresti vedere quanti ce ne sono.
-Cosa vuoi che possa dirti? Si vede che gli piaceva leggere.
-Ti prego fammi un favore, è una cosa importante, si è suicidato Isidoro Kazirra.
-Dov’è?
-In via Antica Porta Marzia al 4.
-Arrivo.

Io abito al n° 8 di via Gherardo Patecchio, a Cremona. La parte posteriore della mia casa confina con la stessa parte della chiesa di San Girolamo, il cui ingresso è su via Sicardo. La schiena del mio bilocale spoglio, contro la schiena di questo trionfo del Barocco cremonese del XVI secolo.

Diceva Longhi che la storia dell’arte verrà riscritta partendo dalle opere della provincia italiana, dai cosiddetti centri minori, dagli artisti minori. Quel giorno scopriremo che quando eravamo andati ad Amsterdam a vedere Van Gogh, avevamo soltanto abboccato ad un’operazione di marketing, e che forse era meglio farsi un giro a San Sigismondo o cercare di raccogliere informazioni su chi era Cristoforo Moretti.

Per andare in via Antica Porta Marzia da casa mia, bisogna prendere vicolo San Girolamo, entrare in via Sicardo attraversare la piazza del Duomo, che a Cremona si chiama Piazza del Comune, scendere Largo Boccaccino e lì, sulla sinistra, si trova questa viuzza convessa con un arco di ingresso molto bello. Due minuti a piedi.

-Lei dove va?
-Mi ha chiamato Pietro Gibellini.
-Lei è della Mobile di Parma, vero?
-No, sono un disoccupato di Cremona, e abito qui vicino.
-E come mai deve vedere il capitano Gibellini?
-Ascolti, sia gentile. Io dormivo come un ghiro, Pietro ... sì il capitano Gibellini... mi ha svegliato dicendomi che dovevo correre qui. Gli dica che sono qui e che se non arriva alla svelta io torno a dormire.
-Lei è il Signor…?
-Ghelfi. Arsenio Ghelfi.
-…Scusi…Arsenio?...
-Sì, Arsenio.
-Che nome strano?
-Guardi a me piace da matti, e ringrazio tutti i giorni i miei di avermi chiamato così. E lei come si chiama?
-Renato.
-E le piace?
-Non lo so.
Ecco vede, questa è la differenza: il mio è strano ma lo amo, il suo non è strano ma sotto sotto, le fa schifo.

Come una visione mi apparve Pietro.

-Ma dove eri finito?
-Io e Renato stavamo dibattendo sulla bellezza dei nomi e…
-Va beh, dai vieni di sopra.

Intanto che salivamo Pietro cercò di aggiornarmi su cosa era successo, ma mi accorsi che non lo stavo ascoltando. L’agitazione e il trambusto avevano preso il sopravvento su ogni cosa, così feci un gesto con la mano per dire a Pietro che in quel momento non l’avrei ascoltato. Riuscii a scorgere distintamente: esperti della scientifica, carabinieri in divisa, carabinieri laici, una fotografa, cronisti, vicini di casa pronti a farsi interrogare, un viscido dell’ufficio IVA non collocabile nella scena, parenti con differente e personale faccia stropicciata, lagrime miste, una pendola antica esperta di quei momenti e desiderosa di sapere dove sarebbe andata ad abitare, don Tancredi, il becchino sbadigliante, la verità dei fatti decisamente claudicante.

Non riuscivo a staccare gli occhi dalla fotografa, non tanto per la qualità dei suoi glutei meravigliosamente protetti in un pantadomopak, ma per la naturalezza con cui si muoveva in mezzo a quella bolgia. Si chinava sul defunto bloccando particolari del volto, delle mani, del sangue raffermo, con la stessa tranquillità con cui mia nonna stendeva il bucato. Da non so quale faldone dei pensieri fu estratta e visualizzata l’immagine dello stufato del giorno prima.

Il giorno dopo Pietro venne a trovarmi a “La Gabbia”, il ristorante dove lavoravo.